2021-03-21
Mascherine pagate senza certificazioni. Benotti inguaia Arcuri
Mario Benotti e Domenico Arcuri (Ansa)
Il mediatore d'oro sconfessa l'ex commissario sui contratti con i produttori cinesi. Poi attacca la Finanza e «La Verità».Nell'inchiesta sulla maxi fornitura da 801 milioni di mascherine cinesi le dichiarazioni di Mario Benotti, indagato per traffico illecito di influenze, potrebbero complicare la posizione della struttura del commissario straordinario per l'emergenza Covid. Il giornalista Rai in aspettativa, durante l'interrogatorio di garanzia, ha deciso di rispondere alle domande del giudice Paolo Andrea Taviano, che ha firmato e poi revocato la sua interdizione dall'attività d'impresa (mentre restano validi i sequestri patrimoniali).Il verbale, lungo 30 pagine, ci restituisce una difesa un po' scricchiolante, ma soprattutto offre nuove piste legate alla qualità delle mascherine e al rispetto dei contratti firmati dai produttori cinesi con il commissario straordinario Domenico Arcuri. Ad ammettere qualche problema è stato lo stesso giornalista Rai in aspettativa: «C'era la problematica su cinque scatole, su una fornitura di un miliardo di mascherine, cinque scatole, consigliere. Cinque scatoloni». Il pubblico ministero ha stoppato il tentativo di sminuire la grana: «Uno la verifica la fa a campione». Per mesi Arcuri ha ripetuto a macchinetta che Benotti & C. erano stati scelti perché in grado di fornire le mascherine senza pagamenti anticipati sebbene i contratti depositati agli atti raccontassero una storia un po' diversa e cioè che il saldo era avvenuto prima che le mascherine atterrassero in Italia. Per farsi retribuire, ai produttori bastava inviare la polizza di carico, la fattura con le quantità consegnate e la descrizione del prodotto, i certificati Ce, quelli europei. Benotti ha confermato: «C'era un accordo che il governo avrebbe pagato nel momento in cui gli aeroplani venivano caricati» e poi «partiva la merce». Ma se Arcuri è stato di parola (nonostante «qualche scoperto» temporaneo), i patti sulle certificazioni Ce, come vedremo, non sono stati rispettati.È lo stesso Benotti a ricostruire le macchinose procedure: le mascherine «arrivavano certificate, poi venivano ricertificate dall'organismo di certificazione europea, poi venivano ricertificate dall'Inail, poi venivano certificate di nuovo dal comitato tecnico scientifico […]. La procedura di certificazione parte dalla Cina, i rappresentanti cinesi […] incaricano una serie di avvocati, che da una parte ricertificano per la seconda volta, perché a un certo punto c'è stato, l'ufficio lo potrà accertare, che era una società di Bologna che faceva delle certificazioni che non andavano nella giusta direzione. Furono immediatamente tolti […] sono state immediatamente prese certificazioni ulteriori di società dedicate a questo». Benotti ha anche precisato che «la società di certificazione europea la individuava il fornitore ovviamente» e che i dispositivi di protezione individuali erano validati anche «dalle certificazioni europee, dall'Inail e dal Comitato tecnico scientifico». Un iter che non si sarebbe dovuto svolgere se davvero le mascherine, come previsto dai contratti, avessero avuto in partenza la certificazione Ce e il conseguente marchio di cui parla Benotti. Perché la struttura commissariale abbia pagato prodotti ancora non conformi Ce resta un mistero. Anche perché i mediatori per quelle forniture hanno incassato decine di milioni di euro di provvigioni. Benotti ne ha portati a casa almeno 12.La squadra dei mediatori, a voler credere al giornalista, era organizzata quasi in compartimenti stagni. Per esempio Benotti, coinvolto nel business per i suoi rapporti personali con Arcuri, non avrebbe avuto particolare confidenza con alcuni