La guerra che minaccia l’Italia: i mercenari di Wagner hanno preso Al Jufra, aeroporto strategico per la Libia. I paramilitari consentono a Mosca di gestire vari Stati del continente, imporre regimi, drenare risorse e usare l’immigrazione contro l’Ue.
La guerra che minaccia l’Italia: i mercenari di Wagner hanno preso Al Jufra, aeroporto strategico per la Libia. I paramilitari consentono a Mosca di gestire vari Stati del continente, imporre regimi, drenare risorse e usare l’immigrazione contro l’Ue.La scorsa settimana le unità di mercenari russi, uniti sotto la bandiera della compagnia Wagner, hanno preso possesso dell’aeroporto libico di Al Jufra. I russi si sono spostati da Sokna per installare lì la loro nuova base. Guarda caso in un punto ancor più strategico, in modo da essere pronti ad affrontare la nuova tornata di instabilità in un Paese che da troppo tempo attende libere elezioni e che tre giorni fa ha assistito al rapimento di addirittura tre ministri poco prima dell’insediamento. La base di Al Jufra è però semplicemente la punta dell’iceberg. I movimenti del gruppo paramilitare, legato a Evgenji Prigozin, il cosiddetto cuoco di Putin, dal 2014 a oggi sono in costante crescita. Gli uomini di Wagner sono stati tracciati non solo in Siria e in Ucraina, ai tempi della prima guerra del Donbass, ma almeno in 20 Stati africani. Se nel 2016 il gruppo registrava, secondo fonti russe, circa 1.000 dipendenti, a quanto risulta alla Verità adesso i mercenari di Wagner sarebbero 250.000. Pur comprendendo addetti alla logistica e all’amministrazione si arriva a un numero esorbitante, pari a quello di un esercito vero e proprio. Un dato che serve a comprendere come Vladimir Putin stia da tempo preparando una morsa sull’Africa e un ritorno agli schemi della guerra fredda. Nell’ultimo anno ci sono stati lungo il continente nero ben sette colpi di stato. Cinque sono andati a segno. È accaduto in Sudan, in Mali, in Guinea, in Ciad e da ultimo in Burkina Faso. In almeno tre, la presenza dei russi è palesemente tracciabile anche perché Mosca ha cominciato a usare i paramilitari per ampliare la dottrina del soft power. Non sono più soltanto tagliagole, ma servono a gestire i rapporti economici dei paesi con i quali lavorano. Servono a distribuire medicine o ad assistere la popolazione locale, proteggendola dalle incursioni delle milizie avversarie. Basti pensare che ai mercenari di Putin è stato dedicato un film quasi hollywoodiano, ambientato però in Repubblica Centrafricana (altra nazione fallita che i russi stanno inglobando). L’intento è far sapere a tutto il mondo che esistono e sono in grado di sostituirsi ai peacekeeper europei o Nato. Non è un caso, insomma, che in pochissimo tempo l’infiltrazione russa in Mali sia riuscita addirittura a scalzare i francesi. E imporre all’intera Unione europea di ridislocare in Niger le truppe (italiani compresi) impegnate nella missione Takuba. Uno spostamento valido finché i russi non riusciranno a sostenere un colpo di Stato anche lì, nel bel mezzo del Sahel. Perché ormai la strategia è chiara. Mentre gli europei sono distratti dalle proprie debolezze economiche e dall’attenzione alla Cina - anch’essa iperattiva in Africa - Mosca mira alle ricchezze del sottosuolo sahariano e a destabilizzare l’Ue facilitando l’invio di altre migliaia di immigrati clandestini. Il progetto si basa da un lato sull’uso feroce ma sapiente dei mercenari, i quali ormai sanno finanziarsi acquisendo direttamente miniere o altre concessioni e dall’altro lato rimettendo in pista la tradizionale diplomazia pre Muro di Berlino. Le giunte militari o i governi dei paesi citati sopra sono zeppi di ministri o colonnelli che hanno studiato a Mosca. Anche 15 anni fa. Sono asset rimasti nel cassetto e tirati fuori al momento giusto. A volte di nascosto (vedi l’ultimo colonnello che ha preso il potere in Burkina Faso), altre volte pubblicamente. Il ministro dello sviluppo economico del Sudafrica, Lindiwe Zulu, ha studiato e si è formato a Mosca ai tempi dell’apartheid e, commentando l’astensione al voto Onu di condanna della guerra in Ucraina lo scorso mercoledì, ha detto: «Non siamo qui a prendere le distanze da una relazione di amicizia che abbiamo sempre avuto». Nel 2019 in occasione del summit africo-russo, Putin ha dichiarato: «Non siamo qui per ripartire le ricchezze del continente ma a creare una nuova competizione attorno ad esse». Non mentiva del tutto in quell’occasione. Scaldando gli animi attorno ai principali fornitori di materie prime in effetti i prezzi sono saliti. Poco importa che ne sarà il beneficiario. Il racconto russo è quello di una nuova inclusione fatta di tanti dettagli. Lo scorso primo marzo ad Addis Abeba si celebrava l’anniversario della battaglia di Adua, che segnò lo stop dell’avanzata italiana. In piazza assieme alle bandiere etiopi sventolava quella dei russi, coinvolti nelle più recenti guerre del corno d’Africa. Un messaggio antico e moderno al tempo stesso. Da cui bisogna guardarsi con attenzione. L’avanzata russa da Sud arriverà prima o poi al Mediterraneo, dove nel peggiore dei casi bloccherà i rapporti dell’Italia e nel migliore (si fa per dire) renderà la Turchia di Recepp Erdogan ancora più potente. Sarebbe il caso di non perdere altro tempo. Non servono i militari con le regole di ingaggio tradizionali in Mali o in Libia. Serve chi contrasti alla pari Wagner. Ne va della nostra economia e della nostra stabilità.
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