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2018-09-04
L’uomo del Papa allo Ior ha un passato zeppo di scandali omosessuali
Ansa
È sufficiente sfogliare l'Annuario pontificio per farsi un'idea dell'importanza di monsignor Battista Ricca, 62 anni da Brescia, il prelato di cui ha parlato il vaticanista Sandro Magister proprio ieri sulla Verità intervistato da Giorgio Gandola. La tesi di Magister è nota perché l'ha scritta sul suo blog del settimanale L'Espresso già nel 2013. Il caso Ricca è spinoso per il Papa perché Francesco avrebbe in qualche modo coperto una situazione imbarazzante e risaputa a riguardo del monsignore, e ciononostante lo ha promosso a prelato dello Ior con una nomina ad interim che risale appunto al 15 giugno 2013.
Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, eletto da pochi mesi a Papa, indicò Ricca per un ruolo delicatissimo, ma tra i due c'era una conoscenza che risaliva ai tempi dei suoi soggiorni a Roma presso la Domus internationalis Paolo VI in via della Scrofa, casa di cui il monsignore è tutt'ora direttore. Ad oggi Ricca è prelato dello Ior, cioè il trait d'union tra il Papa e la banca vaticana, per cui partecipa alle adunanze della Commissione cardinalizia, assiste alle riunioni del Consiglio di sovrintendenza, con la facoltà di accedere a tutte le informazioni riservate.
La nomina, secondo la ricostruzione di Magister, sarebbe però viziata da un omissis. E forse non tutti sanno che fu proprio il caso Ricca a costituire poi la miccia per la più famosa frase del Papa, cioè quel «chi sono io per giudicare un gay…» pronunciato sull'aereo di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù di Rio nel luglio 2013. «Nella seconda metà di quel mese di giugno del 2013 erano convenuti a Roma da tutto il mondo gli ambasciatori della Santa Sede», tra questi c'era anche monsignor Carlo Maria Viganò che proprio in quei giorni avrebbe rivelato a Francesco dei guai dall'allora cardinale Theodore McCarrick. Ebbene tra quegli ambasciatori vi fu anche chi parlò al Papa dell'esistenza di un dossier riguardante proprio monsignor Ricca, «nunzi, che l'avevano conosciuto come consigliere diplomatico in Algeria, in Colombia, in Svizzera e poi in Uruguay». La ricostruzione del vaticanista è puntuale e, finora, mai smentita pur circolando dall'estate 2013 (il monsignore si limiterebbe a dire che si tratta di «chiacchiere»). «Tra il 1999 e il 2001», scrive Magister, «Ricca conviveva con il proprio amante, l'ex capitano dell'esercito svizzero Patrick Haari, che l'aveva seguito fin lì da Berna. E in più frequentava luoghi d'appuntamento con giovani dello stesso sesso, una volta subendo un pestaggio e un'altra volta finendo bloccato in ascensore, dentro la nunziatura, con un diciottenne già noto alla polizia uruguayana». Ricca quindi venne ritirato dal servizio diplomatico e richiamato a Roma, dove però «miracolosamente» la sua carriera riprese, al punto che divenne direttore di residenze vaticane per i vescovi e i cardinali in visita a Roma. Tra cui anche quella di Santa Marta, quella che poi diventerà l'abitazione del Papa e di cui Ricca è tutt'ora direttore come si legge sull'Annuario pontificio.
I nunzi presenti a Roma in quel giugno 2013 sapevano bene quali erano i trascorsi di Ricca e pertanto avvertirono il Papa, che pensavano fosse stato tenuto all'oscuro dei passaggi compromettenti. In effetti sembra che il fascicolo consultato da Francesco prima della nomina fosse stato opportunamente sbianchettato, tanto che lo stesso Papa fece poi in modo di recuperare il dossier che si trovava nella nunziatura di Montevideo, dove invece tutto era accuratamente annotato. Tuttavia la nomina a prelato dello Ior non venne mai riconsiderata e ad oggi monsignor Battista Ricca è in questo ruolo, oltre ad essere tra il personale diplomatico in servizio presso la Prima sezione della segreteria di Stato.
