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2023-04-21
«Mai più avvisi anti rom sulla metro». Per rieducare l’Atac c’è la Onlus Lgbt
Getty images
Mai più allarme «zingari» dagli altoparlanti della metropolitana di Roma. E già che ci siamo, lotta al razzismo, alle discriminazioni basate sul sesso dei passeggeri, sui loro orientamenti sessuali e contro le persone con disabilità. Contro ignoranza e cattiva educazione, ecco i corsi aziendali per diventare persone civili. Ieri l’Atac ha dato il via ad appositi corsi di formazione anti discriminazione per il personale, affidati a un’organizzazione che si batte per i diritti dei gay, dopo che il mese scorso aveva fatto scandalo l’appello contro i borseggiatori, in cui un dipendente aveva usato il termine «zingari».
Era il 10 marzo e sulla metro erano stati segnalati diversi borseggi, così un addetto aveva urlato un avvertimento non scritto in cui si diceva «attenti agli zingari» lungo la linea A. Era presente la giornalista Francesca Mannocchi, collaboratrice della Stampa e di La7, che via Twitter aveva immediatamente stigmatizzato l’episodio, parlando di razzismo. Pochi giorni dopo, la scrittrice Giulia Blasi raccontò sui social che su un tram della linea Centocelle-Laziali un macchinista si era lasciato andare ad alta voce a un «Negri di m…». Mentre il responsabile dell’annuncio contro le spettabili borseggiatrici e gli stimati borseggiatori era stato immediatamente identificato e sottoposto a procedimento disciplinare, del macchinista cafone non si è saputo più nulla.
In ogni caso, ieri, è partito in Atac questo corso di rieducazione per personale viaggiante e amministrativo dal titolo «Il valore delle differenze», contro «razzismo, sessismo, abilismo e omolesbobitransfobia», che riprende un ciclo di lezioni già andato in scena in via sperimentale tre anni fa, per verificatori e bigliettai. Il corso è stato affidato ad Agedo, una Onlus che dal 1992 si occupa di mettere in contatto genitori, parenti e amici di persone lesbiche, gay, bisessuali e trans. E l’iniziativa ha ovviamente la benedizione del Comune e del sindaco, Roberto Gualtieri, che si era molto indignato sulla storia degli «zingari» e aveva definito l’episodio «inammissibile e inaccettabile».
La politica ha immediatamente messo il cappello sull’iniziativa partita ieri, che offre finalmente l’occasione di essere tutti più buoni anche con Atac, nota in tutta Italia per il livello di disservizio, tra guasti e mezzi che vanno a fuoco o che non passano mai. Michela Cicculli, consigliere comunale di Sinistra civica ecologista, e Giovanni Zannola del Pd, hanno scritto in una nota che «in Atac parte un importante percorso formativo contro ogni forma di discriminazione [...]. L’obiettivo è quello di promuovere anche in questo settore l’attenzione al tema delle differenze, un’iniziativa particolarmente importante per Atac, dove operano migliaia di lavoratrici e lavoratori che in molti casi si trovano a contatto diretto con la cittadinanza». Lo scopo dei corsi è quello di «favorire un ambiente inclusivo, accogliente, non giudicante e di prevenire ed evitare ogni episodio di discriminazione interno ed esterno». Non solo in Atac, perché il progetto è quello di tenere corsi identici un po’ in tutte le municipalizzate di Roma.
E in effetti, in questa Atac più «inclusiva» e «accogliente» c’è proprio il buonismo etereo del sindaco, il sorridente borgomastro con la chitarra in mano che finora non è minimamente riuscito a incidere su traffico e sporcizia della Capitale. Per tornare all’episodio dello scandalo, i romani sanno benissimo (i turisti un po’ meno) che su bus e metro devono stare attenti a portafogli, borse e zainetti perché sono all’opera bande di borseggiatori e scippatori di tutte le etnie. Forse a questo punto non sarebbe male che Comune e Atac, che in fondo avrebbero come core business la soddisfazione e la sicurezza di cittadini e passeggeri, tenessero anche dei corsi ai passeggeri per imparare a difendersi dalle molte mani leste in azione.
