2022-12-31
«Lo stadio intitolato a mio nonno è come la Scala: non buttatelo giù»
Lo stadio San Siro (Ansa). Nel riquadro, Federico Jaselli Meazza
Parla il nipote del fuoriclasse degli anni Trenta Federico Jaselli Meazza: «Il Peppìn è stato il Ronaldo della sua epoca. Mussolini voleva portarlo alla Lazio, ma era troppo legato a Milano. San Siro? Modernizziamolo senza abbatterlo».Di fuoriclasse del pallone l’Italia ne ha figliati parecchi, ma Giuseppe Meazza, da tutti a Milano chiamato «Peppìn», resta, non ce ne vogliano gli altri, il più leggendario. Nel capoluogo lombardo nacque nell’agosto 1910, nei pressi di Porta Vittoria che, all’epoca, proseguiva verso campi e cascinali. Oggi appartiene alle zone centrali di una metropoli progressivamente espansa, ma allora, quando il Peppìn vide la luce, in una famiglia povera, poi rimanendo in tenera età orfano del padre, caduto sul Carso nella guerra del ’15-’18, tanti ragazzetti si dilettavano con un pallone di pezze nelle radure polverose dei cantieri. Meazza, «gracile e denutrito», «le spallucce cadenti e le ginocchia vaccine», come ricordò Gianni Brera quando, nell’agosto 1979, a Monza, a causa di un tumore al pancreas, il campione se ne andò per sempre con il pudore e la ritrosia dei gatti, era uno di loro. Tutti però si accorsero che in quei campetti di fortuna, sapeva incantare come un genio bambino.Segnalato da un osservatore, a 14 anni giocava già nelle giovanili dell’Ambrosiana Inter, e a 17 in serie A. Aveva 20 anni quando Vittorio Pozzo lo fece esordire in Nazionale, nel 1930. L’11 maggio di quell’anno, giunto alla 4ª presenza, segnò una tripletta a Budapest contro la temuta Ungheria. L’Italia vinse 5 a 0 e lui divenne un mito. Fu mattatore e uomo decisivo nelle due vittorie consecutive dell’Italia ai mondiali di Roma del 1934 e di Parigi del 1938. Occorsero 44 anni affinché gli azzurri agguantassero il terzo titolo, con Bearzot nell’82, a Madrid. Fu la prima stella assoluta del calcio nostrano, ancora ruspante e ruggente: sfera di cuoio marrone, fuorigioco non ancora inventato, radiocronache auliche di Carosio, palanche poche. Prima di sposarsi divenne un viveur, lo vedevano entrare nelle sale da ballo, parlava in meneghino. Perentorio il suo dribbling, che faceva inzuccare i terzini, forte anche di testa e in acrobazia, le invenzioni strabilianti, le fughe da centrocampo da antologia, uno spauracchio con i capelli imbrillantinati per i poveri portieri, che spesso aggirava, depositando di piatto la palla nella porta vuota. Della sua casa natale nessuna notizia, sarà stata abbattuta per far posto a palazzi moderni, come nella via Gluck di Celentano. Ma adesso anche lo stadio di San Siro, dal 1980 a lui intitolato, rischia di fare la stessa fine. Federico Jaselli Meazza, nato a Milano nel 1968, è il nipote del «Balilla», altro nomignolo dato al nonno giacché, quando fu messo in prima squadra dall’Inter si disse: «Ora fanno giocare anche i balilla». La madre è Silvana, prima figlia dell’asso degli anni ’30, sorella di Gabriella. Federico vive a Madrid, è sposato con una donna spagnola, ha 2 figli, una femmina di 11 anni e un maschio di 9, ed è presidente dell’«Inter club Madrid», oltre 90 soci. Per le festività è a Milano dalla madre e con lui parliamo della figura di suo nonno e dell’acceso dibattito sul progetto del nuovo stadio milanese, che scuote la memoria. Che ricordo ha di suo nonno «Peppìn»?«Era un nonno affettuoso, non lo vedevamo tantissimo, viveva a Lissone, ogni tanto veniva a cena da noi. Era una persona abbastanza schiva. Ricordo che mi regalava spesso portachiavi e distintivi dell’Inter e che ho provato a fare qualche palleggio con lui, ma faceva qualche smorfia, rendendosi conto che non era la mia strada. Quando è mancato, avevo 10 anni e mezzo. Mia nonna Rita, la moglie di Meazza, non l’ho conosciuta, mancò nel 1966, in seguito lui si risposò». Quando si rese conto di essere il nipote della stella più nota della storia del calcio italiano?