2019-01-22
Euro, difesa, immigrati: è guerra con Parigi
Oggi la firma del patto: Berlino dividerà il seggio Onu con Parigi. L'intesa serve a spingere l'unione Almston-Siemens. E ad arginare l'attivismo di Leonardo.Luigi Di Maio svela il trucco del franco Caf. E la Francia convoca l'ambasciatrice. Con la moneta, agganciata all'euro, sono tenute sotto controllo 14 ex colonie. Sulla carta l'adesione è volontaria ma Mali e Costa d'Avorio rinunciarono a uscire dopo ritorsioni finanziarie. Il vicepremier: «Così Paesi sfruttati». Nel 936 Ottone I, futuro imperatore del Sacro romano impero, fu incoronato re di Germania. Avvenne nella cattedrale di Aquisgrana. Nel diciassettesimo secolo e in quello successivo la città è stata sede di importanti trattati diplomatici, fondamentali per rilanciare il ruolo della Francia nello scacchiere europeo. E lo stesso potrebbe accadere oggi. Qui si incontrano infatti Emmanuel Macron e Angela Merkel per celebrare il terzo trattato di Aquisgrana. Il nuovo documento mira a «creare una grande convergenza» tra i due Stati (ancora più grande della attuale) e a detta dei portavoce dei rispettivi governi vuole fare un passo avanti rispetto allo storico accordo firmato all'Eliseo nel 1963. Fondi comuni su temi come la sicurezza, la formazione professionale, l'università e pure l'industria. Fin qui nulla di così trascendentale se non fosse per i commi apparentemente secondari. L'articolo 8 lavorerà per l'ammissione della Repubblica federale tedesca nel consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, grazie alla condivisione del seggio francese. Un passaggio storico dal momento che un Paese vincitore della Seconda guerra mondiale si impegna a lasciare spazio vitale alla nazione contro la quale la composizione stessa dei membri del suddetto organismo è stata ideata e costruita. Il tutto senza aver condiviso la strategia con gli altri Paesi Ue. La mossa avrà numerosi effetti dirompenti. Innanzitutto a Washington, dove dovremo attenderci reazioni poco composte da parte di Donald Trump, ma anche in Italia e nel resto dell'Ue. Non tanto perché l'Onu sia considerato decisivo, quanto perché il passo segna la rottura definitiva della finta impalcatura della diplomazia europea, quella guidata da Lady Pesc, Federica Mogherini, tanto per capirsi. Perché Merkel e Macron siano arrivati a tale provocazione lo si può forse facilmente spiegare con le rispettive situazioni politiche di crisi. Parigi brucia per mano dei gilet gialli e la Merkel si prepara a uscire di scena con inaspettati segni «meno» di fronte ai principali indicatori economici. Serve forzare la mano nel tentativo di unire le forze. La speranza è quella di assemblare una sola locomotiva che traini l'Ue. Il senso è: o la va o la spacca. Il rischio che sia una scelta rovinosa è molto elevato. Parigi e Berlino dovranno far fronte comune in politica estera, ma le due economie non sono allineate. La Cina non rappresenta lo stesso pivot per entrambe e i rapporti con gli Usa sono asimmetrici. Inoltre le due nazioni dovranno premere l'acceleratore anche sui trattati interni all'Unione. Basti pensare alle dichiarazioni di ieri del ministro francese dell'Economia, Bruno Le Maire, che si è speso per fare pressioni sul regolatore Ue affinché la fusione tra Alstom e Siemens venga approvata senza indugio. La firma del nuovo trattato di Aquisgrana getterà ponti preziosi per fondere i rispettivi colossi e nulla impedisce di pensare che banche francesi possano intervenire in Commerzbank e pure in Deutsche Bank. Non sappiamo se Bruxelles sarà prona ai diktat. Al momento lo è stata. Lo si capirà ancora di più quando l'Authority Ue sulla concorrenza dovrà pronunciarsi sull'acquisizione di Stx da parte della nostra Fincantieri. Le autorità anticoncorrenza francese e tedesca hanno chiesto alla sorella maggiore di bloccare il deal. Sarebbe contro le logiche del mercato. E lo hanno fatto il mese scorso, dopo aver capito che la francese Thales, specializzata in aerospazio, non avrebbe più potuto mangiarsi pezzi importanti di Leonardo e al tempo stesso l'accordo voluto da Giuseppe Bono non avrebbe garantito all'industriale sommergibilistica tedesca il classico posto al sole. L'Eliseo è consapevole che il nuovo governo gialloblù, ma soprattutto la Casa Bianca sotto la guida di Trump, non sono disposti ad assegnare ai francesi