L'ennesima stretta non è giustificata dai tassi di inoculazione (già alti). E la «sicurezza sanitaria» è un obiettivo impossibile
L'ennesima stretta non è giustificata dai tassi di inoculazione (già alti). E la «sicurezza sanitaria» è un obiettivo impossibileUn fiume d'anni fa (era il 2003) Antonio Socci fece scoppiare un putiferio dopo aver tempestato con una ripetuta e martellante domanda prima Giovanna Melandri e poi Daniele Capezzone. Si parlava, allora, delle problematiche etiche relative alla commercia e la domanda - divenuta celebre - del giornalista e scrittore era semplice: «Perché»?Non soddisfatto dalle risposte più articolate dell'allora parlamentare dei Ds, il conduttore di Excalibur iniziò a raffica: «Perché? Perché? Perché? Perché?». Su modalità e toni si può discutere, tuttavia è un interrogativo che riconquista improvvisa pertinenza assistendo all'escalation normativa che ha portato l'Italia ad essere avanguardia mondiale con l'Arabia Saudita sulle restrizioni da green pass e, più in generale, sull'uso e la creazione di un diritto «impositivo» diretto e indiretto a proposito di vaccinazioni Covid.Nella sua apparente banalità, la domanda sul perché di questo primato non ha risposta univoca. Molti politici favorevoli all'estensione dei vincoli, anche «off the record», non sembrano in grado di fornire risposte soddisfacenti. Certo, il primo aspetto è di salute pubblica: contestare l'efficacia complessiva dei vaccini nel diminuire non tanto i contagi quanto, a parità di infezioni registrate, ospedalizzazioni e decessi, è operazione incompatibile con il dato di realtà. Dunque persuadere soprattutto anziani e fragili a proteggersi non solo è buon senso ma aumenta le probabilità di non saturare la capacità di risposta del sistema sanitario. Qui, però, iniziano i «perché?». Secondo i dati diffusi ieri sera, il 75,8% degli over 12 (cioè l'intera fascia di «vaccinabili») ha completato il ciclo. Considerando che a essersi iniettato almeno la prima dose è l'82,4% della popolazione presa in considerazione, arrivare a ridosso dell'85-90% entro ottobre appare fattibile. Perché - ecco - ricorrere a una legislazione che al momento non ha precedenti in Europa quando, nello stesso continente, l'Italia è dietro a Portogallo, Spagna e Danimarca e Irlanda, ma pari alla Francia, davanti a Gran Bretagna, Germania, e sensibilmente migliore rispetto alla media dei Paesi europei? Malgrado il ritardo nella partenza dovuto alle negoziazioni Ue, abbiamo superato tra gli altri Stati Uniti e Israele. Eppure ieri nella conferenza stampa senza Mario Draghi i ministri hanno abbozzato una risposta: la necessità di accelerare la «campagna d'autunno» in modo da arrivare più protetti alla stagione fredda, ritenuta a ragione più fertile per la diffusione del Covid. È strano domandarsi per quale motivo gli altri Paesi non avvertano la stessa esigenza? E quale percentuale di vaccinati è considerata sufficiente? Con quante dosi? Ripetere che il green pass è «uno strumento di libertà» (quando, a prescindere dal giudizio di valore, altera il diritto al lavoro di milioni di persone, e introduce nuovi divieti, controlli e sanzioni), non cancella la forza della domanda, anzi. A legislazione vigente, la possibilità per Comuni e Regioni di diventare «rosse», con conseguenti chiusure, anche se il 100% fosse vaccinati o dotati di green pass, esiste. Il fatto che oggi, per fortuna, un Paese di 60 milioni di abitanti abbia 5.080 ricoverati positivi al Covid (intensive comprese) conforta, ma fa domandare ancora una volta: perché? Nel 2014 il governo italiano ha partecipato alla Casa bianca all'ambito della Global Health Security Agenda: il nostro Paese, spiegò allora l'Aifa, venne designato come «capofila» delle «strategie e campagne vaccinali nel mondo». Chiedersi se questo implichi tuttora impegni per il nostro Paese, ieri lodato da Anthony Fauci («È un esempio per il mondo») significa evocare la Spectre dei vaccini?Altre domande, non meno pressanti, riguardano la forma di queste leggi. Perché una strada come quella del decreto legge, il cui abuso è stato oggetto di un duro e recente intervento di Sergio Mattarella, viene ancora utilizzata con la bizzarra caratteristica di entrare in vigore un mese dopo il varo in Cdm? Necessità e urgenza possono essere diluite? Perché forze politiche che hanno visto una minaccia per la democrazia in chi ha parlato di «pieni poteri» due anni fa sostengono con sorprendente compattezza e senza un plissé una misura con cui il governo chiede a Parlamento, Quirinale, Corte costituzionale (!) di «adeguarsi» alle disposizioni sul green pass? Non conta il merito della faccenda, ma l'equilibrio di poteri e la natura dell'esercizio della rappresentanza. Un assessore non può essere ricevuto dal suo sindaco in Comune senza green pass? È surreale, ma il capo dello Stato in teoria non può tenere le consultazioni senza lasciapassare attivo? Può la Consulta pronunciarsi sulla costituzionalità di una norma a cui essa stessa si sottopone in ottemperanza a un decreto? Gli eventuali ballottaggi delle prossime amministrative arriveranno a decreto in vigore: elettorato attivo e passivo sono da considerarsi subordinati al green pass?Ripetere queste domande serve a illuminare la questione di fondo: esiste un limite a ciò che si può fare sulla vita delle persone, sul diritto, sulla democrazia, sul numero e l'estensione di obblighi e veti perché c'è il Covid? Se il limite non esiste, abbiamo un problema. Se c'è, è il caso di capire quale sia, e chi lo stabilisca.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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