Il 28 luglio 2013 sull'aereo di ritorno da Rio de Janeiro una giornalista brasiliana chiese al Papa della nomina di Ricca: «Come affrontare questa questione e come Sua Santità intende affrontare tutta la questione della lobby gay?». La risposta è storia. «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?». Inoltre, il Papa introduceva una distinzione tra delitto e peccato, per cui, «tante volte nella Chiesa, al di fuori di questo caso ed anche in questo caso [il caso Ricca], si vanno a cercare i “peccati di gioventù", per esempio, e questo si pubblica. Non i delitti, eh? I delitti sono un'altra cosa: l'abuso sui minori è un delitto. No, i peccati. Ma se una persona, laica o prete o suora, ha fatto un peccato e poi si è convertito, il Signore perdona, e quando il Signore perdona, il Signore dimentica e questo per la nostra vita è importante». Se la distinzione ha una sua validità, merita di essere approfondita nel caso di un chierico come Ricca.
Se l'abuso su minori è un delitto tanto per la legge civile, quanto per la legge canonica, è chiaro che per la legge civile il rapporto consenziente fra adulti, etero o omosessuali che siano, non costituisce delitto. Ma se prendiamo la legge canonica al canone 1395 leggiamo: «Il chierico concubinatario (…) e il chierico che permanga scandalosamente in un altro peccato esterno contro il sesto precetto del Decalogo, siano puniti con la sospensione, alla quale si possono aggiungere gradualmente altre pene, se persista il delitto dopo l'ammonizione, fino alla dimissione dallo stato clericale». La questione sembra abbastanza seria, nel caso dei chierici per la legge canonica i peccati contro il sesto comandamento (non commettere atti impuri), una volta accertati, vanno sanzionati e non sono una semplice questione da risolversi con il confessore. Di certo sarebbe piuttosto strano assistere addirittura a una promozione del chierico in questione.
Il caso Ricca svela così un altro risvolto della vicenda che sta sconquassando la Chiesa in questi giorni dopo il memoriale Viganò. Tutto lascia pensare, infatti, che la condotta scandalosa contro il sesto comandamento (compresi quindi i rapporti omosessuali tra adulti) non sia più un problema.
Lorenzo Bertocchi
La «smentita» sulla Davis dà ragione al nunzio
Con una nota cofirmata dall'ex direttore della Sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, e l'allora suo aiutante, padre Thomas Rosica, al di là del Tevere viene battuto un colpo per rispondere alle testimonianze dell'ex nunzio degli Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Viganò. Ma il colpo non va a bersaglio, semmai getta ulteriore confusione. Lombardi e Rosica rispondono al secondo memoriale Viganò, quello diffuso sabato scorso e di cui abbiamo dato conto sulla Verità di domenica. Il caso è quello dell'incontro tra il Papa e Kim Davis, avvenuto durante il viaggio apostolico negli Stati Uniti che Francesco ha fatto nel settembre 2015.
La Davis, impiegata della contea del Kentucky, era stata imprigionata per aver rifiutato di rilasciare licenze di matrimonio alle coppie gay. Secondo quanto riportato dalla vittima di abusi Ted Cruz al New York Times, il Papa gli avrebbe detto che «non sapeva nulla di chi fosse quella donna e lui (monsignor Viganò, allora nunzio negli Usa, ndr) l'ha intrufolata per salutarmi - e ovviamente ne hanno fatto un'enorme pubblicità». E così, avrebbe concluso il Papa con Cruz, «sono rimasto inorridito e ho licenziato quel nunzio». Questa idea dell'imboscata tesa da Viganò al Papa è stata in qualche modo rigettata dalla risposta di Viganò, il quale ha dichiarato di aver concordato quell'incontro tra il Papa e la Davis con alcuni collaboratori del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, vale a dire l'allora numero due della Segreteria, oggi cardinale Angelo Becciu, e monsignor Paul Gallagher. Viganò informò anche il Papa, il quale, sono parole di Viganò, «diede quindi il suo consenso, e io organizzai il modo per far venire in nunziatura la Davis senza che nessuno se ne accorgesse, facendola accomodare in un salotto separato». Anzi, secondo il memoriale dell'ex nunzio, quando dopo il viaggio fu chiamato in fretta e furia a Roma - «Devi venire subito a Roma perché il Papa è furioso con te!», gli avrebbe comunicato Parolin in una telefonata - papa Francesco non lo avrebbe affatto rimproverato per questo fatto. «Con mia grandissima sorpresa», scrive Viganò, «il Papa non menzionò neanche una volta l'udienza con la Davis!». Ecco perché l'ex nunzio si chiede se davvero il Papa si fosse sentito ingannato da questo incontro con la Davis, oppure no. «Uno dei due mente: Cruz o il Papa? Quello che è certo è che il Papa sapeva benissimo chi fosse la Davis, e lui e i suoi stretti collaboratori avevano approvato l'udienza privata».