I corsi partiti ieri non sono comunque una novità assoluta, perché 11 anni fa la stessa Atac aveva firmato una convenzione con Unar, l’Ufficio nazionale anti discriminazioni, che nel 2017 sarebbe stato coinvolto nello scandalo delle saune gay, per promuovere attività formative e organizzare insieme convegni e seminari di studio. Insomma, passano gli anni, e la cosmesi sui trasporti romani non cambia. Chi prende la metropolitana sperimenta tutti i giorni problemi che non sembrano indignare Gualtieri e sui quali sembra antipatico organizzare seminari e formazione coinvolgendo le Onlus amiche. I tasti dolenti sono sempre quelli dei ritardi, della scale mobili e degli ascensori che non funzionano, della sporcizia, delle stazioni chiuse e dei lavori che non finiscono mai. E qui non c’entra imparare a convivere con i passeggeri di etnia rom. Atac resta uno dei buchi neri della Capitale, anche finanziariamente, con il Comune che ha appena dovuto staccarle un assegno aggiuntivo da 40 milioni per il 2023, in modo da impedire il minacciato taglio delle corse. In totale, la municipalizzata assorbe circa 570 milioni l’anno. Almeno in vista del Giubileo 2025, l’Atac andrebbe risanata e rimessa in carreggiata. Al momento, c’è solo la garanzia che dagli altoparlanti verranno diffusi messaggi altamente inclusivi.
Ue choc: «L’Italia discrimina i gay»
Tanta fibrillazione per un emendamento, rivela l’ennesimo tentativo di screditare l’Italia a guida centrodestra. Ieri, le edizioni online sembravano impazzite nel riportare che il Parlamento europeo ha approvato una mozione che «condanna fermamente la diffusione di retorica anti diritti, anti gender e anti Lgbtq da parte di alcuni influenti leader politici e governi nell’Ue, come nel caso di Ungheria, Polonia e Italia».
Chiariamo subito che all’ordine del giorno, mercoledì a Strasburgo, c’era la votazione per una Risoluzione sulla depenalizzazione universale dell’omosessualità alla luce dei recenti sviluppi in Uganda, dal momento che l’Ue è «profondamente preoccupata» per l’approvazione di un disegno di legge contro l’omosessualità da parte del Parlamento ugandese, che introduce pene severe, compresa la pena di morte.
Legittima posizione, passata a stragrande maggioranza (con 416 voti a favore, 62 contrari, 36 astenuti) e che è stata trasmessa al governo ugandese, così pure agli altri Paesi «che ancora criminalizzano l’omosessualità e l’identità transgender» come il Ciad, il Brunei, la Nigeria.
Al punto 19, tanto per allargare il discorso anche fuori dal contesto Uganda, era espressa preoccupazione «per gli attuali movimenti globali anti diritti, anti genere e anti Lgbtq, alimentati da alcuni leader politici e religiosi in tutto il mondo, anche all’interno dell’Ue».
Per Kim Van Sparrentak, a nome dei Verdi/Alleanza libera europea e per Malin Björk della Sinistra, non bastava, bisognava puntare il dito su alcuni Paesi e hanno così proposto un emendamento, in cui venissero citate Ungheria, Polonia e Italia. L’aggiuntina della riga: «such as in Hungary, Poland and Italy» è passata, con 282 voti a favore, 235 contrari e 10 astenuti, la qual cosa chiarisce bene quanta poca unità parlamentare ci sia stata nell’accoglimento della modifica. Diciamola tutta, si è verificata una spaccatura della maggioranza Ursula al momento della votazione di quell’emendamento.
