
Il ministro Enzo Moavero Milanesi parla con l'euroburocrate Frans Timmermans della possibilità di un esecutivo di professori. Il Quirinale non è contrario e sia Giuseppe Conte sia Giovanni Tria sarebbero disponibili a riciclarsi. La sensazione è che il caso del sottosegretario Armando Siri e il suo ormai probabilissimo dimissionamento siano stati usati, in questi giorni roventi, più come mezzo che come fine. Come uno strumento, in mancanza d'altro, per far ingoiare un boccone amaro a Matteo Salvini; come un espediente politico per guastare qualche giorno di campagna elettorale alla Lega, per consentire ai grillini (ma per ora l'operazione non sembra granché riuscita) di risalire la china nei sondaggi, e soprattutto per preparare nuovi scenari dopo il 26 maggio, al termine della fatidica conta nelle urne europee. A questo fine, diventa essenziale, in primo luogo per una serie di attori istituzionali italiani ed europei, e in seconda battuta per i mainstream media, valorizzare il «terzo partito» al governo, quello che nessun elettore ha mai votato, e cioè la componente tecnica assai cara al Quirinale e a Bruxelles: il ministro degli Esteri Enzo Moavero (già montiano di ferro, da sempre su posizioni «euroliriche»), il titolare dell'Economia, Giovanni Tria, e naturalmente il premier Giuseppe Conte. A proposito di Enzo Moavero, La Verità è in grado di rivelare - grazie a una testimonianza diretta - un retroscena clamoroso. L'altra sera, a Firenze, a Villa Salviati, a margine dell'evento «State of the Union 2019», il titolare della Farnesina ha lungamente colloquiato con Frans Timmermans (vicepresidente della Commissione Ue in quota socialista e spitzenkandidat per il Pse alle Europee). E di che parlavano fitto fitto i due? Chi li ha ascoltati li ha sentiti discutere esplicitamente dell'ipotesi di un governo tecnico possibile a breve in Italia. Moavero - riferiscono i testimoni - avrebbe parlato di un «presidente che segue molto attentamente la situazione»: ed è inevitabile pensare che potesse riferirsi a Sergio Mattarella. Quanto a Timmermans, insisteva con domande sul budget, cioè sulla prossima legge di bilancio, su cui - com'è noto - sarà ancora la vecchia Commissione Ue, sia pure con gli scatoloni in mano, a negoziare con Roma nel prossimo autunno. Fare due più due non è difficile: da Roma a Bruxelles, sembra già esserci chi pregusta una soluzione tecnocratica a Palazzo Chigi. E che a discuterne sia il ministro degli Esteri in carica, appare a dir poco sconcertante. Ma non c'è solo Moavero in movimento. Con intenzioni diverse, è stato notato da molti osservatori il recentissimo attivismo mediatico del ministro dell'Economia Giovanni Tria. Dopo un lungo periodo di silenzio, ha rilasciato due interviste in quattro giorni, al Fatto Quotidiano e al Foglio. Per la verità, senza dare notizie sconvolgenti, senza «fare titolo», svolgendo ragionamenti di carattere generale. Ma - in qualche misura - segnalando di essere in sella, facendo plasticamente vedere che lui c'è, che intende essere un player rilevante della nuova fase, un interlocutore imprescindibile, qualunque sia il quadro di governo presente o futuro. Insomma, una riproposizione in termini soft di ciò che lo stesso Tria si era nervosamente fatto sfuggire (in quel caso in modo hard) a inizio aprile, in una conversazione con il Corriere della Sera: «Se andassi via, dovremmo vedere quale sarebbe la reazione dei mercati». Una specie di autocertificazione di indispensabilità: concetto - diciamo - sempre discutibile in politica, per chiunque. Quanto a Giuseppe Conte, da tempo non si leggeva una celebrazione come quella che i «giornaloni» gli hanno riservato ieri. Se si fosse trattato di una figura politica sgradita, cronisti e commentatori lo avrebbero fatto a pezzi: convocare i giornalisti a sorpresa, peraltro mentre Salvini era all'estero, e soprattutto senza consentire nessuna domanda dopo il breve speech introduttivo, non appare propriamente un atto di leadership o di coraggio leonino. E invece sono partiti i violini e i violinisti. Citiamo fior da fiore da due pezzi sul Corriere di ieri: «toni felpati», «atteggiamento neutrale, equanime, arbitrale», «didascalico come un avvocato che parla a una giuria», «autorevole», per non dire dell'elogio per il fatto che il premier, dopo aver scalciato Siri, abbia espresso «vicinanza alla figlia ventiquattrenne». Insomma, un peana. Anche Repubblica non ha voluto essere da meno: ha scritto di un Conte «paziente fino all'ultimo minuto», che «pesa ogni parola». Roba grossa: uno statista, un decisionista (ma gentile), un duro (però dal volto umano), con tanto di elegante pochette. Morale: inutile girarci intorno, è iniziata l'esaltazione del «terzo partito», quello tecnico-quirinalizio. Con due possibili scenari. Il primo (più gradito al vecchio establishment italiano) sarebbe ovviamente una riedizione dei governi tecnici, una giunta tecnocratica totalmente collegata al pilota automatico di Bruxelles. Se questa soluzione non dovesse realizzarsi, ecco il secondo scenario: usare questa componente tecnocratica come freno a mano tirato dentro l'esecutivo gialloblù, in vista della prossima manovra di fine anno e della delicata ridefinizione degli equilibri in Ue dopo il voto del 26 maggio. Poi, se invece questi tecnici - per una ragione o per l'altra - dovessero riallinearsi alla loro maggioranza politica e non dovessero rivelarsi funzionali a quei disegni, è già pronta la solita campagnetta di stampa, per dire che si saranno piegati alla Lega e/o al M5s. In tutta questa complicata tessitura, qualcuno ha dimenticato solo un «dettaglio», e cioè gli elettori: che il 26 maggio potrebbero dare un'altra delusione - l'ennesima - agli strateghi di qualche palazzo romano e di qualche gruppo editoriale.
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