2024-12-27
Ma quali «nomine pazze» di Trump. Ogni scelta mira a sradicare Biden
Le designazioni del futuro presidente sono tutt’altro che macchiettistiche, come sostenuto da certa stampa. The Donald punta infatti a distruggere le politiche woke di Sleepy Joe e silurare le filiere burocratiche dem.In Italia c’è chi deride le nomine di Donald Trump per la sua nuova amministrazione. In realtà, se si vuole andare al di là delle interpretazioni settarie o semplicistiche, bisognerebbe evitare i giudizi affrettati. Piacciano o meno, le nomine del tycoon poggiano su un disegno politico ben preciso e tengono conto dei complessi equilibri riguardanti la coalizione elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca. È quindi possibile ravvisare alcune componenti che stanno emergendo.Cominciamo con quella che potremmo definire la componente «istituzionale». Per gli incarichi più importanti sul fronte della politica estera, il presidente americano in pectore ha fatto delle scelte in un certo senso «tradizionali»: il senatore Marco Rubio come segretario di Stato, il deputato Mike Waltz come consigliere per la sicurezza nazionale e il generale Keith Kellogg come inviato speciale per l’Ucraina. Sia chiaro: tutti e tre sono stretti alleati del tycoon. I primi due lo hanno ferreamente spalleggiato a livello parlamentare, mentre il terzo è stato ai vertici dell’America first policy institute. Non solo. I tre condividono con Trump anche il ritorno al principio reaganiano della «pace attraverso la forza»: l’idea, cioè, che la stabilità debba essere costruita tramite la deterrenza, evitando l’isolazionismo e, al contempo, pericolosi esperimenti di regime change o nation building.Dall’altra parte, il terzetto è funzionale a gettare un ponte con quegli ambienti dell’establishment di Washington maggiormente legati ai circoli diplomatici e di sicurezza nazionale. Senza trascurare che i tre aiutano Trump a dialogare anche con gli alleati europei. Il tycoon vuole infatti superare quell’isolamento che, in parte, lo perseguitò nel corso del primo mandato. E queste nomine lo assistono esattamente in tal senso. Del resto, tra le scelte istituzionali vanno annoverate anche quelle con cui il presidente americano in pectore ha de facto teso la mano alle alte sfere di Wall Street: non a caso, ha optato per due finanzieri, quali Steve Bessent e Howard Lutnick, rispettivamente come segretario al Tesoro e segretario al Commercio.La seconda componente della nascente amministrazione è invece quella antisistema: Pete Hegseth capo del Pentagono, Tulsi Gabbard direttrice dell’Intelligence nazionale, John Ratcliffe direttore della Cia e Pam Bondi procuratrice generale. Queste figure hanno fatto stracciare le vesti a vari commentatori, che hanno lamentato una loro eccessiva vicinanza a Trump, oltre a una presunta mancanza di esperienza. Peccato che queste critiche non colgano il punto. Innanzitutto la Bondi è stata procuratrice generale della Florida per 8 anni, mentre Ratcliffe fu direttore dell’Intelligence nazionale nel 2020. La stessa Gabbard, da deputata, fece parte della sottocommissione parlamentare per i servizi. In secondo luogo, il tycoon non ha mai fatto mistero di essere un ammiratore di Andrew Jackson, il presidente americano considerato l’inventore dello spoil system. Ed è esattamente a uno spoil system radicale quello a cui Trump punta, per riformare strutturalmente alcune istituzioni, a partire dal Pentagono e dalla comunità d’Intelligence.Il presidente americano in pectore vuole, in altre parole conseguire due obiettivi. Primo: sradicare le politiche di inclusione ed equità che Joe Biden aveva portato avanti nelle istituzioni. Secondo: silurare quelle filiere burocratiche che risalgono di fatto all’amministrazione Obama. È partendo da tali obiettivi che si comprendono le designazioni di Hegseth, Ratcliffe, Bondi e Gabbard. È chiaro che questi neonominati andranno valutati laicamente ex post. Tuttavia, chi oggi parla di una loro presunta incompetenza, dovrebbe ricordare che gli «adulti» designati da Biden non hanno affatto brillato. Il presidente uscente ha messo a capo del Pentagono un generale, come Lloyd Austin, e l’ex vicedirettrice della Cia, Avril Haines, alla guida dell’Intelligence nazionale. Eppure, in questi anni, si sono verificate numerose fughe di notizie (pensiamo soltanto agli imbarazzanti Pentagon leaks nel 2023). E arriviamo alla terza componente della nascente amministrazione: quella legata ai settori ipertecnologici. Da questo punto di vista, le figure più significative sono quelle di Elon Musk e Vivek Ramaswamy, che Trump ha messo a capo del Doge, il nuovo