Lombardi e Rosica nella nota di risposta riportano di un loro incontro con l'ex nunzio avvenuto nell'appartamento di Viganò a Roma il sabato sera 10 ottobre 2015, dopo l'incontro tra il Papa e Viganò avvenuto il 9 ottobre. Il punto essenziale delle memorie di Viganò però non viene smentito, i due in sostanza dicono che la responsabilità di quell'incontro tra il Papa e la Davis è tutta di Viganò, ma ammettono che il «consenso» del Papa stesso e dei suoi collaboratori non mancava. Questo aspetto getta ulteriore confusione sull'entourage del Papa: se l'incontro era foriero di «conseguenze» da mettere in conto, come asseriscono Lombardi e Rosica, allora bisogna considerare una certa ingenuità di chi, invece, diede il consenso per l'incontro con la Davis. Le «conseguenze», giova ricordarlo, devono essere riferite ai malumori del mondo politicamente favorevole ai matrimoni gay e che vedeva nella obiezione di coscienza della signora Davis un'ombra da evitare.
Secondo gli appunti di padre Rosica, che costituiscono la base della risposta dei due funzionari vaticani, l'arrabbiatura che il Papa avrebbe manifestato a Viganò nell'incontro del 9 ottobre (arrabbiatura che, invece, Viganò non evidenzia) sarebbe dipesa anche dal fatto che la signora Davis aveva avuto «quattro mariti». Era questa la preoccupazione sulle «conseguenze» dell'incontro con la Davis e che avrebbe minato il messaggio inclusivo del viaggio papale negli Stati Uniti? Oppure, era quella basata sull'obiezione di coscienza rispetto a un matrimonio omosessuale? A leggere i comunicati di padre Lombardi che seguirono il viaggio del 2015 la questione dei «quattro mariti» non è menzionata, si dichiarò che l'incontro del Papa con la Davis «non deve essere considerato come un appoggio alla sua posizione in tutti i suoi risvolti particolari e complessi». E la sua «posizione» era chiaramente riferita a quello di cui tutti discutevano in quel momento, ossia l'obiezione di coscienza alle nozze gay.
Viganò dichiara di aver informato i collaboratori del Papa della Segreteria di Stato rispetto alla situazione della obiezione di coscienza della signora Davis e di aver ricevuto il «consenso» all'incontro. Secondo padre Lombardi però questo «consenso», che viene quindi ammesso, «non toglie che la responsabilità dell'iniziativa dell'incontro con Kim Davis e delle sue conseguenze fosse principalmente dello stesso Viganò, che lo aveva evidentemente auspicato e preparato, e che come nunzio doveva conoscere meglio la situazione». Insomma, nonostante il «consenso», che a questo punto dobbiamo dare per veritiero, secondo Lombardi rimane la responsabilità di Viganò. E quale sarebbe la colpa di Viganò? Quella di non aver calcolato bene le conseguenze dell'incontro, probabilmente quelle per cui l'obiezione di coscienza rispetto al matrimonio gay disturba il politicamente corretto e va contro al messaggio pastorale del papato: integrare e accompagnare tutti. Peraltro, la sala stampa diretta allora da padre Lombardi il 2 ottobre 2015 si affrettò a sottolineare che «l'unica “udienza" concessa dal Papa presso la nunziatura (di Washington, ndr) è stata a un suo antico alunno con la famiglia», vale a dire il signor Yayo Grassi, che tra l'altro era con il suo compagno da 19 anni, il signor Iwan Bagus.
