2020-06-30
L’ultima provocazione degli ayatollah Mandato di cattura contro Trump
Teheran ha emesso 36 richieste di arresto per l'uccisione Usa dell'ex uomo forte Qassem Soleimani. Le accuse: terrorismo e omicidio.L'Iran ha spiccato 36 mandati di arresto per cittadini di Stati Uniti, incluso il presidente Donald Trump, e altri Paesi, per l'uccisione - il 3 gennaio scorso - del generale Qassem Soleimani, leader delle forze speciale Quds dei Pasdaran e uomo centrale per i rapporti (in particolare con gli Hezbollah in Libano e la dittatura siriana di Bashar Al Assad) e le mire espansionistiche del regime degli ayatollah nella regione. Teheran ha chiesto assistenza da «allerta rossa» all'Interpol, che però non è obbligata a dare seguito (e difficilmente lo farà). Ali Alqasimehr, procuratore di Teheran, ha spiegato ai giornalisti che le accuse sono «di omicidio e terrorismo» e che il processo contro Trump andrà avanti anche una volta finita la sua presidenza, riporta l'agenzia di stampa di regime Fars. «Teheran chiederà nei prossimi giorni all'Interpol di intervenire per l'arresto del capo della Casa Bianca», riportano le agenzie stampa iraniane rendendo omaggio al generale, morto insieme al numero due dell'Unità di mobilitazione popolare irachena, Abu Mahdi Al Mohandes.L'inviato speciale Usa per l'Iran, Brian Hook, ha risposto definendo il mandato d'arresto contro il presidente Trump «un espediente per la propaganda che nessuno prenderà sul serio». L'ha dichiarato in una situazione che merita di essere sottolineata: in conferenza stampa con il sottosegretario agli Esteri saudita, Adel Al Jubeir. A dimostrazione di come l'amministrazione statunitense sia più vicina al mondo sunnita che a quello sciita. Nell'occasione i due hanno esortato la comunità internazionale a estendere l'embargo sulle armi delle Nazioni unite nei confronti dell'Iran, avvertendo che la scadenza del divieto prevista per settembre consentirebbe a Teheran di armare ulteriormente i propri fiancheggiatori e destabilizzare il Medio oriente.La mossa iraniana avrà probabilmente gli stessi effetti (zero) di quella con cui il 21 dicembre di tre anni fa, Antonio Pappalardo, generale di brigata in congedo dall'Arma dei carabinieri oggi alla guida dei Gilet arancioni, si presentò al Quirinale nella veste di presidente del Movimento liberazione Italia per notificare un verbale d'arresto a carico di Sergio Mattarella per il delitto di usurpazione di potere politico, definendolo, in presenza di più persone, «un usurpatore». Magra consolazione per il procuratore iraniano: difficilmente la magistratura statunitense si interesserà al suo caso e deciderà di rinviarlo a giudizio. Com'è accaduto, invece, a Pappalardo, che tra una seduta e l'altra di yoga è a processo per vilipendio del presidente della Repubblica.La scelta della procura di Teheran ha però un significato geopolitico importante: è la dimostrazione, anche da parte iraniana, che le tensioni tra i due Paesi sono alle stelle. Esacerbate dall'uccisione di Soleimani - a opera di un'operazione condotta su territorio iracheno da un drone statunitense con il via libera di Trump in persona - ma rientrate a causa del coronavirus e dalle enormi difficoltà iraniane (economiche e politiche del regime). Lo stesso presidente festeggiò la morte di Soleimani, che aveva 62 anni ed era sopravvissuto a incidenti aerei (nel 2006) e attentati (sei anni più tardi), pubblicando una bandiera statunitense su Twitter. Il generale, aveva rivelato Trump, «stava preparando nuovi attacchi» contro le forze statunitensi nella regione. «Il suo regno di terrore è finito. Non lo abbiamo ucciso per un cambio di regime o per iniziare la guerra. Ma siamo pronti a qualunque risposta sia necessaria. Il futuro dell'Iran appartiene al popolo che vuole la pace, non ai terroristi». Negli ultimi mesi di vita, Soleimani, considerato il secondo nella catena di comando del regime iraniano, aveva orchestrato la distruzione delle raffinerie saudite, i blitz contro le petrolifere che transitavano nello Stretto di Hormuz e l'assedio all'ambasciata statunitense a Baghdad. Ma la sua morte non soltanto ha causato un'escalation tra Iran e Stati Uniti. Ha anche fatto riemergere le due linee politiche opposte a Teheran. Da una parte ci sono i duri e puri, il cui leader è l'ayatollah Ali Khamenei. Dall'altra ci sono quelli disposti a una nuova intesa con gli Stati Uniti nonostante il loro ritiro dall'accordo nucleare: a guidarli, il presidente Hassan Rouhani, che pochi giorni fa è tornato a chiedere al Fondo monetario internazionale di concedere alla Repubblica islamica un prestito da 5 miliardi di dollari. Il tutto opponendosi alla resistenza mostrata in merito dagli Stati Uniti, ha detto Rouhani. Che però sa bene che senza il via libera di Washington, il Fondo non si muove. Così, c'è chi oggi, dopo la mossa della procura di Teheran, è ancor più convinto della volontà (oltre che della necessità) dell'Iran di negoziare con gli Stati Uniti. Una mossa trumpiana - bastone e carota - per convincere proprio Trump che, stando a quanto rivelato dal suo ex consigliere John Bolton, da tempo sta pensare di tornare al tavolo delle trattative.
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