Il Ppe avrebbe dato indicazione di non votarlo, in quanto «estraneo allo scopo d’urgenza» della risoluzione, tutta incentrata sull’Uganda. Che bisogno c’era di parlare dell’Italia, in un contesto di condanna della violenta repressione degli Lgbtq? Chiara Gemma di Fratelli d’Italia ed eurodeputata del gruppo Ecr, ha definito «vergognoso» l’attacco concertato nei confronti dell’Italia. «Strumentalizzare le recenti vicende dell’Uganda e delle leggi discriminatorie sull’omosessualità, che prevedono addirittura la pena di morte, su cui naturalmente noi non possiamo che ribadire la nostra più ferma e totale condanna, tirando in mezzo l’Italia è una vergogna», ha tuonato.
Per poi aggiungere: «Solo pensare che nel nostro Paese esista la volontà di diffondere tale retropensiero da parte di alcuni leader politici viola qualsiasi regola del buonsenso e dell’obiettività. I fatti provano che l’operato quotidiano del nostro governo non abbia mai favorito nessuna discriminazione basata sull’inclinazione sessuale».
Ovviamente, ha esultato il dem Alessandro Zan, sostenendo che «per la prima volta oggi il Parlamento europeo ha esplicitamente condannato il governo italiano, insieme a quello dell’Ungheria di Orbán e della Polonia di Duda». In realtà, quello che si cerca di nascondere è il tentativo di mettere in difficoltà il Partito popolare europeo, nell’alleanza sempre più stretta con i Conservatori e riformisti europei (Ecr), proiettata anche alla guida dell’Ue nei prossimi anni.
Un’astuta manovra per mostrare quanto sarebbe imbarazzante un partenariato Ppe-Ecr, già concretizzato in Italia, se il nostro Paese risulta non rispettoso dei diritti Lgbtq. Poco importa che sia una falsità, evidente agli occhi di tutti. Il centrosinistra le sta tentando tutte, per mantenere la sua egemonia ai vertici europei.
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Dopo l’annuncio che metteva i passeggeri in guardia dagli «zingari», l’azienda dei trasporti della Capitale dà il via ai corsi per il personale. Lo scopo? Combattere «razzismo, sessismo e abilismo». Roberto Gualtieri applaude.Trappola all’Europarlamento, in una risoluzione contro le leggi omofobe dell’Uganda entra un emendamento che critica Roma. Manovre per ostacolare l’asse Ecr-Popolari.Lo speciale contiene due articoli Mai più allarme «zingari» dagli altoparlanti della metropolitana di Roma. E già che ci siamo, lotta al razzismo, alle discriminazioni basate sul sesso dei passeggeri, sui loro orientamenti sessuali e contro le persone con disabilità. Contro ignoranza e cattiva educazione, ecco i corsi aziendali per diventare persone civili. Ieri l’Atac ha dato il via ad appositi corsi di formazione anti discriminazione per il personale, affidati a un’organizzazione che si batte per i diritti dei gay, dopo che il mese scorso aveva fatto scandalo l’appello contro i borseggiatori, in cui un dipendente aveva usato il termine «zingari». Era il 10 marzo e sulla metro erano stati segnalati diversi borseggi, così un addetto aveva urlato un avvertimento non scritto in cui si diceva «attenti agli zingari» lungo la linea A. Era presente la giornalista Francesca Mannocchi, collaboratrice della Stampa e di La7, che via Twitter aveva immediatamente stigmatizzato l’episodio, parlando di razzismo. Pochi giorni dopo, la scrittrice Giulia Blasi raccontò sui social che su un tram della linea Centocelle-Laziali un macchinista si era lasciato andare ad alta voce a un «Negri di m…». Mentre il responsabile dell’annuncio contro le spettabili borseggiatrici e gli stimati borseggiatori era stato immediatamente identificato e sottoposto a procedimento disciplinare, del macchinista cafone non si è saputo più nulla. In ogni caso, ieri, è partito in Atac questo corso di rieducazione per personale viaggiante e amministrativo dal titolo «Il valore delle differenze», contro «razzismo, sessismo, abilismo e