Lorenzo Bertocchi
Viganò, risanatore mutato in corvo dalle «conversioni» dei vaticanisti
Se ai giornalisti interessano più i teoremi dei fatti, per il pubblico dei lettori diventa difficile orientarsi. Lo scoop della Verità sulle denunce di monsignor Carlo Maria Viganò è stato l'occasione per mettere alla prova la coerenza e l'onestà intellettuale di vaticanisti, opinionisti, corsivisti e retroscenisti. In alcuni casi, gli esiti sono stati imbarazzanti.
Non solo certe testate si sono rincorse per gettare discredito sull'ex nunzio a Washington, ma addirittura qualcuno, pur di riaffermare la propria fedeltà alla cordata attualmente al comando della Chiesa, si è rimangiato i giudizi lusinghieri su Viganò di qualche anno fa.
Di queste giravolte si è accorto il sito web Libertà e persona. Cui è bastato rimettere le lancette indietro di 5 anni per cogliere in fallo il vaticanista della Stampa, Andrea Tornielli.
Oggi, il coordinatore di Vatican Insider liquida quella di monsignor Viganò come una «clamorosa decisione di violare il giuramento di fedeltà al Papa e il segreto d'ufficio». E nella foga di squalificarlo, facendolo apparire come un golpista fomentato dagli ultraconservatori, attribuisce all'ex diplomatico vaticano anche la sottoscrizione della Correctio filialis, una lettera indirizzata da membri del clero, teologi, accademici eccetera, che contestava in punto di dottrina alcuni passaggi dell'esortazione apostolica di Francesco, Amoris laetitia. Una vera e propria fake news, come ha rivelato La Verità qualche giorno fa.
Eppure, nel 2012 Tornielli elogiava Viganò come uno dei pochi prelati onesti nella curia romana, deciso a combattere la corruzione e osteggiato dall'allora segretario di Stato Tarcisio Bertone. La firma della Stampa interpretava la promozione di Viganò a nunzio negli Stati Uniti come una specie di «promoveatur ut amoveatur»: un incarico attribuitogli per allontanarlo da Roma, dove era diventato un personaggio scomodo. In quella circostanza, pertanto, Tornielli manifestava le sue preoccupazioni per «la continuazione o l'eventuale rallentamento del processo di risanamento operato da Viganò» in Vaticano.
D'altra parte, il giornalista del quotidiano torinese non è l'unico a essere andato in cortocircuito per il dossier pubblicato dalla Verità. Sul Corriere della Sera, leggendo con attenzione, è possibile intuire qualche dissonanza tra la linea «ufficiale», che, come ha brillantemente sintetizzato Luigi Amicone su Tempi, tende a far passare Viganò per «l'Orbán della gerarchia cattolica» e i commenti di Massimo Franco, il quale ammette che «non si può ignorare la verità».
Ma un chiarimento ci piacerebbe chiederlo soprattutto a Repubblica, sulle cui colonne Alberto Melloni ha lanciato pesantissime accuse a Viganò, uno «furibondo per non aver fatto carriera». Un «pollo» trasformato nel nuovo Corvo.
Perché il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari diede ampio spazio al Corvo «originale», il maggiordomo di Benedetto XVI, protagonista del cosiddetto Vatileaks 1, un uomo vicinissimo a Joseph Ratzinger e che tuttavia ne tradì la fiducia, mentre adesso si scervella per cercare un mondanissimo movente per la decisione di Viganò di mettere sul banco degli imputati Jorge Mario Bergoglio?
