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2021-05-03
La (machiavellica) strategia russa in Libia
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Il Primo ministro della Libia Abdul Hamid Dbeibah e il miniatro degli Esteri russo Sergei Lavrov (Ansa)
A metà aprile, l'attuale primo ministro libico, Abdul Hamid Dbeibah, si è recato in visita a Mosca. Durante il suo viaggio, Dbeibah ha avuto modo di incontrarsi con alti funzionari russi, tra cui il primo ministro Mikhail Mishustin, il ministro della Difesa Sergei Shoigu e il segretario del Consiglio di sicurezza Nikolay Patrushev: al centro dei colloqui, sono stati posti il processo di pace in Libia e le questioni inerenti al settore energetico. Dbeibah ha in particolare assicurato di voler «costruire nuovi ponti» con la Russia e ha sottolineato la capacità di Mosca di svolgere un «ruolo chiave» nell'economia libica. «Per quanto riguarda gli investimenti, nella fase di costituzione di nuove agenzie governative è importante prendere decisioni efficaci che garantiscano determinati diritti a chi fa investimenti. Le garanzie per gli investimenti sono molto importanti oggi per il ritorno delle aziende russe in Libia», ha invece dichiarato Mishustin. «Abbiamo buone opportunità nell'energia, nelle industrie, nelle infrastrutture di trasporto, nel settore agroindustriale. Siamo anche pronti a offrire le nostre soluzioni nei servizi digitali ai nostri amici libici», ha aggiunto.
Si è trattato, nel suo complesso, di un incontro significativo. Innanzitutto perché, in passato, Dbeibah aveva duramente criticato le forze legate ai mercenari russi nella parte orientale della Libia. In secondo luogo, nonostante sia un pragmatico politicamente trasversale, l'attuale premier libico intrattiene stretti legami con la Fratellanza Musulmana e (conseguentemente) con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan: non dimentichiamo che, appena pochi giorni prima della sua visita moscovita, Dbeibah si fosse recato proprio ad Ankara per incontrare il presidente turco. Ricordiamo tra l'altro che, nel corso degli ultimi due anni, il Cremlino abbia spalleggiato il generale Khalifa Haftar, acerrimo nemico del governo di Tripoli, guidato all'epoca da Fayez al Serraj.
Qual è allora la strategia della Russia in questa situazione? Mosca, esattamente come Ankara, ha dichiarato il proprio appoggio all'attuale Governo di unità nazionale libico, ufficialmente costituitosi lo scorso 10 marzo: non solo il ministero degli Esteri russo ha subito approvato la legittimità del nuovo esecutivo, ma l'incaricato d'affari russo in Libia, Jamshed Boltaev, ha tenuto colloqui con i membri del parlamento libico e ha annunciato l'intenzione di riaprire l'ambasciata russa a Tripoli. In tutto questo, Mosca, il mese scorso, ha inviato 100.000 dosi di vaccino Sputnik nel Paese. Ciononostante la Russia prosegue contemporaneamente a strizzare l'occhio alle galassie orbitanti attorno al generale Haftar (facendo soprattutto leva sui mercenari del Wagner Group).
Si tratta, a ben vedere, di una contraddizione soltanto apparente. Come ha recentemente sottolineato il Royal United Services Institute, «questa strategia di bilanciamento potrebbe consentire all'influenza della Russia in Libia di rimanere impermeabile ai cambiamenti politici sul terreno e produrre lucrosi contratti di ricostruzione per le società statali russe». Insomma, visto che l'incertezza politica continua di fatto a regnare in Libia, è come se il Cremlino volesse per così dire tenersi le mani libere, con l'obiettivo di capire quale delle forze in campo riuscirà alla fine a prevalere. Una posizione, questa, indubbiamente più trasversale di quella turca, la quale – al contrario – punta convintamente su Dbeibah, nella speranza di mantenere salda l'influenza sul Paese anche dopo le elezioni fissate per il prossimo dicembre.
D'altronde, che la situazione sia complessa è testimoniato anche dal fatto che, appena la settimana scorsa, il premier libico abbia dovuto annullare una visita a Bengasi, dopo che alcune milizie fedeli ad Haftar avevano bloccato l'aeroporto cittadino. Insomma, il generale della Cirenaica non sembra essere troppo intenzionato a tirarsi indietro (la sua persistente centralità è tra l'altro testimoniata dal suo recentissimo incontro con l'inviato speciale dell'Onu per la Libia e capo dell'Unsmil, Jan Kubis). E, come abbiamo visto, i russi non lo hanno del tutto abbandonato. Su questa aggrovigliata situazione pesa poi l'incertezza internazionale. E, in particolare, il ruolo degli Stati Uniti. Teoricamente l'ambivalenza russa in Libia dovrebbe avvicinare Ankara e Washington. Eppure ciò non è affatto detto. In primis, l'amministrazione di Joe Biden punterebbe a porre fine alla spartizione del Paese, attuata da Turchia e Russia: un obiettivo, questo, che sembrerebbe voler conseguire giocando di sponda con Mario Draghi. Dall'altra, il recente riconoscimento del genocidio armeno da parte di Biden ha creato non poche fibrillazioni diplomatiche tra Washington e Ankara. Ragion per cui la situazione libica resta sospesa. E Mosca ne vuole approfittare.