omolesbobitransfobia», che riprende un ciclo di lezioni già andato in scena in via sperimentale tre anni fa, per verificatori e bigliettai. Il corso è stato affidato ad Agedo, una Onlus che dal 1992 si occupa di mettere in contatto genitori, parenti e amici di persone lesbiche, gay, bisessuali e trans. E l’iniziativa ha ovviamente la benedizione del Comune e del sindaco, Roberto Gualtieri, che si era molto indignato sulla storia degli «zingari» e aveva definito l’episodio «inammissibile e inaccettabile». La politica ha immediatamente messo il cappello sull’iniziativa partita ieri, che offre finalmente l’occasione di essere tutti più buoni anche con Atac, nota in tutta Italia per il livello di disservizio, tra guasti e mezzi che vanno a fuoco o che non passano mai. Michela Cicculli, consigliere comunale di Sinistra civica ecologista, e Giovanni Zannola del Pd, hanno scritto in una nota che «in Atac parte un importante percorso formativo contro ogni forma di discriminazione [...]. L’obiettivo è quello di promuovere anche in questo settore l’attenzione al tema delle differenze, un’iniziativa particolarmente importante per Atac, dove operano migliaia di lavoratrici e lavoratori che in molti casi si trovano a contatto diretto con la cittadinanza». Lo scopo dei corsi è quello di «favorire un ambiente inclusivo, accogliente, non giudicante e di prevenire ed evitare ogni episodio di discriminazione interno ed esterno». Non solo in Atac, perché il progetto è quello di tenere corsi identici un po’ in tutte le municipalizzate di Roma.E in effetti, in questa Atac più «inclusiva» e «accogliente» c’è proprio il buonismo etereo del sindaco, il sorridente borgomastro con la chitarra in mano che finora non è minimamente riuscito a incidere su traffico e sporcizia della Capitale. Per tornare all’episodio dello scandalo, i romani sanno benissimo (i turisti un po’ meno) che su bus e metro devono stare attenti a portafogli, borse e zainetti perché sono all’opera bande di borseggiatori e scippatori di tutte le etnie. Forse a questo punto non sarebbe male che Comune e Atac, che in fondo avrebbero come core business la soddisfazione e la sicurezza di cittadini e passeggeri, tenessero anche dei corsi ai passeggeri per imparare a difendersi dalle molte mani leste in azione. I corsi partiti ieri non sono comunque una novità assoluta, perché 11 anni fa la stessa Atac aveva firmato una convenzione con Unar, l’Ufficio nazionale anti discriminazioni, che nel 2017 sarebbe stato coinvolto nello scandalo delle saune gay, per promuovere attività formative e organizzare insieme convegni e seminari di studio. Insomma, passano gli anni, e la cosmesi sui trasporti romani non cambia. Chi prende la metropolitana sperimenta tutti i giorni problemi che non sembrano indignare Gualtieri e sui quali sembra antipatico organizzare seminari e formazione coinvolgendo le Onlus amiche. I tasti dolenti sono sempre quelli dei ritardi, della scale mobili e degli ascensori che non funzionano, della sporcizia, delle stazioni chiuse e dei lavori che non finiscono mai. E qui non c’entra imparare a convivere con i passeggeri di etnia rom. Atac resta uno dei buchi neri della Capitale, anche finanziariamente, con il Comune che ha appena dovuto staccarle un assegno aggiuntivo da 40 milioni per il 2023, in modo da impedire il minacciato taglio delle corse. In totale, la municipalizzata assorbe circa 570 milioni l’anno. Almeno in vista del Giubileo 2025, l’Atac andrebbe risanata e rimessa in carreggiata. Al momento, c’è solo la garanzia che dagli altoparlanti verranno diffusi messaggi altamente inclusivi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/mai-piu-avvisi-anti-rom-sulla-metro-per-rieducare-latac-ce-la-onlus-lgbt-2659888601.