Dipartimento per l’efficienza governativa. L’incarico è delicato. E consiste in qualcosa di assai più rilevante di una semplice spending review. Trump ha presentato il ministero paragonandolo significativamente al Progetto Manhattan. D’altronde, questa nuova iniziativa racchiude in sé le due anime del «Musk politico». Da una parte, emerge l’elemento libertarian, da interpretarsi come taglio dei costi superflui e riduzione dell’intervento statale rispetto a determinati settori. Dall’altra, il Doge punta a riformare la pubblica amministrazione e gli apparati governativi: il che implica, sì, razionalizzazione ma, al contempo, un loro potenziamento, in vista delle sfide internazionali che gli Usa si troveranno ad affrontare nei prossimi decenni.D’altronde, Musk, tramite SpaceX, vanta significativi contratti d’appalto con il Pentagono: un rapporto, quello con il Pentagono, che risale ai tempi dell’amministrazione Obama. Sarà un caso, ma il riposizionamento di Musk a favore dei repubblicani è cominciato nel 2022: pochi mesi dopo, cioè, le tensioni esplose tra l’amministrazione Biden e la burocrazia del Dipartimento della Difesa in conseguenza del disastroso ritiro afgano. In Musk, l’elemento libertarian e quello di apparato, insomma, convivono. E proprio alcuni settori del Pentagono vedono nel magnate sudafricano - tra l’altro non da oggi - un asset strategico: un po’ quello che Wernher von Braun rappresentò per gli Usa durante la Guerra Fredda. Trump ha quindi capito che gli apparati vanno, sì, riformati. Ma ha anche appreso dal primo mandato che non si può governare agevolmente avendoceli contro. Ecco perché, al di là delle banalizzazioni macchiettistiche di certa stampa, Musk rappresenta per lui una figura chiave.Tutto questo senza trascurare la quarta componente della nuova amministrazione: quella legata alla working class. Trump sa che la coalizione elettorale che lo ha riportato alla Casa Bianca trova uno dei propri pilastri nei colletti blu della Rust Belt. È dunque guardando a loro che il tycoon ha nominato come segretario al Lavoro, Lori Chavez-DeRemer, deputata repubblicana che, sulle questioni socioeconomiche, è molto spostata a sinistra, godendo anche dell’appoggio di alcuni importanti sindacati, come quello degli autotrasportatori. Lo stesso Bessent si è mostrato favorevole all’uso dei dazi: una politica commerciale, questa, che, soprattutto quando applicata contro Pechino, viene storicamente apprezzata dai colletti blu del Michigan. Guarda caso, Trump ha scelto come proprio consigliere senior Peter Navarro: un altro storico fautore del ricorso alle tariffe.Ma Trump, nel formare la sua amministrazione, sta considerando anche due «correnti» che potremmo definire trasversali. La prima è quella dei convertiti al trumpismo: ex dem come la Gabbard e Robert Kennedy jr, o ex alleati di suoi storici avversari, come Bessent, che è stato a lungo socio di George Soros. Questo significa che il tycoon sta guardando al di là del solo mondo conservatore e sta cercando di far sì che il suo team rifletta il più possibile la complessità della coalizione elettorale che lo ha votato a novembre: coalizione in cui i dem delusi e gli indipendenti hanno giocato un ruolo decisivo.La seconda corrente trasversale è quella cattolica. Cattolico è, per esempio, JD Vance, ma lo sono anche Ratcliffe, Rubio, Kennedy jr e la Chavez-DeRemer. Cattolici sono inoltre il prossimo ambasciatore presso la Santa Sede, Brian Burch (che è altresì il cofondatore di Catholic vote), nonché la prossima rappresentante statunitense all’Onu, Elise Stefanik. Il cattolicesimo offre al trumpismo un collante culturale e ideologico alternativo al progressismo estremista uscito sconfitto dalle urne lo scorso 5 novembre. Non solo. Potrebbe garantirgli anche un quadro di riferimento di valori e concretezza, a cui ricorrere tanto in politica interna quanto a livello internazionale. Tra l’altro, considerando la storia del cattolicesimo politico statunitense, questa componente può conferire al trumpismo quella trasversalità e quella duttilità necessarie per cercare di costruire un discorso nazionale interclassista, che sia capace di disinnescare, almeno parzialmente, la polarizzazione che affligge da 15 anni gli Stati Uniti. Ecco perché la componente cattolica non è affatto da sottovalutare.Le sfide che attendono il prossimo presidente americano sono numerose. E alcune fanno oggettivamente tremare i polsi. Non sappiamo come andrà a finire. Ma, a giudicare da come il tycoon si sta muovendo al momento, una cosa ci sentiamo di dirla: le carte in regola per avere successo, Trump le ha tutte.
Jose Mourinho (Getty Images)