Servono 150 milioni per evitare la sugar tax a metà 2025. Taglio del cuneo: vantaggi per 1,3 milioni di lavoratori in più.Il testo della manovra, o meglio del disegno di legge di bilancio che sarà convertito in legge dall’Aula, ancora non c’è. Il ministro Giancarlo Giorgetti si era impegnato per lunedì a mezzanotte. Un po’ in ritardo rispetto alle dichiarazioni anche se pienamente nei tempi. Il voto dovrebbe infatti iniziare il 18 dicembre. Ieri il titolare del Mef ha ribadito che il taglio del cuneo è salvaguardato e riguarderà importi sotto i 40.000 euro lordi all’anno. Rispetto alle precedenti manovre circa 1,3 milioni di lavoratori in più si troveranno con una busta paga meno leggera. Sempre ieri conferme sulla rateizzazione degli acconti delle imposte e discussioni ancora aperte con gli industriali sulla questione Ires. C’è un tema secondario rispetto ai grandi importi ma delicati per motivi politici e per le aziende che tocca che invece rischia di scivolare fuori dal dibattito. Si tratta della sugar tax più volte rinviata e fissata per giugno 2025. Stavolta il Mef sembra convinto a non intervenire e per soli 150 milioni fa scattare la tagliola contro il settore delle bevande anche quelle prive realmente di zucchero. Tagliola ideata dal governo di Giuseppe Conte e che rischia solo di causare perdite di posti di lavoro. È l’ottobre del 2019 quando, dopo il dibattito innescato dall’allora ministro dell’Università Lorenzo Fioramonti sulla necessità di educare i cittadini, arriva l’imposta sul consumo di bevande. Da quella data - siamo a gennaio 2020 - parte una tempesta di polemiche, rinvii, pezzi di maggioranza che si staccano e tentativi di tappare i buchi di bilancio con altri balzelli. Passano i mesi e alla fine, con qualche modifica e nessuna miglioria, la manovra arriva all’Aula e diventa legge. L’anno successivo, a seguito di alcuni ricorsi, il Tar del Lazio stoppa l’imposta perché avrebbe violato il principio di uguaglianza tributaria. In effetti la sugar tax va a colpire bevande con zuccheri o edulcoranti compresi quelli di origine naturale e salva invece succhi non fermentati privi di aggiunte; almeno nelle sue prime versioni. Il Tar a giustificare la scelta sottolinea proprio l’intento extra fiscale e quindi «educativo» dello schema arrivando alla conclusione di dover accendere il semaforo rosso. A marzo del 2023, l’iter di valutazione vede il parere finale della Consulta che arriva invece a conclusioni opposte. «Premesso che la sugar tax», si legge nel dispositivo, «rientra nel novero dei tributi indiretti sulla produzione e sul consumo di certi prodotti ritenuti dannosi per la salute e per la spesa pubblica». Secondo la Corte, «proprio per le specifiche giustificazioni scientifiche, il legislatore ha fatto uso ragionevole dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria». E a chi ispira la Consulta? Naturalmente all’Oms che su questi temi è un esempio perfetto di benchmark al contrario, come i lettori sanno bene. Risulta, infatti, dalla relazione illustrativa della disciplina di legge istitutiva della sugar tax, che «tale imposta è stata disegnata raccogliendo l’invito dell’Organizzazione mondiale della sanità», si legge sempre nel dispositivo, «contenuto nel suo rapporto del 2015 e in altri studi scientifici». Duole notare che, ogni volta ci sia in ballo l’Oms, il decisore tende a omettere tutta quella scienza che invece prende posizioni opposte. L’elenco di paper scientifici che smentiscono l’Oms è lungo, così come ampia è la letteratura nei Paesi dove la tassa sulle bevande è già realtà. Dal Messico alla Gran Bretagna, due esempi che ci riportano anche alla questione fiscale. Cioè al rapporto tra costi e benefici. Secondo uno studio Nomisma la sugar tax potrebbe portare a una riduzione di 46 milioni di euro di investimenti da parte delle imprese produttrici del settore in un solo biennio, senza considerare la riduzione di 400 milioni di euro degli acquisti di materie prime. «Le stime di un calo del 16% di fatturato», spiegava lo scorso maggio alla Verità Giangiacomo Pierini, presidente di Assobibe, «restano valide. A ciò vanno aggiunti tutti gli oneri burocratici di adempimento, che sono notevoli. Per questo», prosegue, «non riusciamo a escludere l’effetto cascata sui grossisti e giù a valle sul consumatore finale». Ricontattato ieri al telefono Pierini ha confermato il timore che stavolta il governo tiri dritti e lasci semplicemente entra in vigore la legge. Senza colpo ferire. Sarebbe non solo un peccato per il settore che spesso vede la presenza di piccole società e produzioni di nicchia che costituiscono quel Made in Italy che tanto piace sbandierare. Ma anche un enorme tema di merito. Può il governo permettere per soli 150 milioni (la cifra per coprire il secondo semestre del 2025) di sporcarsi la fedina con la prima vera e propria tassa per di più dal sapore grillino? La risposta dovrebbe essere retorica: no. Forse sarebbe il caso di correre ai ripari e convocare il settore in vista del 2026. Cancellare un’imposta degna di uno Stato etico e semmai trovare una soluzione alternativa. Se serve gettito ci sono altri modi, non copiando quanto suggerisce l’Oms per poi pentirsi dopo qualche anno. Un piccolo sforzo. Ma ne vale la pena.
(IStock)
C’è preoccupazione per la presenza di alimenti ultraprocessati nelle mense. Il presidente Prandini: «Il comparto vale 707 miliardi, quanto 20 manovre». Federico Vecchioni (BF): «Una massa di risorse private ha identificato il mondo agricolo come opportunità».
Francesca Albanese (Ansa)
La rappresentante Onu ha umiliato il sindaco di Reggio, solo perché lui aveva rivolto un pensiero anche ai rapiti israeliani. La giunta non ha fatto una piega, mentre è scattata contro il ministro sul caso Auschwitz «rispolverando» anche la Segre.
(Ansa)
Il premier congela la riforma fino alle prossime presidenziali, ma i conti pubblici richiedono altri sacrifici. Possibile tassa sui grandi patrimoni. Il Rassemblement national: «Progetto di bilancio da macelleria fiscale».