2018-11-05
L’utero in affitto? Un calvario. Cinema e libri lo dimostrano
Il lungometraggio di Netflix Private life e il romanzo canadese La straniera restituiscono realtà ben diverse dai quadretti tutti «dono» e «amore» dei giornali. Talvolta, quando si cerca la verità, è bene rivolgersi al cinema e alla letteratura: sanno raccontarla molto meglio di tanti saggi e articoli di giornale. Una bella dose di verità, per esempio, è contenuta in un lungometraggio ora visibile su Netflix e intitolato Private life. Lo ha girato Tamara Jenkins, sceneggiatrice e regista americana molto apprezzata. La trama è piuttosto semplice. Richard (interpretato dal bravissimo Paul Giamatti) e Rachel (l'ancora più brava Kathryn Hahn) si avvicinano alla mezza età. Sono una coppia di intellettuali: scrivono, firmano lavori d'avanguardia per il teatro, sono colti e sembrano anche piuttosto liberal. Più di tutto, però, desiderano avere un figlio. Ci hanno provato in tutti i modi: hanno fatto domanda per l'adozione, hanno provato e riprovato senza successo la fecondazione in vitro. Nulla ha portato risultati. E così, ecco la soluzione. Un dottore, al termine dell'ennesima visita, porge loro un volantino con uno slogan inquietante: «A volte, per fare una famiglia, bisogna essere in tre». Già: Private life è un film sulla maternità surrogata. L'utero in affitto. Ha una particolarità: non è né a favore né contro la surrogazione. Semplicemente, racconta la storia di una coppia che decide di sperimentarla. Ed è proprio in questo racconto che esplode la verità. Questo film - basato su esperienze reali - mostra una realtà totalmente diversa da quella descritta sui nostri media. Fateci caso. Quando sentiamo parlare di utero in affitto assistiamo a un gran dispendio di termini come «amore» o «dono». Salvo rare eccezioni, la maternità surrogata ci viene presentata come un prezioso aiuto che anonime donatrici dal cuore grande offrono a coppie (etero e omosessuali) per realizzare i loro sogni.Private life, però, ci fa vedere l'altra faccia della medaglia. Richard e Rachel si sottopongono a quello che, a tutti gli effetti, è un calvario. Non stiamo a svelare la trama, perché è giusto godersi la pellicola. Diremo solo che il percorso affrontato dai due protagonisti è allucinante. Quando Richard si dice favorevole alla surrogazione, Rachel scoppia a piangere e s'infuria. Si sente tagliata fuori, poiché il bambino non avrà il suo patrimonio genetico e sarà un'altra a tenerlo in grembo. La ricerca della madre surrogata, poi, è drammatica. Rachel e Richard scoprono che «essere in tre» non è così facile come sembra. La «terza», cioè la donna che dovrebbe partorire il loro bambino, non è un'entità astratta, qualcuno che basta pagare per un servizio. È una persona in carne e ossa, una donna che può scegliere, che è viva, parla e pensa. Questa è la verità che, quando si affronta il tema della surrogazione, si tende a eliminare. La madre surrogata esiste, anche se facciamo finta di non vederla, anche se qualcuno la paga per tacere. Dopo tutto, è la madre vera, e il bambino che sforna è il suo. A mostrarlo con chiarezza è un'altra opera di finzione, il romanzo La straniera del canadese David Bergen, appena pubblicato da Frassinelli. È, appunto, la storia di una madre surrogata che combatte per riprendere il suo piccolo. È la vicenda di una donna di un Paese povero in lotta contro una coppia di ricchi e arroganti occidentali intenzionati a sfruttarla come se fosse una macchina per partorire. Private life e La straniera sono fiction. Ma contengono tutta la verità sull'utero in affitto normalmente negata. Una verità intrisa di dolore, sofferenza e rabbia. Una verità che è doveroso mostrare.