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ue-choc-litalia-discrimina-i-gay" data-post-id="2659888601" data-published-at="1682016100" data-use-pagination="False"> Ue choc: «L’Italia discrimina i gay» Tanta fibrillazione per un emendamento, rivela l’ennesimo tentativo di screditare l’Italia a guida centrodestra. Ieri, le edizioni online sembravano impazzite nel riportare che il Parlamento europeo ha approvato una mozione che «condanna fermamente la diffusione di retorica anti diritti, anti gender e anti Lgbtq da parte di alcuni influenti leader politici e governi nell’Ue, come nel caso di Ungheria, Polonia e Italia». Chiariamo subito che all’ordine del giorno, mercoledì a Strasburgo, c’era la votazione per una Risoluzione sulla depenalizzazione universale dell’omosessualità alla luce dei recenti sviluppi in Uganda, dal momento che l’Ue è «profondamente preoccupata» per l’approvazione di un disegno di legge contro l’omosessualità da parte del Parlamento ugandese, che introduce pene severe, compresa la pena di morte. Legittima posizione, passata a stragrande maggioranza (con 416 voti a favore, 62 contrari, 36 astenuti) e che è stata trasmessa al governo ugandese, così pure agli altri Paesi «che ancora criminalizzano l’omosessualità e l’identità transgender» come il Ciad, il Brunei, la Nigeria. Al punto 19, tanto per allargare il discorso anche fuori dal contesto Uganda, era espressa preoccupazione «per gli attuali movimenti globali anti diritti, anti genere e anti Lgbtq, alimentati da alcuni leader politici e religiosi in tutto il mondo, anche all’interno dell’Ue». Per Kim Van Sparrentak, a nome dei Verdi/Alleanza libera europea e per Malin Björk della Sinistra, non bastava, bisognava puntare il dito su alcuni Paesi e hanno così proposto un emendamento, in cui venissero citate Ungheria, Polonia e Italia. L’aggiuntina della riga: «such as in Hungary, Poland and Italy» è passata, con 282 voti a favore, 235 contrari e 10 astenuti, la qual cosa chiarisce bene quanta poca unità parlamentare ci sia stata nell’accoglimento della modifica. Diciamola tutta, si è verificata una spaccatura della maggioranza Ursula al momento della votazione di quell’emendamento. Il Ppe avrebbe dato indicazione di non votarlo, in quanto «estraneo allo scopo d’urgenza» della risoluzione, tutta incentrata sull’Uganda. Che bisogno c’era di parlare dell’Italia, in un contesto di condanna della violenta repressione degli Lgbtq? Chiara Gemma di Fratelli d’Italia ed eurodeputata del gruppo Ecr, ha definito «vergognoso» l’attacco concertato nei confronti dell’Italia. «Strumentalizzare le recenti vicende dell’Uganda e delle leggi discriminatorie sull’omosessualità, che prevedono addirittura la pena di morte, su cui naturalmente noi non possiamo che ribadire la nostra più ferma e totale condanna, tirando in mezzo l’Italia è una vergogna», ha tuonato. Per poi aggiungere: «Solo pensare che nel nostro Paese esista la volontà di diffondere tale retropensiero da parte di alcuni leader politici viola qualsiasi regola del buonsenso e dell’obiettività. I fatti provano che l’operato quotidiano del nostro governo non abbia mai favorito nessuna discriminazione basata sull’inclinazione sessuale». Ovviamente, ha esultato il dem Alessandro Zan, sostenendo che «per la prima volta oggi il Parlamento europeo ha esplicitamente condannato il governo italiano, insieme a quello dell’Ungheria di Orbán e della Polonia di Duda». In realtà, quello che si cerca di nascondere è il tentativo di mettere in difficoltà il Partito popolare europeo, nell’alleanza sempre più stretta con i Conservatori e riformisti europei (Ecr), proiettata anche alla guida dell’Ue nei prossimi anni. Un’astuta manovra per mostrare quanto sarebbe imbarazzante un partenariato Ppe-Ecr, già concretizzato in Italia, se il nostro Paese risulta non rispettoso dei diritti Lgbtq. Poco importa che sia una falsità, evidente agli occhi di tutti. Il centrosinistra le sta tentando tutte, per mantenere la sua egemonia ai vertici europei.
