2019-05-11
Matera, tra i sassi c’è l’oro bianco del pane
I giacimenti di grano duro permettono una ricchezza di piatti, tra cui le lasagne, o lagane, di cui andava ghiotto Orazio. L'arte dell'impasto si trasmette dalla notte dei tempi. Appena sfornato e infarcito di verdure era la colazione e il pranzo dei contadini.È la capitale europea della cultura 2019: onore al merito di quella che era considerata, con i suoi sassi, una delle città più povere del meridione, e quindi d'Italia. Matera va studiata bene, non solo per i percorsi tra i suoi vicoli, i musei, le chiese rupestri, le botteghe di un artigianato vero, ma anche per le mille scoperte che può offrire la sua storia a tavola. Ci aveva visto giusto Carlo Levi, che la Lucania la conosceva bene: «Matera è la capitale dei contadini, nelle grotte dei sassi si cela il cuore nascosto della loro antica civiltà». Una cucina ricca di fantasia, basata sulla cultura del recupero, con pepite della terra che sanno di grano, olivo e vite, in cui l'allevamento della pecora era prassi e quella del maiale un lusso. Nei lamoni, così si chiamavano le abitazioni, potevano convivere sino a dieci persone, spesso in coabitazione con galline, pecore, qualche asino. Un'antologia di ricette e racconti ben documentata da Francesco Marano con la testimonianza delle ultime casalinghe materane. Il pane è sempre stato considerato l'oro bianco di Matera, e l'arte di trombare il pane, ossia di impastarlo e dargli la sua forma caratteristica, era un segreto che si trasmetteva di madre in figlia. Semola di grano duro, acqua, sale e lievito madre ottenuto dalla macerazione di frutta fresca matura. Un primo impasto avveniva a tarda sera, lasciando il tutto a riposare in un recipiente d'argilla, poi all'alba un ulteriore lavorazione che portava a una seconda lievitazione. Leggenda racconta che alcune madri di famiglia ponevano l'impasto al calduccio sotto le coperte del marito che se ne era andato a lavorare i campi. Il fischietto del garzone del fornaio annunciava il ritiro per il forno comune. Qua la forma avvolta in un panno con le iniziali della famiglia veniva consegnata per la rifinitura e l'infornata finale. Un lavoro certosino, la forma a cornetto caratteristica per dare alla crosta uno spessore di circa tre millimetri che la rendesse croccante. Non andava pressato troppo, perché altrimenti la mollica non sarebbe lievitata a sufficienza, perdendo la sua caratteristica morbidezza, ma nemmeno poco, altrimenti si sarebbe aperto in cottura. Poi, su ogni forma, si imprimeva il timbro familiare, di cui il fornaio era depositario per delega, che rendeva a ogni pagnotta la sua identità. Ma gli accorgimenti non finivano certo qui. II pane, nel forno, non doveva risultare baciato, ovvero le forme non dovevano venire in contatto tra loro, pena il rifiuto del ritiro da parte dei più ortodossi alla tradizione. Forse è anche per questo, come racconta Massimo Cifarelli, che le forme hanno assunto la loro altezza caratteristica, che un tempo riguardava pezzature financo di 6-7 chili, anche se ora si viaggia attorno al chilo. Timbri di legno che ora potete trovare nelle diverse botteghe artigiane e che un tempo erano utilizzati come pegno d'amore. Offerto dal pretendente alla donna amata, questa lo conservava, se consenziente, come poteva restituirlo al mittente in caso contrario. Pane che, nella tradizione materana, era il vero protagonista di molte preparazioni, quali ad esempio la cialledda. Quella fredda era la colazione dei vecchi contadini, prima di andare al lavoro nella stagione estiva. Pane a pezzetti, con pomodoro, olio e una spolverata di origano. Nella versione de luxe con gli asfodeli, fiori della Murgia ricchi di proteine, ottimo sostituto della carne, era il carburante della dieta monastica nelle zone rupestri. Poi vi era la cialledda calda, piatto invernale e serale, con il pane bagnato nel brodo e condito con verdure diverse. Chi se lo poteva permettere aggiungeva un uovo in camicia. Le verdure erano protagoniste di svariate preparazioni, su tutte la crapiata, un autentico