presunti soci d'affari, come il broker equadoriano Jorge Solis e Cai «Marco» Zhongkai, il trait d'union con i produttori cinesi.Rispondendo alle domande dei magistrati Benotti ha affermato: «Solis l'ho sentito una volta al telefono e ci sono quattro cinque messaggi di Whatsapp che immagino che la Guardia di finanza avrà consegnato» alla Procura. Sul cinese la posizione è stata ancora più netta: «Io non so neanche chi sia Marco Cai». Nel corso dell'interrogatorio iI giornalista si è lamentato perché i finanzieri hanno citato nelle loro annotazioni alcuni suoi vecchi procedimenti (da cui è stato prosciolto) e ha aggiunto: «L'informativa della Polizia giudiziaria riporta fatti e circostanze che a me non furono mai nemmeno contestate». A suo giudizio gli uomini della Guardia di finanza sarebbero rimasti «perplessi», dopo aver trovato i contratti legati alle provvigioni, visto che «ritenevano che non esistessero». Ma, soprattutto, Benotti non ha mandato giù la decisione degli investigatori di contestare un pagamento da parte della Sunsky ad Antonella Appulo, amica e collaboratrice del giornalista: «Questioni mie personali sono finite in rapporti della Guardia di finanza, dove questioni miei di natura privata e sessuale non credo abbiano nulla a che vedere con questa vicenda...». E qui è partito anche un affondo contro la trasmissione di Massimo Giletti Non è l'Arena che alla questione ha dedicato servizi e interviste.Ecco la versione dell'indagato: «Era un contratto di consulenza, poi c'è stato di mezzo il Covid, non so come siano andate le cose. Poi questo è diventato il problema fondamentale di trasmissioni che tutte le sere tengono banco in televisione, tutte le domeniche sere vi è un problema che riguarda la mia compagna e la signora Appulo, e sembra che tutto il problema delle mascherine di questo Paese è diventato il contratto della signora Appulo».Benotti ha, però, precisato di non aver mai accusato la Procura «di avere fatto uscire questo», mentre non ha escluso che servisse a Bankitalia e alla Guardia di finanza «per montare qualcosa», anche se in tutta questa storia «non vi era nessun tipo di rapporto men che lecito». In realtà sono stati proprio i magistrati a citare il «rapporto sentimentale» tra Benotti e la Appulo, mettendolo nero su bianco in richieste di proroghe di intercettazioni, in un decreto di sequestro e nell'istanza di misure cautelari.Durante questa fase dell'interrogatorio Benotti ha approfittato per attaccare un cronista non meglio identificato: «Io so solo una cosa e l'ho messa a verbale e spero che la Guardia di finanza l'abbia mandato, quando mi avete mandato a sequestrare i conti correnti, un determinato giornalista informò la sera prima […]. Dichiarazioni spontanee che la Guardia di finanza non voleva raccogliere, ma di cui io mi assumo ogni responsabilità». Insomma l'indagato, un giornalista professionista, ha provato a far aprire un fascicolo d'inchiesta su un cronista. Ricordiamo che sulle fughe di notizie sono già in corso da tempo interrogatori e investigazioni. Benotti se l'è presa anche con La Verità: «Secondo quel quotidiano io ero destinatario di 72 milioni di euro di uno yacht in quanto prodiano, io non ho mai avuto uno yacht in vita mia, non so nuotare, non compro macchine di vario genere». In realtà nell'articolo era ben specificato che a utilizzare i soldi per una barca era stato Tommasi. Ma se Benotti tradisce una certa acredine nei confronti dei giornalisti, anche il pm Gennaro Varone è riuscito a fargli perdere la trebisonda, quando gli ha chiesto dei «tentativi di abboccamento» con Arcuri: «Io mi permetto di non consentirle di parlare di contenuti di abboccamenti» è stata la replica stizzita dell'interrogato, «perché io non ho fatto mai abboccamenti con nessuno».