2020-06-05
«Migliaia di ragazzine rapite dai giapponesi e costrette a diventare loro schiave sessuali»
L'autrice Jing-Jing Lee ricostruisce in un romanzo la vicenda di tante vittime dei soldati dell'imperatore. Molte non sopravvissero alle crudeltà.Il soldato strinse le dita ancora più forte e tirò ancora ma poi si accorse che mio padre non intendeva lasciarmi. Allora gridò e lo colpì in faccia con il calcio del fucile […] Il soldato lo picchiò di nuovo col calcio del fucile, stavolta nello stomaco, facendolo piegare in due […] Qualcuno era spuntato accanto a me con un pezzo di corda e prima che potessi accorgermene, mi aveva già legato i polsi. C'era una palanca di legno che portava sul camion e lui mi diede una spinta con la baionetta per farmi salire […] Mi sedetti, tendendo la corda, e guardai il gruppo di soldati che marciava da una casa all'altra strappando le donne e le loro ragazze alle loro famiglie». Tutto questo avveniva a Singapore, una colonia inglese occupata nel 1942 dall'esercito giapponese, durante la seconda guerra mondiale. A raccontare questa storia è una giovane scrittrice, nata e cresciuta a Singapore, di etnia cinese, che ora vive ad Amsterdam. Questo suo primo romanzo Storia della nostra scomparsa, pubblicato in Italia da Fazi editore, è un'avvincente vicenda ispirata a una storia straziante legata al comportamento disumano dei soldati del Sol Levante. La giovane Jing-Jing Lee ha interrogato le nonne e altri suoi parenti, testimoni sopravvissuti a quella tragedia, a cui, dopo la sconfitta del Giappone e la fine della guerra, si è prestata poca attenzione. Anzi, come per altre tragedie nel mondo (pensiamo al genocidio degli armeni, alla Shoah, alle stragi del comunista Pol Pot in Cambogia, ai massacri dei tutsi in Rwanda, per non parlare dell'Urss, della Cina), i nuovi governanti e i negazionisti (che affiorano sempre) tendono sempre a stendere una cortina di disinformazione e di silenzio, nel tentativo di rimuovere la memoria. Wang Di, una ragazza di appena sedici anni, venne portata via con la forza a Singapore dalla sua famiglia e rinchiusa dai soldati giapponesi in una delle case a disposizione dei militari. Venne ridotta a schiava sessuale, come migliaia di altre giovani donne, eufemisticamente definite «donne di conforto». Cominciava in questo modo la disumanizzazione, provocata dalla crudeltà dei militari, che maltrattavano, picchiavano, queste ragazze torturandole spesso sino alla loro morte. Un fenomeno quello delle «donne di conforto» poco conosciuto, di cui nessun tribunale si è mai occupato dalla fine della guerra a oggi, a cominciare dalla Corte internazionale sui crimini contro l'umanità. Il numero delle donne coinvolte nei centri varia molto: da un minimo di 20.000 (citazione degli storici giapponesi), sino a un massimo di 410.000 (studiosi cinesi). Quello che appare certo è però la provenienza delle donne: Thailandia, Vietnam, Corea, Malaysia, Taiwan, Indonesia, Cina, Filippine , Birmania, Nuova Guinea, Hong Kong, Macao, Indocina francese e, ovviamente, le isole di Singapore. Anche 300 donne olandesi- secondo una ricerca del governo dei Paesi Bassi- finirono per essere ridotte a schiave sessuali dei militari nipponici. Vi sono state nel complesso poche testimonianze su questo sfruttamento sessuale di massa. Secondo dichiarazioni di soldati, nel dopoguerra la grande maggioranza delle «donne di conforto» ha finito di vivere per stenti, sofferenze, malattie veneree. La maggior parte delle sopravvissute perdeva la fertilità a causa dei traumi e delle malattie trasmesse. Secondo il soldato giapponese Yasuji Kaneko «le donne piangevano ma non c'importava se vivevano o morivano. Noi eravamo i soldati dell'imperatore, sia nei bordelli militari sia nei villaggi violentavamo senza riluttanza». Una donna