iStock
Femminismo è il vezzoso nome dato alla misandria occidentale, e la misandria è stato il mezzo per distruggere nel giro di due generazioni l’invincibile società occidentale giudaico-cristiana: le donne sempre vittime, i maschi sempre carnefici e soprattutto nemici. La «vera donna» si sente sorella di sconosciute, incluse cantanti mediocri che guadagnano cifre astronomiche mostrando la biancheria intima o la sua assenza, ma non deve avere linee di collaborazione o anche solo umana simpatia con il marito o il compagno. Il femminismo occidentale non è difesa delle donne, è misandria, odio per gli uomini. Il femminismo misandrico è un movimento creato a tavolino, con lo scopo di distruggere la famiglia, che è un’unità affettivo/economica con una sua intrinseca potenza: rende le persone non isolate, e quindi meno malleabili, tali da avere la forza di opporsi al potere dello Stato o del parastato. Il secondo scopo è abbattere i salari buttando sul mercato milioni di lavoratrici. Il terzo scopo è annientare le aree di lavoro non tassabile. Le donne a casa loro fanno lavori non tassabili: cucire, cucinare, costruire giocattoli, creare tende e vestiario, fare conserve, allevare bambini. Ora il loro lavoro è sostituito da supermercati, orrendi cibi precotti, con tutti i danni dei cibi processati, vestiario «made in China» fatto da schiavi sottopagati e soprattutto educatrici e insegnanti.
A ogni interazione madre-figlio, il cervello del bambino piccolo crea miliardi di sinapsi. Ogni interazione con l’estranea cui è affidato mentre mamma si sta facendo sfruttare da qualcuno in un posto di lavoro - e deve farlo perché il salario di papà è troppo basso - fabbrica molte meno sinapsi. Per i bambini, essere affidati a estranei al di sotto dei tre anni è un danno neurobiologico. Chi nega questa affermazione sta mentendo. Il bambino impara la regolazione delle emozioni sulla madre, ma per poter completare questo processo la madre deve essere presente. Con l’estranea cui è stato affidato, il processo non può realizzarsi. Inoltre, per quell’estranea il bambino è lavoro. Ci sono persone che amano il loro lavoro, altre che lo detestano: nel caso delle educatrici, quello che è detestato è il bambino. Ogni tanto bisogna mettere le videocamere per scoprire bambini picchiati o umiliati. La madre lavoratrice deve occuparsi del lavoro e quando alla sera torna a casa stanca e nervosa deve occuparsi del bambino, che alla sera, dopo ore e ore con estranee, è stanco e nervoso. Il peso è micidiale.
Le donne non mettono più al mondo figli. Il femminismo misandrico è stato creato per abbattere la natalità. Quando il bambino è malato, la mamma non può stare con lui. La presenza della madre fabbrica endorfine che potenziano il sistema immunitario. La sua assenza fabbrica cortisolo, ormone da stress che abbatte il sistema immunitario. Per poter essere affidato alle estranee del nido, il bambino deve essere sottoposto a un esavalente che in molte altre nazioni è vietato. Il 70% delle morti improvvise in culla avviene nella settimana successiva all’iniezione dell’esavalente. Perché le madri possano serenamente lavorare è stato creato il latte in polvere, pessimo prodotto che sostituisce il cibo perfetto dal punto di vista nutrizionale e immunologico che è il latte materno. È statisticamente dimostrata la differenza cognitiva e la migliore salute dei bambini allattati al seno. Dopo i tre anni un bambino potrebbe restarsene benissimo a casa sua; se proprio lo si vuole mandare all’asilo, sarebbe meglio non superare le due ore al giorno. Quando ha sei anni, il bambino dovrebbe andare in una scuola quattro ore, dalle 8.30 alle 12.30. Se la classe è fatta da bambini in maggioranza sereni e tutti della stessa madrelingua, come negli anni Cinquanta, quattro ore sono sufficienti.
