2020-02-15
Matteo strepita per avere Eni o Enel. Ma D’Alema ha degli altri programmi
L'ex sindaco di Firenze ha in mente solo una cosa: non essere escluso dal grande valzer delle nomine. A condurre le danze, tuttavia, c'è un suo nemico storico: Baffino. Molto ascoltato da Giuseppe Conte e Roberto Gualtieri.È il febbraio del 2017 quando Matteo Renzi fa un veloce viaggio in California. D'altronde non basta più l'Arno per sciacquare i panni e diventare grandi comunicatori: serve molto di più, ai tempi moderni. Così, per essere leader del futuro e conferenziere di successo, l'ex premier si immerge nel tempio della Silicon Valley. Solo che mentre è fuori Italia si consuma in fretta la scissione del Pd. Intervistato da Fabio Fazio, Renzi punta subito il dito contro Massimo D'Alema. «Era tutto scritto, ideato e prodotto da D'Alema. Io mi sono dimesso perché era giusto, per poter scegliere il nuovo segretario. E loro se ne sono andati lo stesso. Mi si può chiedere di dimettermi, non di non ricandidarmi. Di rinunciare al mio sogno. Mi dispiace. D'Alema e i suoi non hanno mandato giù il rospo: che qualcuno non dei loro dirigesse il Pd». Pochi giorni prima l'ex capo dei Ds aveva avuto modo di definire lo scout di Rignano «arrogante», ribadendo le accuse mosse già nel 2013, quando non gli aveva lesinato epiteti come «giamburrasca» e «inaffidabile». Il rapporto tra i due politici adesso sembra essere cambiato radicalmente. Non si parlano più. Si combattono dietro le quinte a colpi di poltrone e scelte tattiche attorno alle partecipate di Stato. A far saltare la mosca la naso di Renzi sarebbe stata la riunione informale che si è tenuta la scorsa settimana tra Pd e 5 stelle per avviare una prima forma di manuale Cencelli delle oltre 300 nomine in scadenza da qui a fine giugno. Molte dipendono direttamente dal Mef che, inutile ribadire, è guidato da Roberto Gualtieri, che con D'Alema condivide una buona fetta di storia. E Baffino, del resto, è molto ascoltato anche da Conte. Dall'incontro sarebbe emerso che nessuno dei primi cinque amministratori delegati delle big pubbliche (Eni, Enel, Terna, Leonardo e Poste) sarà di emanazione renziana. D'altronde, Italia viva è poco più di un supporter che vale - a essere ottimisti - un 5%. Per l'ex sindaco di Firenze un colpo basso, visto che è convinto di portare a casa almeno uno degli ad di Eni o Enel. Nemmeno l'ipotesi di poter avanzare la candidatura di uno dei presidenti (o tre consiglieri tra le 5 big) l'avrebbe fatto stare sereno. Da uomo di palazzo sa che non siamo ancora nella fase delle liste.Proprio per questo la cosa fondamentale è fissare le regole del gioco per definire il potere futuro. La cosa che più lo farebbe imbestialire è l'attivismo di D'Alema, che già a novembre (all'epoca delle 50 nomine tra le controllate di Cdp) ha piazzato pedine molto importanti. Nel frattempo, la capacità di lungo corso del diessino gli ha consentito di mangiarsi pian piano i grillini. Basti pensare al caso di Antonio Agostini. Il neo presidente del Demanio è storicamente vicino a D'Alema, eppure è finito a dirigere l'Agenzia fiscale spinto dalla componente 5 stelle. Stefano Buffagni è da mesi caduto in disgrazia: non si occupa più di nomine. Al suo posto il Movimento ha scelto il ministro Riccardo Fraccaro, il quale non maneggia direttamente la pratica. Ad aiutarlo è Antonio Rizzo. Assurto alle cronache come «gola profonda» di Mps, oltre a essere il volto dietro lo pseudonimo di «Superbonus» (editorialista finanziario e blogger per il sito del Fatto Quotidiano. Nel 2008 fu lui a rivelare le dinamiche dietro alla cosiddetta «banda del 5%». Adesso si prepara a consigliare Fraccaro su chi saranno i prossimi vertici di Mps. Bizzarro, visto il suo pregresso... Peccato che Rizzo, seppur da posizioni opposte, conosca molto bene il banchiere dalemiano per antonomasia, Vincenzo De Bustis. Anche se interdetto per la vicenda Pop Bari, resta influente e non lesinerà consigli ai 5 stelle disposti ad ascoltarlo. Un'ipotesi che rafforza D'Alema e fa doppiamente imbestialire Renzi. Quest'ultimo sa che se non può infilarsi nelle fratture tra Pd e 5 stelle perderà ogni potere e ogni occasione di piazzare qualche uomo. Sapere che i 5 stelle possono essere inconsapevolmente infiltrati dall'intellighenzia diessina lo spinge a minacciare la crisi di governo. I contenuti ormai non c'entrano nulla. La scusa può essere il Milleproroghe, come la prescrizione. Il tema vero è l'esercizio del potere. Solo che più si sbraccia e più rischia di fare danni. Più urla, più danneggia i manager che lui stesso aveva nominato appena diventato presidente del Consiglio. Così il senatore di Scandicci si chiede se Matteo Del Fante o Francesco Starace siano ancora da considerare manager disposti ad ascoltarlo. Ciò che è certo è che nella battaglia tra D'Alema e Renzi è chiaro che il primo sa di avere tante altre occasioni per piazzare i suoi uomini, mentre il capo di Italia viva si muove scomposto. Sa che questa sarà per lui l'ultima occasione di partecipare alle nomine.
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