un ruolo di predominio nell'industriale aerospaziale. Già comandano in Airbus, cedere anche la sovranità dell'industria militare avrebbe comportato uno spezzatino di Leonardo. Gli Usa (anche fosse per la semplice logica del divide et impera) non lo possono accettare. Da qui il passo indietro del governo di Macron e la scelta di rafforzare il matrimonio con la Merkel. Stressato dai problemi interni non sappiamo quanto possa aver calcolato i rischi della mantide religiosa teutonica. Legarsi definitivamente a Berlino porterà una parte dell'intellighenzia francese a ribellarsi. I militari non sono disposti al gemellaggio con i cugini tedeschi. La tradizione bellica glielo impone e pure il senso di superiorità. Sembrano dettagli, ma non vanno sottostimati. Perché nei prossimi mesi Macron rischia di vedersi impegnato su due fronti: le proteste in piazza e la guerra alle spalle nei palazzi che contano.Dal canto italiano, bisognerà capire se il desiderio - reso pubblico poche settimane fa da Matteo Salvini - di dialogare con la Germania si realizzerà solo dopo le europee e soprattutto il governo dovrà prepararsi a una piano B nel caso in cui l'Authority Ue bocci l'acquisizione dei cantieri di Saint Nazaire da parte del colosso guidato da Bono. Riorganizzare il sistema Difesa facendo dialogare Fincantieri e Leonardo? Affidare a Cdp un ruolo tecnico che al momento non sembra essere sul tavolo? Dopo l'F 35, il caccia di Lockheed Martin, salire sul treno di nuovi progetti Usa? Dal Sì o dal No dell'Antitrust Ue a Bono dipenderanno molte cose. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/merkel-e-macron-rifanno-la-pace-di-aquisgrana-per-il-gigante-dei-binari-2626648833.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="di-maio-svela-il-trucco-del-franco-caf-e-la-francia-convoca-lambasciatrice" data-post-id="2626648833" data-published-at="1758179183" data-use-pagination="False"> Di Maio svela il trucco del franco Caf. E la Francia convoca l’ambasciatrice Davanti agli occhi preoccupati di Fabio Fazio, con ampio gesto teatrale, domenica sera Alessandro Di Battista ha strappato una banconota sul tavolo di Che tempo che fa, sostenendo che quel pezzo di carta sia lo strumento attraverso il quale la Francia continua a sfruttare le risorse del Continente nero, ne frena la crescita e obbliga i giovani a emigrare: «Finché non si eliminerà questa moneta», ha aggiunto l'ex parlamentare grillino, «le persone continueranno a scappare dall'Africa e a morire in mare». Poco dopo Giorgia Meloni, sventolando una banconota simile nella trasmissione Non è l'Arena di Massimo Giletti, è andata all'attacco del «neocolonialismo francese, che fa usura con la sua valuta». Ma già la mattina di domenica aveva aperto le ostilità Luigi Di Maio, che parlando alla folla di un comizio ad Avezzano l'aveva indicata come «moneta imposta con la quale la Francia finanzia il suo debito pubblico sfruttando le sue ex colonie». Affermazione che 24 ore dopo ha prodotto la convocazione della nostra ambasciatrice a Parigi Teresa Castaldo (che, per la cronaca, quando era di stanza in Argentina ospitò la Boschi per far campagna per il sì al referendum costituzionale) da parte del ministero degli Esteri francese «a seguito di frasi ostili e senza motivo». Il vicepremier, in serata, ha poi rincarato la dose: «Non è un caso diplomatico, è tutto vero. La Francia, stampando una moneta per 14 stati africani, impedisce lo sviluppo dell'Africa e contribuisce alla partenza dei migranti che poi muoiono sulle nostre coste». Poi una richiesta all'Ue: «Chiederemo all'Europa di affrontare il tema della decolonizzazione dell'Africa che non è mai finita». La valuta delle 1.000 polemiche è il franco Cfa, istituito il 25 dicembre 1945 per iniziativa del presidente francese Charles De Gaulle, e da quel momento divenuto moneta comune per circa 160 milioni di abitanti in 14 Paesi africani. Di questi, 12 erano colonie francesi (Camerun, Ciad, Gabon, Repubblica Centrafricana, Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Mali, NIger, Senegal e Togo) e due erano colonie portoghesi (Guinea Equatoriale e Guinea Bissau). Settantaquattro anni fa, la sigla Cfa significava «Colonie francesi d'Africa» e oggi non è mutata, ma (con qualche ipocrisia) sta per «Comunità finanziaria africana». Da allora, il franco Cfa è sempre stato stampato fisicamente