
James Ellroy nel suo nuovo libro torna sui conflitti etnici che da sempre insanguinano il Paese. Troppo facile dare la colpa ai populisti.Il nuovo romanzo di James Ellroy (Questa tempesta, in uscita per Einaudi) si apre con una citazione di Benito Mussolini: «Solo il sangue muove le ruote della Storia». E di sicuro la frase in questione contribuirà ad alimentare la fama dello scrittore americano che si è autodefinito «the white knight of the far right», cioè «il cavaliere bianco dell'estrema destra». Anche se, come sa chi abbia un poco di dimestichezza con le opere e le intemperanze di Ellroy, le sue pose da fascistone sono più che altro smargiassate, punzecchiature buone per far infuriare qualche critico americano troppo fissato con la correttezza politica. «Mi hanno dato del fascista, razzista, antisemita e antipapista soltanto perché lo sono i miei personaggi», ha detto una volta il caro James, da uomo squisito qual è. Poi ha ripreso a provocare e a infarcire i suoi romanzi di insulti a sfondo razziale così roventi da far impallidire un veterano del Ku Klux Klan. Ma, in effetti, gli unici che gli diano davvero fastidio sembrano essere i terroristi islamici: «Sarò razzista, sarò xenofobo», disse in un'intervista contenuta in Ellroy Confidential (Minimum Fax), «ma i terroristi arabi non mi fanno impazzire. Penso che siano un branco di figli di puttana scopacammelli».Insomma, l'idea che Ellroy sia uno da spedire al cospetto della commissione Segre è piuttosto balzana. Eppure la citazione mussoliniana con cui ha inaugurato l'ultimo romanzo riassume perfettamente il senso delle sue opere più recenti (tra cui figura anche Il sangue è randagio, tanto per restare in tema). Si può dire, infatti, che lo scrittore americano - con tutta la sua brutalità - sia stato il più attento cronista delle tensioni razziali americane, il più scrupoloso studioso dei conflitti etnici e culturali che dilaniano gli Stati Uniti. Certo, in ogni intervista James ripete che la politica non gli interessa, anzi che il mondo circostante lo attrae davvero poco: lui vive in un altro tempo, in un altro spazio, una dimensione parallela in cui i decenni tra i Quaranta e i Sessanta si ripetono ciclicamente. Tuttavia la sua bibliografia è senz'altro il più utile strumento per comprendere che cosa stia accadendo in America in questi giorni dopo l'uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis.Leggendo Ellroy, ci si rende conto che tutta l'atroce vicenda che ha causato sommosse, rivolte e altre morti ha ben poco a che fare con la stretta attualità, o con l'ascesa di Donald Trump e la presunta affermazione del populismo. Stiamo semplicemente osservando il nuovo capitolo di un racconto iniziato tanto tempo fa. «L'America non è mai stata innocente», scrive Ellroy all'inizio di American Tabloid. «Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall'inizio». Come a dire che l'America affonda le radici nel sangue. Lo scontro razziale la connota sin dal primo vagito, e non si tratta soltanto di bianchi contro neri, ma di tutti contro tutti. È la carneficina multiculturale, di cui Ellroy ha descritto ogni coltellata, ogni ringhio, ogni fiotto di plasma.In Perfidia, il romanzo appena precedente a Questa tempesta, Ellroy mette le mani in un verminaio che gli Usa hanno sempre scoperchiato di malavoglia, ovvero la persecuzione del «nemico interno» giapponese dopo Pearl Harbour. Nel nuovo libro, ambientato nel 1942, l'odio anti nipponico è sempre in primo piano, anche perché i personaggi sono sostanzialmente gli stessi di Perfidia e di vari altri libri. Ma c'è anche il disprezzo dei bianchi verso i neri (i cui quartieri in altri libri vengono indicati con il simpatico appellativo «negropoli»), degli irlandesi verso i messicani e gli italiani, dei Wasp verso gli ebrei. Il crogiuolo di razze è un crogiuolo di avversioni profondissime e antiche. Direte: non si può confondere l'opera pulp di un autore che strizza l'occhio al complottismo con la realtà. Eppure, qui non parliamo soltanto di fiction: da sempre Ellory compone una sorta di controstoria in cui invenzione e realtà si fondono, anzi la finzione fa stillare ancora più verità al reale. Si può dire che lo stesso stile del romanziere americano rispecchi il carattere della sua nazione: scrive di duri, di omicidi, di scandali orrendi sepolti sotto il tappeto, di razzismo, e passa per destrorso. Eppure le sue frasi sono puro be bop, a tratti la sua prosa si fa jazzistica come in Louis-Ferdinand Céline. E, ancora come in Céline, Ellroy è inimitabile a elencare le bagattelle che portano al massacro. È il sangue a muovere le ruote della storia statunitense. E non è colpa di Trump o dei populisti. Il sangue randagio e marcio scorre nelle vene dell'America da quando è stata edificata. E in fondo, dagli anni Quaranta di Ellroy a oggi, è cambiato soltanto il linguaggio: sotto al politically correct si seppelliscono gli scheletri del conflitto razziale. Solo che ogni tanto una mano spaventosa spunta dalla punta, e provoca disastri.
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