Più in generale, perché i quotidiani italiani, nel 2012, riportarono fedelmente la dichiarazione del maggiordomo delatore Paolo Gabriele, che aveva giurato di aver agito «per amore della Chiesa», mentre oggi danno per scontato che monsignor Viganò sia un rancoroso che si vendica per essere stato messo alla porta da papa Francesco?
Alessandro Rico
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Monsignor Battista Ricca conviveva con il suo amante e aveva frequentazioni ambigue. Francesco sapeva, tuttavia lo ha promosso a prelato della banca vaticana.La versione dell'ex addetto stampa del Vaticano sull'incontro fra l'attivista anti nozze gay e il Papa è un boomerang per la curia: niente imboscate, il Pontefice sapeva tutto. Francesco irritato non per le idee della donna, ma perché è stata sposata quattro volte.La Stampa, Corriere e Repubblica: gli esperti di clero dei grandi giornali sono passati dal tessere le lodi dell'ex nunzio in America a dipingerlo come un carrierista deluso in cerca di vendetta.Lo speciale contiene tre articoliÈ sufficiente sfogliare l'Annuario pontificio per farsi un'idea dell'importanza di monsignor Battista Ricca, 62 anni da Brescia, il prelato di cui ha parlato il vaticanista Sandro Magister proprio ieri sulla Verità intervistato da Giorgio Gandola. La tesi di Magister è nota perché l'ha scritta sul suo blog del settimanale L'Espresso già nel 2013. Il caso Ricca è spinoso per il Papa perché Francesco avrebbe in qualche modo coperto una situazione imbarazzante e risaputa a riguardo del monsignore, e ciononostante lo ha promosso a prelato dello Ior con una nomina ad interim che risale appunto al 15 giugno 2013.Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, eletto da pochi mesi a Papa, indicò Ricca per un ruolo delicatissimo, ma tra i due c'era una conoscenza che risaliva ai tempi dei suoi soggiorni a Roma presso la Domus internationalis Paolo VI in via della Scrofa, casa di cui il monsignore è tutt'ora direttore. Ad oggi Ricca è prelato dello Ior, cioè il trait d'union tra il Papa e la banca vaticana, per cui partecipa alle adunanze della Commissione cardinalizia, assiste alle riunioni del Consiglio di sovrintendenza, con la facoltà di accedere a tutte le informazioni riservate.La nomina, secondo la ricostruzione di Magister, sarebbe però viziata da un omissis. E forse non tutti sanno che fu proprio il caso Ricca a costituire poi la miccia per la più famosa frase del Papa, cioè quel «chi sono io per giudicare un gay…» pronunciato sull'aereo di ritorno dalla Giornata mondiale della gioventù di Rio nel luglio 2013. «Nella seconda metà di quel mese di giugno del 2013 erano convenuti a Roma da tutto il mondo gli ambasciatori della Santa Sede», tra questi c'era anche monsignor Carlo Maria Viganò che proprio in quei giorni avrebbe rivelato a Francesco dei guai dall'allora cardinale Theodore McCarrick. Ebbene tra quegli ambasciatori vi fu anche chi parlò al Papa dell'esistenza di un dossier riguardante proprio monsignor Ricca, «nunzi, che l'avevano conosciuto come consigliere diplomatico in Algeria, in Colombia, in Svizzera e poi in Uruguay». La ricostruzione del vaticanista è puntuale e, finora, mai smentita pur circolando dall'estate 2013 (il monsignore si limiterebbe a dire che si tratta di «chiacchiere»). «Tra il 1999 e il 2001», scrive Magister, «Ricca conviveva con il proprio amante, l'ex capitano dell'esercito svizzero Patrick Haari, che l'aveva seguito fin lì da Berna. E in più frequentava luoghi d'appuntamento con giovani dello stesso sesso, una volta subendo un pestaggio e un'altra volta finendo bloccato in ascensore, dentro la nunziatura, con un diciottenne già noto alla polizia uruguayana». Ricca quindi venne ritirato dal servizio diplomatico e richiamato a Roma, dove però «miracolosamente» la sua carriera riprese, al punto che divenne direttore di residenze vaticane per i vescovi e i cardinali