2023-04-07
L’ultima marcia di Schwazer è per il suo onore
Alex si racconta in un docufilm su Netflix: sepolta la carriera, lotta per far luce sulla controversa positività prima di Rio 2016. Ogni documentario comporta un rischio apologetico, il pericolo di attorcigliarsi in una narrazione arbitraria. Sono gli occhi dei protagonisti quelli attraverso cui si guarda alla loro vita, sono i ricordi a dare profondità al racconto. E ci sono le voci e i pensieri di altri, venati di un giudizio del quale poi è difficile liberarsi. Celebrazioni, apologie - o al contrario condanne - ex post sono ostacoli sulle strade dei documentaristi. Ma Il caso Alex Schwazer, su Netflix da giovedì 13 aprile, riesce a fare percorso netto. La docuserie, ideata e diretta da Massimo Capello, è la presa diretta dell’ultima battaglia di un campione olimpico caduto in disgrazia. Schwazer davanti alle telecamere parla di sé e della propria vita, prima e dopo la vittoria ai Giochi di Pechino nel 2008. Non tenta neanche una volta di giustificare la scelta di doparsi. Meno che mai prova a negare. Racconta, però. Non l’atleta, ma l’uomo. C’è anche uno zaino pieno di sassi, i pensieri suicidi abbandonati all’ultimo per amore della madre, immaginando il dolore immenso che le avrebbe causato. «In questo periodo, io ho fatto il percorso classico della persona che entra in depressione. Ero proprio nel tunnel». Alex Schwazer lo dice con schiettezza, senza provare a muovere a pietà chi ascolta. Ripercorre senza filtri né tentativi di edulcorazione i passaggi che lo hanno portato a decidere di doparsi. È stato dopo Pechino, quando era roso dall’ansia di confermarsi campione. Crollò dopo aver avuto certezza, tramite uno scambio di parole con gli interessati (nel 2011), di come i colleghi russi assumessero sostanze proibite senza remore: «Training, eating, vitamins, doping». Il marciatore di Calice di Racines lo ripete in inglese, così come gli fu sbattuto in faccia, il mantra dei russi. «Questo incontro», spiega, «ha aumentato la rabbia dentro di me. Dovevo doparmi. Quando, in generale, prendo una decisione, non faccio più marcia indietro. Una volta deciso questo, dovevo risolvere due problemi: come arrivare al doping e come farlo […] devi essere in grado di giustificare con te stesso che stai facendo una cosa sbagliata». Il testosterone Schwazer lo ha ordinato online. «L’ho provato. Non ho sentito alcuna differenza. Invece, l’effetto c’era». E quell’effetto, nella carriera di Schwazer, ha segnato un punto di non ritorno. Il racconto prosegue con trasparenza. Carolina Kostner, sua fidanzata cui chiese di mentire per sottrarsi a un test, gli incontri con il dottor Michele Ferrari, nel suo camper-ambulatorio, fermi in una stazione di servizio a Verona Nord. Poi, il 6 agosto 2012, un controllo antidoping e la prima positività all’Epo. Alex Schwazer si sbriciolò. La conferenza stampa indetta 10 ore dopo la notizia della positività lo vide piangere incessantemente. Si scusava e piangeva. Singhiozzava, le mani a coprire il volto. Qualcuno la bollò come pantomima. «Dopo la positività, mi sentivo libero», racconta l’atleta: tre anni e nove mesi di squalifica e la decisione di trasferirsi a Innsbruck per fare quel che non aveva fatto diciottenne: iscriversi all’università. «Alla pausa estiva, sono rimasto a Innsbruck. Ho lavorato come cameriere, ho lavato i piatti. Cercavo questo, un cambiamento drastico». Poi il tempo vola, fino agli anni di Roma.Schwazer arriva nella capitale in cerca di Sandro Donati, suo naturale antagonista in quanto eminenza italica della lotta al doping, poi padre putativo. Voleva dimostrare di essere pulito mettendosi in mano al numero uno dei mastini: «Allenami». E con Donati dalla sua Schwazer è tornato a marciare. Non aveva nessuna possibilità di ricevere riscontri ufficiali, gli erano precluse piste e gare. Donati lo testava su strada, tra i quartieri di Roma, con la gente assiepata sui marciapiedi. Era più veloce di quanto non fosse mai stato. Spiega il guru di aver liberato il suo talento naturale: «Era come un pianoforte che suonava una nota sola». Con gli allenamenti, Donati arricchisce il suo bagaglio tecnico e affina la muscolatura: «Dal pianoforte adesso usciva la musica». Alex puntava Rio 2016, aveva tempi da urlo. Ma a quelle Olimpiadi non sarebbe mai arrivato.L’urina di Schwazer, prelevata con un controllo a sorpresa la mattina del primo gennaio 2016, è risultata positiva a minime quantità di testosterone. In seconda battuta, però. La prima analisi, condotta nel laboratorio di Colonia, aveva dato esito negativo. La Wada, allora, ha chiesto un riesame e, a Montreal, quelle stesse urine sono risultate positive al doping. Schwazer non avrebbe partecipato alle Olimpiadi. Ma anziché piangere, chino sotto il peso della colpa, l’atleta altoatesino ha giurato di combattere. Le urine, secondo Schwazer, erano state manomesse e, più tardi, si sarebbe scoperto che quel campione era rimasto incustodito 15 ore.Cosa sia successo lo ha stabilito il Tribunale di Bolzano nel 2021, ritenendo «accertato con alto grado di credibilità razionale» che i campioni di urina «siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati». Colpevoli, entrambi, di aver contribuito a scoperchiare il vaso di Pandora.Quando Schwazer è risultato positivo all’Epo la prima volta, nel 2016, il procuratore Guido Rispoli dispose un’indagine penale. Il marciatore asseriva di aver fatto tutto da solo, di essersi informato su Internet e aver prenotato qualche giorno in Turchia per procacciarsi l’Epo. Nessun medico federale coinvolto. Rispoli ha indagato, finendo per mettere le mani su dati imbarazzanti per numerose federazioni sotto il profilo delle sostanze illecite. Più di 1.000 atleti (in larga parte russi), divisi in 30 discipline, risultavano dopati. Era doping di stato, intrecci politici che hanno fatto vacillare i vertici dell’atletica internazionale. «Questo crucco ha da morire ammazzato», si sente dire in un’intercettazione telefonica. E ammazzato, sportivamente, Alex Schwazer c’è finito davvero. Ma il suo traguardo adesso è far emergere la verità, e lui è ancora in marcia.
Jose Mourinho (Getty Images)