olandese, Jan Ruff-O'Herne, nel 1990, testimoniò a un comitato della Camera degli Stati Uniti, come vittima dello sfruttamento sessuale: «Molte storie sono state raccontate su orrori, brutalità, sofferenze e inedia delle donne olandesi nei campi di prigionia giapponesi. Ma una storia non fu mai raccontata, la storia più vergognosa della peggiore violazione dei diritti umani commessa dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale, quella delle “comfort women", le “jugun ianfu", e di come queste donne furono prese con la forza e contro la loro volontà, per provvedere alle necessità sessuali dell'esercito di Tokyo. Nei cosiddetti «centri del comfort», sono stata sistematicamente picchiata e violentata giorno e notte. Anche i dottori giapponesi mi stupravano ogni volta che venivano nei bordelli per visitarci a causa delle malattie veneree». Dopo la sconfitta, i militari giapponesi in tutti Paesi occupati distrussero una grande quantità di documenti per il timore di essere perseguiti per i crimini di guerra. Abbiamo intervistato ad Amsterdam Jing-Jing Lee, autrice di Storia della nostra scomparsa. Come ha scoperto queste vicende? Dalle sue nonne, da donne anziane o da altre fonti?«A Singapore tutte le persone di una certa età conoscono le vicende delle “comfort women", avendone sentito parlare sin dall'infanzia. Mi sono innamorata di un personaggio-simbolo, Wang Di, di cui ho “ricostruito" la storia, con tutte le sofferenze e le traversie vissute, sulla scorta di molte altre storie simili, anche coreane. Ovviamente ho approfondito l'argomento consultando i documenti reperibili negli archivi, sia a Singapore sia in Cina e Corea e guardando le testimonianze filmate delle donne che sono riuscita a rintracciare». Quali reazioni ha registrato nelle persone della generazione che ha vissuto quegli eventi e nei giovani di oggi? «Le reazioni sono state variegate. Molti lettori di età avanzata, non asiatici, mi hanno scritto per dirmi che non conoscevano l'esistenza di queste donne. Vi sono stati però dei lettori giapponesi che hanno espresso un grande interesse per il mio libro, anche se a volte con imbarazzo».Crede che il suo racconto possa interessare i giovani lettori? «Penso di sì. Anche perché la storia spesso si ripete, come si è visto con gli stupri di guerra, registrati in guerre anche recenti».Anche se sono trascorsi più di settant'anni da quei tragici fatti, non pensa che sia necessario promuovere una iniziativa (culturale, politica, giudiziaria) per ricordare quei crimini, che non sono solo di guerra, ma contro l'umanità? «Credo che la maggior parte dei responsabili di quei crimini di guerra siano morti o sono così anziani che non farebbero in tempo a vedere la conclusione di un eventuale processo. Penso che il gesto più significativo da parte del governo giapponese possa essere quello di porgere le scuse ufficiali e irrevocabili per i crimini commessi dai militari verso le donne».Come è stato accolto il suo libro in Giappone?«Gli editori giapponesi, almeno fino a oggi, non hanno mostrato alcun interesse a pubblicare il mio libro. Vedremo in futuro. Qualche reazione negativa l'ho comunque registrata, da parte dei giapponesi che vivono fuori del Giappone. Una donna, che ho incontrato in un festival, mi ha detto che non conosceva quella pagina nera della storia giapponese. Un'altra donna, nippo americana, mi ha contattato per farmi i complimenti, dicendomi “finalmente qualcuno racconta la verità». Ma ho avuto anche reazioni negative, soprattutto dopo una mia intervista alla Bbc world news. Alcuni giovani, presumo ultranazionalisti giapponesi, mi hanno attaccato a lungo sui social, definendomi nel caso migliore una spia sudcoreana».E lei che cosa ha risposto? «Mi sono fatta una bella risata e li ho semplicemente ignorati».