«La salute mentale non è moda». La protesta contro Gucci diventa virale

- La sfilata organizzata dal direttore creativo Alessandro Michele fa parlare per la discutibile scelta di portare sul defilè camici che ricordano quelli indossati dai pazienti psichiatrici. Secondo Ayesha Tan Jones «mostrare queste malattie come oggetti di scena per vendere i vestiti è volgare».
- Il duo formato da Domenico Dolce e Stefano Gabbana presenta la sua ultima collezione ispirata alla giungla urbana. L'80% dei capi in passerella è prodotto da mani italiane.
- Pop giapponese e vibrazioni hawaiane per la collezione di Gcds. Giuliano Calza, stilista e creatore del marchio, ha portato a Milano il mondo dei manga trasformando gli occhi delle modelle con speciali lenti a contatto.
- Dalla paglia al turbante, Borsalino riscrive la storia del cappello.
Lo speciale contiene quattro articoli, gallery fotografiche e video.
«È di cattivo gusto per Gucci usare l'immagine delle camicie di forza […] Mostrare queste malattie come oggetti di scena per vendere i vestiti nel sistema capitalista di oggi è volgare, banale e offensivo per quei milioni di persone nel mondo afflitte da questi problemi». Con un post sul suo profilo Instagram, la modella Ayesha Tan Jones - meglio conosciuta come Yaya Bones - ha spiegato il perché di quel messaggio scritto sui palmi delle mani durante la sfilata di Gucci di domenica scorsa.
Ma facciamo un passo indietro. Il marchio, guidato da Alessandro Michele, è uno dei nomi più importanti nel portfolio di Kering (il secondo gruppo di moda più grande al mondo) e nel 2018 ha registrato un fatturato di 4.6 miliardi di euro (il 62% dei ricavi del gruppo). Solo nei primi sei mesi del 2019, Gucci ha guadagnato più che nel corso di tutto il 2016 e secondo alcune stime, entro il 2020 dovrebbe raggiungere i 10 miliardi di euro complessivi. Un incredibile successo che ha reso il marchio un'eccellenza in Italia e nel mondo. Complice dell'interesse attorno a Gucci è la visione di Michele, completamente fuori dagli schemi. Le sue scelte hanno più volte fatto parlare: tutti i ricordiamo quelle finte teste portate sotto braccio lungo la passerella o la campagna pubblicitaria per la nuova linea beauty con la cantante Dani Miller, al cui sorriso mancano i denti tra incisivi e canini.
Domenica scorsa, durante la presentazione della nuova collezione estiva, abbiamo assistito a una serie di modelli sfilare immobili lungo un tapis roulant con indosso quelle che sembrano delle camicie di forza, prima che la musica partisse e con essa la vera e propria passerella. Per Alessandro Michele il messaggio è chiarissimo: «Le uniforme, i vestiti utilitari, gli abiti normativi, incluse le camicie di forza sono state inserite nella sfilata primavera-estate 20202 di Gucci come la visione più estrema dell'uniforme imposta dalla società e da chi la controlla». Opinione non condivisa da Ayesha Tan Jones che davanti a decine di flash ha alzato le mani per mostrare il suo grido silenzioso: «La salute mentale non è moda». La modella ha spiegato come molte sue colleghe abbiano condiviso la sua presa di posizione e come tutti i soldi guadagnati dalla sfilata verranno devoluti a un'associazione che si occupa di igiene mentale. Sull'account ufficiale del brand è stato specificato che i capi erano «funzionali allo show e non saranno venduti», sottolineando nuovamente l'intenzione da parte del direttore creativo di mostrare l'importanza dell'espressione personale.
Sempre Gucci ha spiegato come gli 89 look presentati in passerella «trasmettono il concetto di moda come strumento di esplorazione e auto espressione, coltivando la bellezza e rendendo la diversità sacrosanta». Indubbiamente la collezione, più minimal ed elegante delle precedenti, sarà un successo di pubblico (oltre che di critica), ma la protesta di Yaya Bones mette in luce un quesito su cui il mondo della moda dovrebbe riflettere. Non dovrebbero forse essere i capi ad arrivare ai potenziali clienti, senza la necessità di utilizzare queste - spesso insensibili - trovate pubblicitarie?
Dolce&Gabbana presenta la sua giungla urbana
«Welcome to the Jungle». Il duo di stilisti formato da Domenico Dolce e Stefano Gabbana si allontana dalla tanto amata Sicilia e si imbarca in un incredibile e coloratissimo safari. Una giungla urbana dove sono le stampe a farla da padrone. Perché se la Sicilia rappresenta le radici del duo, «la giunga è il mondo». Ecco allora che si passa dall'immancabile animalier - leopardato, zebrato, ghepardato - a una flora verde e rigogliosa. La maison resta così fedele al suo dna (non mancano omaggi ai pezzi più iconici del brand) riuscendo però a offrire un'immagine inedita.