dalla Banque de France e ha avuto il cambio fisso prima con il franco francese e oggi con l'euro. Secondo i suoi tanti detrattori, certo non soltanto italiani, attraverso quella valuta «imposta» Parigi ha sempre tenuto letteralmente per il collo i 14 Paesi aderenti: metà del valore dei franchi Cfa emessi ogni anno, l'equivalente di una dozzina di miliardi di euro, viene trattenuto a Parigi su un conto speciale del ministero del Tesoro come garanzia per compensare eventuali fluttuazioni del cambio. Quindi paradossalmente, sia pure in piccola parte, con i soldi degli africani Parigi finanzia il suo debito pubblico. L'aspetto ancora più contestato, però, è che il cambio troppo alto del franco Cfa da anni strangola le economie africane, e così spinge i loro abitanti all'emigrazione. La primogenitura dell'attacco al franco Cfa storicamente spetta a Fratelli d'Italia. Oggi la bandiera di guerra sventola anche nelle mani del Movimento 5 stelle, da mesi all'attacco frontale di Emmanuel Macron. Anche in questo in piena sintonia con il movimento dei «gilet gialli» (che in dicembre avevano colorato un'affollata protesta di piazza contro il franco Cfa a Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana), i grillini sostengono che nella moneta «teleguidata» da Parigi si nasconda un vergognoso residuo di colonialismo che comprime l'economia africana, e puntano il dito sui suoi potenti effetti migratori, disastrosi soprattutto dal punto di vista italiano. Sicuramente il franco Cfa, da anni, è quantomeno una moneta controversa: lo scorso settembre, per esempio, una giornalista francese, Fanny Pigeaud, e l'economista senegalese Ndongo Samba Sylla hanno pubblicato il saggio L'arma invisibile della Françafrique: storia del franco Cfa. Il libro presenta la moneta come «causa principale del sottosviluppo». I due ricordano che il franco Cfa impedisce agli Stati aderenti al trattato del 1945 di manovrare i tassi di cambio e di organizzare una loro politica monetaria. Se i 14 Paesi dovessero esportare stabilmente in Europa e in Usa, dovrebbero utilizzare una moneta più competitiva, come quelle asiatiche, mentre l'euro è quasi sempre più forte del dollaro. È vero che il franco Cfa da 74 anni è uno strumento di controllo a distanza delle vecchie colonie, nelle mani di Parigi. La Gran Bretagna, che pure conserva intensi legami commerciali con il suo antico impero nel Commonwealth, non ha mai obbligato nessuno dei suoi 54 ex possedimenti all'uso di un cambio fisso con la sterlina, né alla creazione obbligatoria di una moneta collegata. Chi invece minimizza la questione sostiene che il franco Cfa non abbia nulla di vessatorio né di obbligatorio, e che garantisca soltanto stabilità. Nel luglio 2017, in effetti, un Macron appena eletto presidente aveva affrontato il tema parlando a Bamako, in Mali: «Se non si è felici nella zona franco Cfa», aveva dichiarato monsieur le president, «la si lascia e si crei una propria moneta come hanno fatto Mauritania e Madagascar. Se invece si resta dentro, bisogna smetterla con le dichiarazioni demagogiche che indicano il franco Cfa come capro espiatorio dei vostri fallimenti politici ed economici, e la Francia la fonte dei vostri problemi». Però va ricordato che chi ha tentato in passato di uscire dal franco Cfa, proprio come il Mali e la Costa d'Avorio, è stato velocemente costretto alla retromarcia dalle pesanti contromisure finanziarie di Parigi. Quanto all'emigrazione, chi minimizza gli effetti del franco Cfa sottolinea che, per l'Italia, gli sbarchi di immigrati partiti dai 14 Paesi nel 2018 sarebbero piccola cosa: «Il primo Paese che adotta il franco Cfa è la Costa D'Avorio, da cui sono arrivate 1.064 persone su 23.370», si leggeva ieri su ilfoglio.it. Però, in base ai dati ufficiali dell'Alto commissariato delle Nazioni unite, la Guinea (la statistica non indica se si tratti della Guinea Bissau o di quella Equatoriale) è il primo Paese di provenienza per quanti l'anno scorso hanno attraversato il Mediterraneo e sono sbarcati in Europa: 13.068 immigrati, l'11,5% del totale; il Mali si è piazzato al terzo posto con 10.347 immigrati, il 9,1%; e la Costa d'Avorio si è piazzata all'ottavo posto con 6.085 sbarcati, il 5,3% del totale. Insieme, i tre Paesi valgono il 25% dell'emigrazione nel Vecchio continente.
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