2022-06-07
Lo stipendio minimo varato per legge costerebbe alle aziende 6,7 miliardi
L’Inapp studia i costi dell’applicazione dei 9 euro l’ora. Ne evidenzia i limiti con il paragone tedesco: non ha ridotto la percentuale di lavoratori poco retribuiti e non ha aumentato il numero di occupati.A oggi i Paesi Ue privi di salario minimo legale, oltre all’Italia, sono Austria, Danimarca, Cipro e la penisola Scandinava. In comune abbiamo un elemento. L’altissima percentuale di copertura della contrattazione collettiva. Con il passare del tempo e l’evolversi dell’approccio delle piccole e medie imprese dalle parti di Bruxelles hanno pensato di erogare una direttiva che miri a imporre a tutti il salario minimo legale. La motivazione ufficiale è quello di alzare, ovviamente, le retribuzioni dentro il perimetro della contrattazione, ma anche tutelare i diritti dei lavoratori. La realtà è un po’ diversa e un interessante report dell’Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, spiega bene che cosa si nasconda tra le pieghe. Il documento parte dal presupposto (circolato nel 2018) di applicare anche in Italia un salario minimo legale di 9 euro lordi all’ora. I beneficiari sarebbero il 18% dei dipendenti a tempo pieno e il 29% di coloro che sono assunti a tempo parziale. La spesa complessiva a carico delle aziende sarebbe di 6,7 miliardi aggiuntivi, tra imposte e oneri. E qui veniamo al primo incaglio. Con un cuneo fiscale insostenibile come l’attuale, l’effetto sarebbe quello di spalmare sulle aziende meno grandi una nuova tassa. Difficilmente ammortizzabile. Se entriamo nei dettagli del report, vediamo che le grandi aziende non verrebbero minimamente toccate e gran parte delle Pmi, a cui verrebbe imposto di adeguarsi, sono residenti al Sud. «L’analisi territoriale mostra la distribuzione del salario orario nelle imprese del Mezzogiorno. Si evince che sia caratterizzata da un livello medio più basso rispetto alle altre e risulta quindi che una quota maggiore di lavoratori nel Mezzogiorno percepisce una retribuzione oraria», si legge nel documento, «più bassa rispetto al totale nazionale: conseguentemente, la spesa per l’adeguamento ad un livello orario minimo risulterebbe maggiore rispetto alle altre ripartizioni». C’è poi un tema assestamento dei costi. Se alle aziende venisse chiesto di adeguare i livelli più bassi, in larga misura ne risentirebbero, poi, a salire i livelli mediani. Tradotto in poche parole. Se la contrattazione collettiva intendesse mantenere, almeno in parte, le differenziazioni salariali, allora si aprirebbero temi di maggiore costo anche sui livelli successivi. In tal caso i maggiori oneri per le aziende salirebbero in modo esponenziale. Poco cambia se si voglia valutare i 9 euro come ingresso o scendere a 8. La logica rimane la medesima. Il che ci spinge a trarre una prima conseguenza. Bruxelles non mira a imporre il salario minimo legale con l’intento di migliorare la vita e gli incassi di tutti i lavoratori. Ma mira alla riforma per entrare tramite la correlazione tra rappresentanza sindacale e contrattazione aziendale in tutte le Pmi. E quindi, di fatto, mira a combattere l’evasione contributiva. Il motivo dietro cui si nascondono le importanti differenze di salari tra Pmi e grandi aziende e tra Nord e Sud. Lungi da noi difendere l’evasione. Ma è importante evitare che la lotta all’evasione ricada su tutte le altre aziende. A Bruxelles e al governo, per esser ancor più chiari, importa recuperare quei 6,7 miliardi di euro in più dalle aziende. Non trovare il modo di far correre salari e produttività. Qui si scontrano due filosofie opposte e l’unica che dovrebbe sopravvivere è quella che non passa da governo, Bruxelles e sindacati. Quella che punta al taglio delle tasse e del cuneo fiscale. Una strada come dimostrato più volte che, a differenza anche dei tentativi di indicizzare come negli anni Ottanta, porterebbe a maggiori entrate per i dipendenti fino al 20%. A dimostrare che il taglio del cuneo è la vera battaglia, c’è anche l’esempio tedesco. La Germania, nel 2015, ha introdotto il salario minimo legale. Da notare che il 40% dei lavoratori tedeschi non era coperto da contrattazione collettiva. Il governo, allora, scelse di imporre 8,5 euro all’ora per una cifra mensile di 1.440 euro a tempo pieno. Nel 2018 si è saliti a 8,85 e solo nel 2020 a 9,35 euro. Il risultato nel breve tempo è aver portato i lavoratori con i decili più bassi ad avere uno scatto anche del 27%, ma nel complesso (sempre secondo il report Inapp) la percentuale di lavoratori scarsamente retribuita (sotto la mediana utilizzata dal governo per calcolare il valore del salario minimo) è rimasta la medesima. Cioè, era il 23% prima del 2015 ed rimasta intonsa anche a 5 anni di distanza. L’introduzione in Germania del vincolo di legge sulle buste paga non ha influito nemmeno sul tasso di crescita del numero di occupati. Non solo. Tra le aziende tedesche si è rilevata una marcata diminuzione del numero di ore medio lavorato alla settimana, un aumento superiore alla media dei prezzi dei prodotti nei settori maggiormente interessati dalla misura e, negli stessi settori, una diminuzione del turnover. Oltre il 6% delle aziende obbligate a ritoccare i salari nell’anno successivo, ha tagliato i benefici monetari aggiuntivi al salario. A cinque anni di distanza, conclude il report Inapp, «non sembra che le aziende abbiano avviato strategie di carattere strutturale finalizzate all’incremento della produttività». Ecco, prima di imbarcarsi sulla nave del salario minimo è bene sapere che cosa ci spetta. Più di 6 miliardi a carico delle aziende senza alcuna certezza di renderle più concorrenziali.