Lo chiffon, la seta e la rafia la fanno da padrone, mentre un esercito di donne sfila su tacchi vertiginosi. Ed è proprio la rafia, lavorata a mano con tecnica crochet dagli artigiani cestai toscani, che incanta gli spettatori. Le sfilate Dolce&Gabbana hanno quella capacità unica di fondere prêt-à-porter e alta moda, con capi fatti a mano degni dei grandi atelier di un tempo. Per gli stilisti, gli artigiani italiani «amano accettare le sfide più strane, dando forma e vita ai nostri cartamodelli. Non esiste al mondo un altro Paese dove questo sia possibile». L'80% dei capi che finiscono in passerella sono prodotti a mano in Italia. Una percentuale da record.
La sensualità viene reinterpretata, abbandonando i tabù e diventando «meno urlata». L'essere sexy si esprime oggi attraverso «il colore, la leggerezza e l'allegria». Lo si fa anche attraverso il trucco e le acconciature. Capelli raccolti grazie a foulard stampati, occhi incorniciati da un eye-liner anni Cinquanta e labbra rosso fuoco caratterizzano le donne che attraversano con passo sicuro il tappeto leopardato con cui è stato decorato il Metropol.
«È una collezione molto felice che riflette quello che siamo» spiegano Dolce & Gabbana che al pubblico e alla critica fanno una sola richiesta: «La nostra vita è la moda: giudicateci, se proprio dovete, per quello che vedete in passerella».
Pop giapponese e vibrazioni hawaiane per la collezione di Gcds
K-Hawaii, ovvero Kawaii e Hawaii. Bastano queste due parole per descrivere la collezione primavera-estate presentata da GCDS (God Can't Destroy Streetwear, ndr). Analizziamole una per una.
Kawaii è un termine giapponese. Un aggettivo molto usato dalla popolazione nipponica che in italiano può essere tradotto come «carino» o «adorabile». Se vi fosse mai capitato di fare un viaggio in Giappone, lo avrete sicuramente sentito dire da uomini e donne di tutte le età. Un cibo, un capo d'abbigliamento, un personaggio dei fumetti, tutto può essere «kawaii». Giuliano Calza, fondatore e direttore creativo di GCDS, ha così deciso di portare in passerella modelle dai maxi occhi neri - ottenuti con speciali lenti a contatto - parrucche colorate, frange e codini. Un look infantile, proprio come detta la tradizione dei personaggi dei manga nipponici; con le loro fattezza bambinesche e ingenue. Il guardaroba si fa così multicolor, con micro bikini di crochet e cappellini decorati dagli orsetti del cuore, ma anche sneaker e borse giocattolo con il volto di Hello Kitty. Non solo, i bomber e i pantaloni sono arricchiti da coloratissimi manga. Un omaggio a tutto ciò che è Giappone e che può mettere il sorriso.
Hawaii è l'altro elemento cardine della collezione, il cui styling è stato curato dall'inglese Anna Trevelyan. Le isole del Pacifico rivestono una doppia funzione: esprimono al meglio la voglia di mostrare il proprio corpo e fungono da set per il primo Jurassic Park, cui Giuliano Calza si ispira anche per il set. La passerella è infatti animata dalla presenza di un enorme T-rex, pronto a ruggire. La locandina del film appare anche su magliette, scarpe e altri capi di abbigliamento, in una collezione che sembra un album di ricordi adolescenziali.
GCDS è un marchio figlio del suo tempo. Un brand nato dall'idea di un Millennial (Calza ha 31 anni, ndr) per i Millennial. E si sa, in questi tempi niente vende come la nostalgia.
Dalla paglia al turbante, Borsalino riscrivere la storia del cappello
Borsalino si ispira all'«arts and crafts», il movimento artistico nato in Inghilterra alla fine del XIX secolo che segna la nascita del ceto medio e quella del design. Giacomo Santucci, «creative Curator» dello storico marchio di cappelli fondato in Piemonte nel 1857, costruisce un vero e proprio impero dei segni che parte dalle poetiche volute di ferro del Crystal Palace progettato da Joseph Paxton per l'Expo di Londra del 1851 e approda prima sui foulard, poi su copricapi di ogni forma e materiale per lui e per lei. Rafia crochet, panama dipinti a mano, mix di intrecci di canapa e cotone, treccia carta e denim oltre a tutte le finezze di Panama e Montecristo si alternano in 160 spettacolari modelli. Tiare di metallo impreziosiscono le cinte e spille staccabili permettono di avere un look sempre diverso, e sempre attuale. Ci sono fez e fedora, il classico Panama estivo e l'irriverente baseball in cotone con visiera di plexiglass nei più squillanti colori della libertà.
Sono tante le figure che ispirano la collezione per la prossima primavera-estate. Karl Lagerfeld viene ricordato nella bustina internamente rivestita di microperline, mentre Oscar Wilde e la sua frase «o si è un'opera d'arte o la s'indossa» ispirano il cappello di paglia stretto in un corsetto di pelle dalle linee scultoree. Lady Gaga e il suo proclama «voglio solo cambiare il mondo una paillette alla volta» sono il punto di partenza per i modelli francesi - basco, film e Motard - mentre il turbante di seta fa l'occhiolino alla stilista Elsa Schiaparelli.




