Il bambino, messo sotto stress dalla mancanza cronica della madre, consegnato allo Stato per un numero spaventoso di ore, diventa un perfetto recipiente per la propaganda.
Le femministe hanno conquistato il diritto al lavoro. Il lavoro è una maledizione biblica. Anche l’aborto è una maledizione biblica e pure di quello hanno conquistato il diritto. Nella Cappella Sistina, Michelangelo ha rappresentato il momento in cui il serpente corrompe Eva con la mela: il serpente ha un volto di donna. Un’ intuizione geniale. Le donne hanno meno testosterone: questo le rende più accoglienti, permette la maternità, ma le rende meno capaci di battersi. Noi siamo meno capaci di combattere, cediamo più facilmente alla propaganda. Il vittimismo isterico del femminismo misandrico è stata la tentazione con cui le donne hanno annientato la invincibile civiltà giudaico-cristiana. Abbiamo ancora una generazione, forse una e mezza. Creperemo di denatalità e scemenze: tra due generazioni al massimo saremo una repubblica islamica. Il potere è stato tolto al pater familias, che era sporco brutto e cattivo, ma era comunque uno cui di quella donna e quei bambini importava, ed è stato consegnato allo Stato, una macchina burocratica cieca e stolida. Lo Stato decide quanti vaccini un bambino deve fare, mentre gli Ordini dei medici applicano la legge Lorenzin radiando tutti coloro che si permettono di parlare della criticità di questi farmaci. Lo Stato decide cosa un bambino deve mangiare: le orrende mense scolastiche dove si mangia pessimo cibo statale sono obbligatorie. Digitate su Google le parole mensa scolastica e tossinfezioni alimentari e troverete dati interessanti. I dati che mancano sono i danni su danni sul lungo periodo degli oli di bassa qualità, della conserva di pomodoro comprata dove costava meno (spesso sono pomodori coltivati in Cina con fertilizzanti pessimi). Lo Stato decide come il bambino deve vivere e se la famiglia si permette di farlo vivere felice in un bosco, lo Stato interviene. Lo Stato decide cosa il bambino deve pensare, perché l’etica gliela insegnano i docenti, quasi sempre femmine, che sono impiegati statali che eseguono gli ordini, le circolari, fanno corsi di aggiornamento Lgbt e hanno criminalizzato i ragazzi non vaccinati per il Covid.
Grazie al femminismo misandrico, in Italia, la disparità tra padre e madre è clamorosa: i padri sono esseri inferiori. La donna ha potere di vita e morte sul concepito, un potere osceno e criminale. Si considera criminale un padre che ha picchiato suo figlio, ma non si considera criminale una donna che ha fatto macellare il suo bambino nel suo ventre. Il potere che ha creato il femminismo misandrico vuole gli aborti, li adora. Se hai abbandonato il cane sei un bastando, se hai fatto uccidere tuo figlio nel tuo ventre sei un’eroina della libertà. Per far uccidere il bambino nel suo ventre, la donna ha bisogno di un medico, che diventa quindi un medico che sopprime vite umane. Il feto è vivo ed è umano. Chi lo sopprime, sta sopprimendo vite umane. Se la donna vuole abortire, il padre non può opporsi. La donna può abortire, ma il padre non può rifiutarsi di pagare gli alimenti, deve assumersi la responsabilità economica fino alla maggiore età (e spesso oltre), eredità garantita al figlio, un terzo del patrimonio che deve essere accantonato. La donna può rendere suo figlio orfano di padre: può partorirlo, disconoscerlo e impedire che il padre lo riconosca. Il padre, per riconoscere il figlio, deve arruolare uno o più avvocati, pagarli e imbarcarsi in una guerra giudiziaria lunga e dall’esito incerto. Mentre le donne sono normalmente aggredite da immigrati islamici, l’invasione che sostituisce il deficit demografico dei bambini abortiti, al punto che non si possono più fare manifestazioni in piazza come quelle di Capodanno, quando l’uomo è bianco e occidentale, la parola della donna in tribunale vale più di quella dell’uomo.
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Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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