in visita a Roma. Tra cui anche quella di Santa Marta, quella che poi diventerà l'abitazione del Papa e di cui Ricca è tutt'ora direttore come si legge sull'Annuario pontificio.I nunzi presenti a Roma in quel giugno 2013 sapevano bene quali erano i trascorsi di Ricca e pertanto avvertirono il Papa, che pensavano fosse stato tenuto all'oscuro dei passaggi compromettenti. In effetti sembra che il fascicolo consultato da Francesco prima della nomina fosse stato opportunamente sbianchettato, tanto che lo stesso Papa fece poi in modo di recuperare il dossier che si trovava nella nunziatura di Montevideo, dove invece tutto era accuratamente annotato. Tuttavia la nomina a prelato dello Ior non venne mai riconsiderata e ad oggi monsignor Battista Ricca è in questo ruolo, oltre ad essere tra il personale diplomatico in servizio presso la Prima sezione della segreteria di Stato.Il 28 luglio 2013 sull'aereo di ritorno da Rio de Janeiro una giornalista brasiliana chiese al Papa della nomina di Ricca: «Come affrontare questa questione e come Sua Santità intende affrontare tutta la questione della lobby gay?». La risposta è storia. «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?». Inoltre, il Papa introduceva una distinzione tra delitto e peccato, per cui, «tante volte nella Chiesa, al di fuori di questo caso ed anche in questo caso [il caso Ricca], si vanno a cercare i “peccati di gioventù", per esempio, e questo si pubblica. Non i delitti, eh? I delitti sono un'altra cosa: l'abuso sui minori è un delitto. No, i peccati. Ma se una persona, laica o prete o suora, ha fatto un peccato e poi si è convertito, il Signore perdona, e quando il Signore perdona, il Signore dimentica e questo per la nostra vita è importante». Se la distinzione ha una sua validità, merita di essere approfondita nel caso di un chierico come Ricca.Se l'abuso su minori è un delitto tanto per la legge civile, quanto per la legge canonica, è chiaro che per la legge civile il rapporto consenziente fra adulti, etero o omosessuali che siano, non costituisce delitto. Ma se prendiamo la legge canonica al canone 1395 leggiamo: «Il chierico concubinatario (…) e il chierico che permanga scandalosamente in un altro peccato esterno contro il sesto precetto del Decalogo, siano puniti con la sospensione, alla quale si possono aggiungere gradualmente altre pene, se persista il delitto dopo l'ammonizione, fino alla dimissione dallo stato clericale». La questione sembra abbastanza seria, nel caso dei chierici per la legge canonica i peccati contro il sesto comandamento (non commettere atti impuri), una volta accertati, vanno sanzionati e non sono una semplice questione da risolversi con il confessore. Di certo sarebbe piuttosto strano assistere addirittura a una promozione del chierico in questione.Il caso Ricca svela così un altro risvolto della vicenda che sta sconquassando la Chiesa in questi giorni dopo il memoriale Viganò. 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Lombardi e Rosica rispondono al secondo memoriale Viganò, quello diffuso sabato scorso e di cui abbiamo dato conto sulla Verità di domenica. Il caso è quello dell'incontro tra il Papa e Kim Davis, avvenuto durante il viaggio apostolico negli Stati Uniti che Francesco ha fatto nel settembre 2015. La Davis, impiegata della contea del Kentucky, era stata imprigionata per aver rifiutato di rilasciare licenze di matrimonio alle coppie gay. Secondo quanto riportato dalla vittima di abusi Ted Cruz al New York Times, il Papa gli avrebbe detto che «non sapeva nulla di chi fosse quella donna e lui (monsignor Viganò, allora nunzio negli Usa, ndr) l'ha intrufolata per salutarmi - e ovviamente ne hanno fatto un'enorme pubblicità». E così, avrebbe concluso il Papa con Cruz, «sono rimasto inorridito e ho licenziato quel nunzio». Questa idea dell'imboscata tesa da Viganò al Papa è stata in qualche modo rigettata dalla risposta di