2021-07-21
Marcia «pacifica» e teppisti «isolati»? Io che c’ero vi svelo le otto bugie sul G8
L'inferno era un piano preciso di antagonisti organizzati e ben coperti. La stampa manipolò i fatti fin da subito. Lo fa da 20 anni.«Non vogliamo niente, solo spaccare tutto». Il «fuck you» successivo era una specie di punto esclamativo romantico per i black bloc arrivati dai centri sociali di Londra e di Manchester, fratelli di spranghe e di birre dei compagni tedeschi, italiani, francesi, danesi, spagnoli tendente al basco (trovarono anche fiancheggiatori dell'Eta). Gli inglesi erano calati in riviera su un bus a due piani, nessuno poteva definirli invisibili. Spaccare tutto era l'ideale no global dominante in quel fine settimana di vent'anni fa dentro una Genova incendiata e terrorizzata. La stessa che viene descritta da qualche giorno nelle narrazioni mainstream come il teatro off in cui migliaia di giovani oratoriani intenti a cantare nenie furono ferocemente assaliti dalle forze dell'ordine italiane che dovevano proteggere (chissà da chi) i leader della Terra alloggiati sulle navi.È la grande mistificazione del G8, con il santino di Carlo Giuliani sull'altare di don Andrea Gallo (il cappellano dei ribelli) e la «macelleria messicana» della Diaz e di Bolzaneto. Tutto il resto non esiste, è lo sfondo grigio di reportage intinti nella penna rossa. Ma non è stato il tempo a variegare il colore della memoria e a farlo coincidere con l'ideologia mediatica dominante. La strumentalizzazione cominciò il giorno dopo. Quando alla conferenza finale di Vittorio Agnoletto e Luca Casarini l'inviato di un giornalone si spazientì per le critiche ai violenti e gridò: «Ce ne fossero di più di anarchici al mondo, i bastardi sono i poliziotti». Le otto bugie del G8 nascevano allora e questa è un'operazione di sacrosanta cancel culture.La chiamavano «disobbedienza pacifica» ma le tute bianche di Luca Casarini e Daniele Farina non erano attivisti agresti che celebrano il ritorno della luna, bensì professionisti dell'anti-tutto in perenne allarme democratico, avvolti dalla bandiera falce e martello. Alcuni, antagonisti estremi, violenti quando serve. Magma indistinto di centri sociali del Nord Est, Leonka milanesi, squatter torinesi e napoletani, «l'esercito degli straccioni» (come amava chiamarlo il leader dei Giovani comunisti Gianluca Schiavon) aveva fatto le prove generali nel dicembre 2000 a Nizza e a Ventimiglia durante un vertice europeo. Lacrimogeni e sangue, cariche e arresti. Stesso copione nella primavera 2001 al Forum di Davos, dove i manifestanti vennero fermati dagli idranti caricati a letame. I black bloc, inferociti, si vendicarono distruggendo un quartiere di Zurigo.Se la favola degli antagonisti alla Manu Chao resse un paio di notti, quella dei black bloc cani sciolti crollò alle 10 di mattina di venerdì 20 luglio quando in piazza Tommaseo (fra Brignole e la Foce) esplose la prima molotov. Gli anarchici violenti si erano incistati - con passamontagna, anfibi militari e spranghe (distribuite da camioncini) - nel corteo dei Cobas. Piero Bertocchi, allora dirigente sindacale della Scuola, disse: «Si sono mimetizzati in mezzo a noi, poi hanno aperto delle cassette di birra e dentro c'erano le molotov. Ci hanno detto di farci gli affari nostri e hanno acceso le micce». Bersagli: il carcere di Marassi, la tangenziale per bloccare il traffico, le pompe di benzina da incendiare, le auto da bruciare, i bancomat da far saltare in aria. Strategia: colpire e scappare come nella giungla vietnamita. Attirare la polizia, colpire e poi disperdersi nei quartieri.Due giorni di guerriglia, ogni manifestazione era un cavallo di Troia per i violenti, valutati in circa 3.000 su 50.000 presenti. L'intelligence fallì, chi doveva arrivare a Genova era arrivato, pronto per la guerriglia urbana. Alla fine Casarini disse: «Le uniche tute nere che ho visto erano quelle dei carabinieri». La mistificazione era già in atto, ma i primi a capire la lezione furono i partiti di opposizione. Pur fiancheggiando le proteste, la sinistra volle garantirsi la pace sociale nel Social Forum di Firenze del 2002 e affidò il servizio d'ordine alla Cgil. Come a dire: sappiamo chi furono i cattivi e dove si nascondevano.Due settimane prima del delirio genovese accadde un fatto strano: il fronte mondialista-ecologista si ruppe. Gli Amici della Terra e altre sigle presero le distanze dalle proteste annunciate al G8: «Ci saranno troppi violenti, noi stiamo a casa». Nel tam tam del Web era chiaro: quella doveva essere l'Olimpiade della distruzione. In quell'assalto collettivo premeditato perse la vita Carlo Giuliani. Ragazzo problematico, si fece trovare a volto coperto e con in mano un estintore in piazza Alimonda, nell'atto di scagliarlo dentro una camionetta dei carabinieri bloccata e circondata da una ventina fra black bloc e scalmanati all'assalto. Fu ucciso per legittima difesa dall'ausiliario Mario Placanica che ieri ha detto: «Da 20 anni vivo in una prigione infinita».Due parole simbolo della repressione delle forze dell'ordine che dal mattino erano state impegnate in una battaglia campale per limitare e sedare le violenze (bilancio, 130 feriti in divisa). La sera del 21 luglio, convinti che i black bloc ancora una volta fossero confusi fra i manifestanti, i poliziotti entrarono nella sede del Genoa Social Forum, la scuola Diaz, e cominciarono a manganellare anche chi dormiva. Bilancio: 61 feriti e 93 fermati. La violenza proseguì nella caserma di Bolzaneto con successive condanne morali, giudiziarie e mediatiche. Anche qui la narrazione esce dai verbali per svolazzare nel leggendario. Si legge che «i poliziotti distrussero il centro stampa del Social Forum». Un quarto d'ora dopo la fine del blitz Radio Gap, che aveva sede in quegli uffici, mi intervistò regolarmente in diretta.Pur topograficamente inadatta alla gestione dell'ordine pubblico, Genova fu scelta dal governo di Massimo D'Alema. Perse le elezioni nella primavera 2001, la sinistra soffiò sul fuoco della rivolta. Soprattutto Rifondazione e Verdi mandarono in prima linea i leader; il G8 costituiva una ghiotta occasione internazionale per rovinare la festa a Silvio Berlusconi. Quasi tutte le componenti global erano dichiaratamente rosse: 400 delle 650 associazioni avevano il marchio marxista. A tal punto che David Bryden, leader del popolo di Seattle e braccio destro di Naomi Klein, dovette prendere le distanze: «Non giriamo con le magliette del Che, chi si ferma agli anni Settanta ha perso».«Ci sono quattro contestatori morti ma li tengono nascosti». Per tre giorni girò questa favola, raccontata da pseudo-reporter indipendenti (dalle regole del mestiere). Il ruolo della stampa fu fuorviante: erano no global anche editorialisti che oggi difendono la globalizzazione con la mitragliatrice. Per spiegare la faziosità basta un dato: fra chi manifestava contro lo Stato c'era il segretario della Fnsi, Paolo Serventi Longhi. La narrazione fu a senso unico e lo è ancora. Registi come Gillo Pontecorvo, Citto Maselli, Gabriele Salvatores calarono a Genova per riprendere gli scontri dalla parte dei dimostranti: le loro cineprese erano rivolte solo alle azioni della polizia. Si persero le devastazioni ma commentarono: «Neppure il '68 era così estroso» (Maselli).Mentre intellettuali e media gongolavano per gli antagonisti, per ristabilire l'ordine furono necessari 6.000 lacrimogeni in due giorni. La città martoriata ringraziò a modo suo gli ultrà santificati: l'ultimo corteo del sabato fu preso di mira dalle sassate della gente esasperata. Chissà dove sono finiti i video.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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