2024-08-18
L’opposizione ha scassato i conti, al governo toccano le riparazioni
Giancarlo Giorgetti (Getty Images)
La gestione delle sinistre nell’ultimo decennio ha immobilizzato il Paese. Per ripartire servirebbe una conferenza annuale sullo stato della nazione che fissi le priorità e sia la base delle leggi di Bilancio.Trovo ridicolo che le opposizioni imputino al governo il dissesto dei conti pubblici avendolo causato quando furono al potere. Ma invece di invocare un processo, pur sacrosanto in teoria, contro chi ha deciso misure di spesa pubblica insostenibili, distorsive ed inefficaci, e contro chi non ha controllato, preferisco pensare e far pensare a come riparare l’economia italiana. Ed a futurizzarla perché la dominanza delle sinistre nel recente quasi decennio la ha immobilizzata e fatta arretrare sul piano competitivo (deindustrializzazione non bilanciata da nuove imprese): troppi italiani nell’incertezza a causa del tradimento da parte delle sinistre della missione primaria di una democrazia, cioè il capitalismo di massa continuamente rinnovabile. Ma il sistema italiano avrebbe le capacità di produrre un programma di «riparazione & futurizzazione?». Certamente lo ha su piano dell’antropologia economica di base: la maggioranza degli italiani è ancora attivista, sia a Nord sia a Sud, pur ampia una minoranza passiva e orientata all’assistenzialismo offerto incoscientemente dalle sinistre. Ma il prevalente potenziale attivo della popolazione andrebbe organizzato da una politica governativa che crei canali di opportunità crescenti. Il solito Pelanda liberista che dà fiducia forse eccessiva al libero mercato e demonizza lo schifo socialistoide depressivo? Sempre io, ma consapevole della necessità di riparazioni progressive di tipo sistemico che difficilmente possono essere realizzate in modi spontanei: devono essere guidate da un governo perché c’è un’enorme struttura di norme nazionali e di vincoli europei da cambiare o da rielaborare. Pertanto chiedo a questo governo, ed alla maggioranza parlamentare che lo sostiene, di creare una «Conferenza annuale sullo stato della nazione» il cui scopo è capire le priorità sia di riparazione sia di futurizzazione competitiva, connettendole il più e meglio possibile. Come? A marzo di ogni anno il governo produce un Libro verde con le proprie analisi da inviare per consultazione agli attori economici settoriali per ricevere un parere tecnico da ciascuno (come è già prassi, per esempio, nel Mimit al riguardo della politica industriale). Ricevuti e valutati i diversi consulti, poi a settembre di ogni anno il governo pubblica un «Libro bianco» che deve essere connesso alla legge finanziaria, cioè alla politica di bilancio per l’anno successivo calibrata con le previsioni di quelli dopo. Va detto che i consulti non servono necessariamente per il consenso, ma per raffinare grazie al contributo degli esperti di settore i progetti e la lista delle priorità di riparazione. Probabilmente un politico professionale storce il naso di fronte ad una proposta non finalizzata direttamente al consenso. Ma, per lo meno i leader, dovrebbero valutare il consenso indiretto che deriverebbe dalla verità e dalla credibilità dei progetti di riparazione e futurizzazione. Non basterebbe? Forse no. Soluzioni? Quella, per il centrodestra, di essere credibile sull’impegno a non lasciare solo e povero alcuno. Desta sorpresa che un liberista ritenga importante il welfare? Non dovrebbe, per lo meno nel mio caso: dal 1999, con un precursore nel 1995, predico in parecchi libri (si veda www.carlopelanda.com) la nascita di un «welfare di investimento» che sostituisca quello assistenziale, ma senza ridurre l’assistenza a chi ne ha veramente bisogno (meno dei beneficiari correnti, è un dato). Il punto: il liberismo adattato alla realtà attuale deve mettere più denaro fiscale possibile in investimento per creare sempre più lavoro qualificato, ma senza dimenticare sia il fabbisogno di assistenza sia lo stimolo formidabile della detassazione alla creazione della ricchezza socialmente diffusa. E con questa formula che integra sia la missione di garanzia sociale sia quella di espansione del mercato, il modello di «welfare di investimento» avrebbe una superiorità tecnica assoluta sulle proposte economiche delle sinistre. È stato importante il confronto tra liberismo e socialismo nell’ultimo secolo e mezzo: due vie opposte per ottenere il capitalismo di massa. Ma ora è evidente che le idee socialiste non funzionano sul piano della ricchezza diffusa: infatti c’è stato un progressivo spostamento delle sinistre verso la compatibilità con il capitalismo. Ma non ha prodotto risultati perché bloccato dall’ossimoro di un progressismo immobilista. Mentre il liberismo ha più probabilità di adattarsi al tipo corrente di società producendo una formula di «liberismo sociale» intrinsecamente più dinamica perché fornisce risorse all’inventiva ed ambizioni degli individui senza metterli in una scatola rossa, come topini. Appunto: «il welfare di investimento». Con l’annotazione che il liberismo ha per lo più preso questa strada già da tempo, ma senza una teoria che regga la nuova ingegneria di welfare attivo.Ma la destra in Italia dovrebbe fare qualcosa di più per strutturare il «welfare di investimento»? Certamente. Ma può evolvere più facilmente della sinistra che punta a soddisfare un elettorato in bisogno promettendo solo assistenza improduttiva mentre il centrodestra mira a dare ad ogni individuo opportunità dinamiche. E gli individui preferiscono avere opportunità piuttosto che Fiere dell’Unità. Per tale motivo, però, c’è bisogno di realtà, verità e progetti. Ecco perché penso che la Conferenza sullo stato della nazione, detta sopra, sia una buona idea per istruire i governanti e per i politici agire in modo istruito per risolvere i problemi. In questa evoluzione prende più significato operativo l’elezione diretta del capo dell’esecutivo: una verticalità operativa basata su – e bilanciata da - un dialogo più profondo tra governanti e governati. Democrazia attiva, in danza. www.carlopelanda.com
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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