Viganò, il quale ha dichiarato di aver concordato quell'incontro tra il Papa e la Davis con alcuni collaboratori del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, vale a dire l'allora numero due della Segreteria, oggi cardinale Angelo Becciu, e monsignor Paul Gallagher. Viganò informò anche il Papa, il quale, sono parole di Viganò, «diede quindi il suo consenso, e io organizzai il modo per far venire in nunziatura la Davis senza che nessuno se ne accorgesse, facendola accomodare in un salotto separato». Anzi, secondo il memoriale dell'ex nunzio, quando dopo il viaggio fu chiamato in fretta e furia a Roma - «Devi venire subito a Roma perché il Papa è furioso con te!», gli avrebbe comunicato Parolin in una telefonata - papa Francesco non lo avrebbe affatto rimproverato per questo fatto. «Con mia grandissima sorpresa», scrive Viganò, «il Papa non menzionò neanche una volta l'udienza con la Davis!». Ecco perché l'ex nunzio si chiede se davvero il Papa si fosse sentito ingannato da questo incontro con la Davis, oppure no. «Uno dei due mente: Cruz o il Papa? Quello che è certo è che il Papa sapeva benissimo chi fosse la Davis, e lui e i suoi stretti collaboratori avevano approvato l'udienza privata». Lombardi e Rosica nella nota di risposta riportano di un loro incontro con l'ex nunzio avvenuto nell'appartamento di Viganò a Roma il sabato sera 10 ottobre 2015, dopo l'incontro tra il Papa e Viganò avvenuto il 9 ottobre. Il punto essenziale delle memorie di Viganò però non viene smentito, i due in sostanza dicono che la responsabilità di quell'incontro tra il Papa e la Davis è tutta di Viganò, ma ammettono che il «consenso» del Papa stesso e dei suoi collaboratori non mancava. Questo aspetto getta ulteriore confusione sull'entourage del Papa: se l'incontro era foriero di «conseguenze» da mettere in conto, come asseriscono Lombardi e Rosica, allora bisogna considerare una certa ingenuità di chi, invece, diede il consenso per l'incontro con la Davis. Le «conseguenze», giova ricordarlo, devono essere riferite ai malumori del mondo politicamente favorevole ai matrimoni gay e che vedeva nella obiezione di coscienza della signora Davis un'ombra da evitare. Secondo gli appunti di padre Rosica, che costituiscono la base della risposta dei due funzionari vaticani, l'arrabbiatura che il Papa avrebbe manifestato a Viganò nell'incontro del 9 ottobre (arrabbiatura che, invece, Viganò non evidenzia) sarebbe dipesa anche dal fatto che la signora Davis aveva avuto «quattro mariti». Era questa la preoccupazione sulle «conseguenze» dell'incontro con la Davis e che avrebbe minato il messaggio inclusivo del viaggio papale negli Stati Uniti? Oppure, era quella basata sull'obiezione di coscienza rispetto a un matrimonio omosessuale? A leggere i comunicati di padre Lombardi che seguirono il viaggio del 2015 la questione dei «quattro mariti» non è menzionata, si dichiarò che l'incontro del Papa con la Davis «non deve essere considerato come un appoggio alla sua posizione in tutti i suoi risvolti particolari e complessi». E la sua «posizione» era chiaramente riferita a quello di cui tutti discutevano in quel momento, ossia l'obiezione di coscienza alle nozze gay. Viganò dichiara di aver informato i collaboratori del Papa della Segreteria di Stato rispetto alla situazione della obiezione di coscienza della signora Davis e di aver ricevuto il «consenso» all'incontro. Secondo padre Lombardi però questo «consenso», che viene quindi ammesso, «non toglie che la responsabilità dell'iniziativa dell'incontro con Kim Davis e delle sue conseguenze fosse principalmente dello stesso Viganò, che lo aveva evidentemente auspicato e preparato, e che come nunzio doveva conoscere meglio la situazione». Insomma, nonostante il «consenso», che a questo punto dobbiamo dare per veritiero, secondo Lombardi rimane la responsabilità di Viganò. E quale sarebbe la colpa di Viganò? Quella di