rito di comunità della civiltà rurale materana. Si svolgeva il primo di agosto, al termine della stagione della trebbiatura. Ogni famiglia portava quel che poteva e il tutto si metteva a sobbollire lentamente per ore in un calderone posto su di un treppiedi chiamato crapia, da cui il nome del piatto. Altra ricetta della tradizione rurale la ciambotta, coreograficamente bella da vedere, oltre che gustosa. Si svuotava della mollica una grossa pagnotta che veniva riempita da uno stufato di verdure. Chiusa e avvolta in un panno si portava poi nel campo come colazione del mezzogiorno. Una citazione a parte i peperoni cruschi, della vicina Senise. Di pezzatura piccola, una volta asciugati al sole, e poi leggermente fritti, assumono una croccantezza intrigante. Consumati soli, tipo patatine fritte, o condimento di paste, uova, baccalà. Si possono usare anche in polvere, tanto da essere chiamati zafaran, quale rimando alla più celebre e aristocratica spezia, come racconta Maria Galante, altra cultrice di cucina e tradizioni locali. La qualità dei giacimenti di grano duro permette una estrema ricchezza di piatti a base di pasta. Ad esempio le lagane, sorta di tagliatelle, ma più larghe e corte. Ne era ghiotto Orazio, nativo di queste parti, ma la loro fama ha attraversato i secoli. Era il cibo prediletto dei briganti che infestavano i boschi del Vulture, tanto da essere chiamati scolalagane, e loro stesse, per proprietà transitiva, erano liquidate, più o meno ironicamente, come piatto del brigante. Come non citare le strascinate, dette così per la loro lavorazione, in quanto l'impasto veniva trascinato sul piano di legno, con una rugosità che le rendeva ideali per trattenere i diversi condimenti, in primis cime di rapa e peperoni cruschi. Il tocco in più con l'uso della mollica rafferma, sbriciolata e soffritta in padella, come se fosse formaggio. Piatti di cui andava pazzo Mel Gibson, ai tempi di Matera set di The passion, come ha raccontato chi lo ha conosciuto bene, ad esempio il cuoco Gigi Sanrocco. Scorrendo una ideale carta del menù della tradizione materatese si incontra il pezzente, il quale altri non è che un salame considerato il più povero degli insaccati, quello che si assemblava con gli ultimi resti della macellazione suina. Essendo molto sapido tradizione lo vede a insaporire paste ripiene, zuppe, la minestra maritata. Nella tradizione dell'allevamento locale l'agnello è sempre stato fondamentale. Dal latte ai prodotti della tosatura, le carni venivano utilizzate quando l'animale aveva compiuto il suo ciclo vitale. Carni che richiedevano pertanto una lenta cottura, ed ecco allora la pignata di terracotta, sigillata con l'argilla e posta accanto al camino con il suo contenuto di carni, ortaggi, pecorino e aromi vari. Se la pignata era considerata la regina dei secondi materani il re per antonomasia è il cazzomarro, che, al di là dell'ironia goliardica che ne accompagna il nome, è una pressatura (in materano si dice cazzare) di varie interiora dell'agnello avvolte nella reticella e legate con le budella, farcito con pecorino, prezzemolo e aglio. Può venire servito allo spiedo o al forno, con patate e lampascioni. Sul dolce finale la tradizione regna sovrana. Come non citare le pettole, oramai assurte al rango di street food da gustare tutto l'anno, ma che tradizione vorrebbe tipiche del Natale. Curioso l'aneddoto che ne accompagna la nascita. Leggenda racconta che, mentre stava preparando il pane la vigilia di Natale, una donna venne distratta dal passaggio degli zampognari e scese in strada. Al suo ritorno la pasta era lievitata troppo e, pur di non buttarla, la spezzettò e la buttò nell'olio bollente. Altra tradizione natalizia le strazzate, palline di farina con mandorle, zucchero e limone, dette così per il modo con cui i pasticceri strappano i pezzi dell'impasto per fare il biscotto. Un viaggio quindi, che vede Matera protagonista anche a tavola. Ecco perché la sua visita richiede una conoscenza mirata per non perdere nulla delle mille bontà.
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