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È una strategia articolata quella che Mosca sta portando avanti nel complicato scacchiere libico. Una strategia fondata su un approccio non poco ambivalente nei confronti del Governo di unità nazionale. A metà aprile, l'attuale primo ministro libico, Abdul Hamid Dbeibah, si è recato in visita a Mosca. Durante il suo viaggio, Dbeibah ha avuto modo di incontrarsi con alti funzionari russi, tra cui il primo ministro Mikhail Mishustin, il ministro della Difesa Sergei Shoigu e il segretario del Consiglio di sicurezza Nikolay Patrushev: al centro dei colloqui, sono stati posti il processo di pace in Libia e le questioni inerenti al settore energetico. Dbeibah ha in particolare assicurato di voler «costruire nuovi ponti» con la Russia e ha sottolineato la capacità di Mosca di svolgere un «ruolo chiave» nell'economia libica. «Per quanto riguarda gli investimenti, nella fase di costituzione di nuove agenzie governative è importante prendere decisioni efficaci che garantiscano determinati diritti a chi fa investimenti. Le garanzie per gli investimenti sono molto importanti oggi per il ritorno delle aziende russe in Libia», ha invece dichiarato Mishustin. «Abbiamo buone opportunità nell'energia, nelle industrie, nelle infrastrutture di trasporto, nel settore agroindustriale. Siamo anche pronti a offrire le nostre soluzioni nei servizi digitali ai nostri amici libici», ha aggiunto. Si è trattato, nel suo complesso, di un incontro significativo. Innanzitutto perché, in passato, Dbeibah aveva duramente criticato le forze legate ai mercenari russi nella parte orientale della Libia. In secondo luogo, nonostante sia un pragmatico politicamente trasversale, l'attuale premier libico intrattiene stretti legami con la Fratellanza Musulmana e (conseguentemente) con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan: non dimentichiamo che, appena pochi giorni prima della sua visita moscovita, Dbeibah si fosse recato proprio ad Ankara per incontrare il presidente turco. Ricordiamo tra l'altro che, nel corso degli ultimi due anni, il Cremlino abbia spalleggiato il generale Khalifa Haftar, acerrimo nemico del governo di Tripoli, guidato all'epoca da Fayez al Serraj. Qual è allora la strategia della Russia in questa situazione? Mosca, esattamente come Ankara, ha dichiarato il proprio appoggio all'attuale Governo di unità nazionale libico, ufficialmente costituitosi lo scorso 10 marzo: non solo il ministero degli Esteri russo ha subito approvato la legittimità del nuovo esecutivo, ma l'incaricato d'affari russo in Libia, Jamshed Boltaev, ha tenuto colloqui con i membri del parlamento libico e ha annunciato l'intenzione di riaprire l'ambasciata russa a Tripoli. In tutto questo, Mosca, il mese scorso, ha inviato 100.000 dosi di vaccino Sputnik nel Paese. Ciononostante la Russia prosegue contemporaneamente a strizzare l'occhio alle galassie orbitanti attorno al generale Haftar (facendo soprattutto leva sui mercenari del Wagner Group). Si tratta, a ben vedere, di una contraddizione soltanto apparente. Come ha recentemente sottolineato il Royal United Services Institute, «questa strategia di bilanciamento potrebbe consentire all'influenza della Russia in Libia di rimanere impermeabile ai cambiamenti politici sul terreno e produrre lucrosi contratti di ricostruzione per le società statali russe». Insomma, visto che l'incertezza politica continua di fatto a regnare in Libia, è come se il Cremlino volesse per così dire tenersi le mani libere, con l'obiettivo di capire quale delle forze in campo riuscirà alla fine a prevalere. Una posizione, questa, indubbiamente più trasversale di quella turca, la quale – al contrario – punta convintamente su Dbeibah, nella speranza di mantenere salda l'influenza sul Paese anche dopo le elezioni fissate per il prossimo dicembre. D'altronde, che la situazione sia complessa è testimoniato anche dal fatto che, appena la settimana scorsa, il premier libico abbia dovuto annullare una visita a Bengasi, dopo che alcune milizie fedeli ad Haftar avevano bloccato l'aeroporto cittadino. Insomma, il generale della Cirenaica non sembra essere troppo intenzionato a tirarsi indietro (la sua persistente centralità è tra l'altro testimoniata dal suo recentissimo incontro con l'inviato speciale dell'Onu per la Libia e capo dell'Unsmil, Jan Kubis). E, come abbiamo visto, i russi non lo hanno del tutto abbandonato. Su questa aggrovigliata situazione pesa poi l'incertezza internazionale. E, in particolare, il ruolo degli Stati Uniti. Teoricamente l'ambivalenza russa in Libia dovrebbe avvicinare Ankara e Washington. Eppure ciò non è affatto detto. In primis, l'amministrazione di Joe Biden punterebbe a porre fine alla spartizione del Paese, attuata da Turchia e Russia: un obiettivo, questo, che sembrerebbe voler conseguire giocando di sponda con Mario Draghi. Dall'altra, il recente riconoscimento del genocidio armeno da parte di Biden ha creato non poche fibrillazioni diplomatiche tra Washington e Ankara. Ragion per cui la situazione libica resta sospesa. E Mosca ne vuole approfittare.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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