non aver calcolato bene le conseguenze dell'incontro, probabilmente quelle per cui l'obiezione di coscienza rispetto al matrimonio gay disturba il politicamente corretto e va contro al messaggio pastorale del papato: integrare e accompagnare tutti. Peraltro, la sala stampa diretta allora da padre Lombardi il 2 ottobre 2015 si affrettò a sottolineare che «l'unica “udienza" concessa dal Papa presso la nunziatura (di Washington, ndr) è stata a un suo antico alunno con la famiglia», vale a dire il signor Yayo Grassi, che tra l'altro era con il suo compagno da 19 anni, il signor Iwan Bagus. 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Non solo certe testate si sono rincorse per gettare discredito sull'ex nunzio a Washington, ma addirittura qualcuno, pur di riaffermare la propria fedeltà alla cordata attualmente al comando della Chiesa, si è rimangiato i giudizi lusinghieri su Viganò di qualche anno fa. Di queste giravolte si è accorto il sito web Libertà e persona. Cui è bastato rimettere le lancette indietro di 5 anni per cogliere in fallo il vaticanista della Stampa, Andrea Tornielli. Oggi, il coordinatore di Vatican Insider liquida quella di monsignor Viganò come una «clamorosa decisione di violare il giuramento di fedeltà al Papa e il segreto d'ufficio». E nella foga di squalificarlo, facendolo apparire come un golpista fomentato dagli ultraconservatori, attribuisce all'ex diplomatico vaticano anche la sottoscrizione della Correctio filialis, una lettera indirizzata da membri del clero, teologi, accademici eccetera, che contestava in punto di dottrina alcuni passaggi dell'esortazione apostolica di Francesco, Amoris laetitia. Una vera e propria fake news, come ha rivelato La Verità qualche giorno fa. Eppure, nel 2012 Tornielli elogiava Viganò come uno dei pochi prelati onesti nella curia romana, deciso a combattere la corruzione e osteggiato dall'allora segretario di Stato Tarcisio Bertone. La firma della Stampa interpretava la promozione di Viganò a nunzio negli Stati Uniti come una specie di «promoveatur ut amoveatur»: un incarico attribuitogli per allontanarlo da Roma, dove era diventato un personaggio scomodo. In quella circostanza, pertanto, Tornielli manifestava le sue preoccupazioni per «la continuazione o l'eventuale rallentamento del processo di risanamento operato da Viganò» in Vaticano. D'altra parte, il giornalista del quotidiano torinese non è l'unico a essere andato in cortocircuito per il dossier pubblicato dalla Verità. Sul Corriere della Sera, leggendo con attenzione, è possibile intuire qualche dissonanza tra la linea «ufficiale», che, come ha brillantemente sintetizzato Luigi Amicone su Tempi, tende a far passare Viganò per «l'Orbán della gerarchia cattolica» e i commenti di Massimo Franco, il quale ammette che «non si può ignorare la verità». Ma un chiarimento ci piacerebbe chiederlo soprattutto a Repubblica, sulle cui colonne Alberto Melloni ha lanciato pesantissime accuse a Viganò, uno «furibondo per non aver fatto carriera». Un «pollo» trasformato nel nuovo Corvo. Perché il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari diede ampio spazio al Corvo «originale», il maggiordomo di Benedetto XVI, protagonista del cosiddetto Vatileaks 1, un uomo vicinissimo a Joseph Ratzinger e che tuttavia ne tradì la fiducia, mentre adesso si scervella per cercare un mondanissimo movente per la decisione di Viganò di mettere sul banco degli imputati Jorge Mario Bergoglio? Più in generale, perché i quotidiani italiani, nel 2012, riportarono fedelmente la dichiarazione del maggiordomo delatore Paolo Gabriele, che aveva giurato di aver agito «per amore della Chiesa», mentre oggi danno per scontato che monsignor Viganò sia un rancoroso che si vendica per essere stato messo alla porta da papa Francesco? Alessandro Rico
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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