Ursula Von der Leyen lascia il mare aperto ai cinesi, che sono efficienti e spietati, e ai magrebini, che navigano senza regole. L’Italia però non ci sta e lancia un’«alleanza adriatica». Ma intanto è già partito l’assalto delle aziende di prodotti ittici creati in laboratorio.
Ursula Von der Leyen lascia il mare aperto ai cinesi, che sono efficienti e spietati, e ai magrebini, che navigano senza regole. L’Italia però non ci sta e lancia un’«alleanza adriatica». Ma intanto è già partito l’assalto delle aziende di prodotti ittici creati in laboratorio.Avviso agli acquirenti: il pesce diverrà merce rara, carissima e solo d’importazione. L’Europa immaginata da Ursula von der Leyen è un deserto alimentare; produce armi e compra dove e come può il cibo. In caso mancasse ci sono sempre i bioreattori dove fermentare cellule per poi stampare filetti di sogliola sotto forma di poltiglia organico-proteica. L’Unilever ha già richiesto autorizzazione per un gelato al pesce utilizzando la proteina ISP estratta da merluzzo e a Parma - sede dell’Efsa, l’ente che «sdogana» i cosiddetti novel food - ci sono almeno tre dossier per salmone, tonni e merluzzi creati in laboratorio. Aziende come Blue Nalu - attiva nei surgelati che già ha messo a punto salmone sintetico - e Finless Food - colosso californiano che ha in catalogo il finto tonno - sono pronte a entrare nel mercato europeo. Se la proposta di bilancio poliennale prevede un taglio del 20% dei fondi destinati all’agricoltura - inutile ricordare che la Pac è stata l’atto fondativo dell’Unione ed è tra i pochissimi settori dove veramente si è realizzata una politica comunitaria - che assomma a circa 80 miliardi la scure proporzionalmente più pesante si abbatte sul settore pesca. Il fondo pesca passa da 6,2 miliardi a 2 miliardi con un taglio di 4,2 miliardi pari al 67%. Significa la morte della marineria europea già - soprattutto per la piccola pesca in Mediterraneo - sottoposta ad un carico burocratico esoso. L’Unione è fortemente deficitaria nell’attività di cattura e l’acquacoltura, che pure sta crescendo, non riesce a coprire la domanda oltre a prestarsi a distorsioni come quelle più volte denunciate per l’uso eccessivo di antibiotici e ormoni nell’allevamento di salmoni. Il taglio dei fondi per la pesca - nel caso delle piccole barche si assomma alla scomparsa dei contributi per lo sviluppo rurale - apre le porte dell’Atlantico alla marineria cinese - la più efficiente e spietata: a bordo di quei pescherecci le condizioni di lavoro sono ai limiti dell’umano e le catture sono senza limite perché la Cina ha fame di pescato - e quelle del Mediterraneo alle flotte del Maghreb che pescano senza regole e ai giapponesi che vengono a fare incetta di tonno rosso, cattura per cui l’Ue ha posto i soliti limiti burocratici con le quote che hanno affamato le barche siciliane, sarde e calabresi. L’Ue invece di preoccuparsi della tutela dei pescatori e attraverso di loro della salvaguardia del mare e del patrimonio ittico abbandona il campo. Nel caso della Cina - un studio di Rabobank sostiene che da qui al 2030 avrà un deficit commerciale di pesce pari a dieci miliardi di dollari per cui sta incrementando le catture al massimo - con la sua enorme flotta di 200.000 navi che battono tutti gli oceani (si sostiene che siano anche navi militari travestite che montano particolari sistemi di pattugliamento elettronico) di fatto ha il monopolio della pesca d’altura: ha messo in crisi gli africani, sta travolgendo la pesca bretone e nord atlantica ivi compresa la cattura dei merluzzi che diventano baccalà o stoccafisso - non si paga meno di 55 euro al chilo - i cui prezzi sono schizzati in alto. Nel caso della pesca mediterranea i pescherecci italiani sono ormai ridotti all’osso: in venti anni si è perso il 40% della flotta che conta solo 11.000 barche, circa il 15% della flotta europea in un Paese che ha 8.000 chilometri di coste. Al depauperamento della nostra capacità di cattura - compresa l’acquacoltura produciamo 140.000 tonnellate all’anno che soddisfano solo al 25% la domanda interna - ha contribuito largamente il sistema normativo europeo - sempre in ossequio all’ideologia verde del Green deal - che ha imposto telecamere di sorveglianza, la sparizione di gran parte delle reti a strascico, ha introdotto divieti di cattura, il fermo pesca, le quote del tonno rosso (che però i giapponesi, i cinesi e i maghrebini catturano liberamente) e dello spada. Il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida - è alla testa delle nazioni che chiedevano, prima dei tagli annunciati, una riforma complessiva del settore ittico - sta agendo per costruire un fronte mediterraneo che - esulando anche dal perimetro dell’Ue - difenda e rilanci l’attività soprattutto della piccola pesca. Due giorni fa ad Ancona Lollobrigida ha riunito i suoi omologhi della Croazia, David Vlajcic e della Slovenia Mateja Calusic, dell’Albania Dritan Palnikaj e del Montenegro Salih Gjonbalaj per un accordo che garantisca - fatti salvi i principi di tutela del mare e della risorsa ittica - l’esercizio di pesca libero e coordinato tra i paesi che si affacciano sull’Adriatico. L’obbiettivo di Lollobrigida – che affida a Francesco Acquaroli presidente delle Marche il coordinamento di questa iniziativa - è una strategia comune per superare le rigidità tecnico-burocratiche imposte dall’Europa che rischiano di compromettere lo sviluppo dell’economia blu in Adriatico. È di fatto una mossa anti-Ue e Lollobrigida sostiene: «Dobbiamo capire ciò che possono fare le nazioni amiche che condividono lo stesso bacino e ciò che può fare l’Europa». È indispensabile, tanto nella flotta di cattura quanto per l’acquacoltura, superare «le restrizioni allo sforzo di pesca puntando su modelli di gestione integrati». O si fa così oppure, come ha notato il sottosegretario con delega alla Pesca, Patrizio La Pietra, «consapevoli che la sostenibilità ambientale va di pari passo con quella economica e sociale corriamo il rischio di non avere pesce, non per mancanza di risorsa, ma perché non ci saranno più pescatori».
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