«Soprattutto quando andavamo allo stadio. Aveva la mania di andare sempre via dalla partita un quarto d’ora prima, solo che a volte ci perdevamo dei goal. Ma appena si alzava, in tribuna lo applaudivano tutti e capivo di avere un nonno speciale». Meazza perse il padre da piccolo. Sua madre dovette tirar su lui e suo fratello da sola…«Sì, poi la mia bisnonna credo si sia risposata, ma ha tirato su i figli da sola, ha dovuto fare tanti sacrifici».È vero che la madre diede un’ombrellata a un tifoso che lo stava «beccando»? «La mia bisnonna Ersilia, sì, al suo esordio in Nazionale, in Italia-Svizzera (amichevole del 9 febbraio 1930, a Roma, ndr.). La Svizzera stava vincendo 2 a 0 e i tifosi erano critici sul gioco di mio nonno e sulle scelte di Pozzo. Allora lei ci rimase male e tirò un colpo di ombrello a un tifoso. Poi l’Italia pareggiò e Meazza segnò una doppietta. L’Italia vinse per 4 a 2». Secondo lei Meazza intravide già da adolescente il suo futuro?«Già da ragazzino era stato presidente, giocatore e allenatore della Costanza, una squadra di amici del suo quartiere. Venne un osservatore dell’Inter, poi entrò nelle giovanili della squadra. Fu segnalato già a 12 anni. Si vedeva che aveva qualcosa, molto in più». Divenne presto un calciatore famoso, il più famoso. A che età iniziò a guadagnare molto?«Negli anni ’30. Ma, all’epoca, i calciatori guadagnavano sì bene, ma neanche in proporzione si può paragonare a ciò che guadagnano ora. Era come se un giocatore fosse retribuito come un alto dirigente d’azienda, ecco. Ottenne fama e notorietà ma non guadagnava cifre enormi». È stato scritto per la coppa Rimet nel ’34, i giocatori presero 20.000 lire. Meazza guadagnò più nell’Inter o in Nazionale? «Credo nell’Inter, dove ha giocato 13 anni». Qualche club di serie A voleva sottrarlo all’Ambrosiana Inter? «Mussolini voleva portarlo nella Lazio. Mandò persone a lui vicine a casa di sua mamma per convincere il nonno ad andare a Roma. Lui non si fece trovare e la mia bisnonna li liquidò. Nonno era molto legato a Milano, voleva rimanere all’Inter». Come la pensava politicamente?«Non ha mai espresso opinioni e giudizi dal punto di vista politico».Li faceva arrabbiare gli allenatori?«Alla vigilia di una partita di campionato nei primi anni ’30, la sera prima va a ballare, fa tardi, il giorno dopo non si sveglia in tempo, corre in taxi allo stadio. Tutti i giocatori e l’allenatore preoccupati perché non arrivava. Giunse trafelato quasi quando le squadre stavano entrando in campo, sguardi severi dei giocatori e di Weisz, l’allenatore. Lui dopo pochi minuti segnò due goal e si fece perdonare. Non era ancora sposato e quindi… si divertiva».Infatti, oltre alle imprese sportive era anche un viveur…«Sì, la popolarità, era anche un bell’uomo, cercato e ambito dalle donne. Gli piaceva molto a ballare e ballava molto bene. Le donne se lo contendevano. Gli piaceva mangiar bene, vestire bene». Quando si sposò, mise la testa a posto? «Siii, poi lui è stato innamoratissimo di mia nonna, erano una bellissima famiglia. Si sposò a 29 anni, nel ’39».Che auto aveva?«La sua prima auto fu una Fiat Balilla».All’epoca non c’era tv, solo radio e giornali. Contribuì più la radio alla sua notorietà?«Contribuì la radio ma anche le riviste. Lui è stato uno dei primi giocatori a prestare il proprio volto a delle pubblicità sui giornali».Tipo?«Soprattutto la brillantina, poi un dentifricio, una marca di tacchetti per gli scarpini da calcio, un olio per i motori…». Lei poco fa ha ricordato l’allenatore dell’Inter Arpad Weisz, ungherese di origini ebree. Fu sterminato ad Auschwitz con la famiglia. «Fu per lui un dolore straziante, come perdere un padre. Era legatissimo a Weisz. Lo considerava un secondo padre».Un calciatore italiano che gli abbia assomigliato?«Difficile dire, potrei azzardare Roberto Baggio».E straniero?«Una volta Massimo Moratti mi disse che certi scatti e il dribbling gli ricordavano Ronaldo (Louis Nazario de Lima, ndr.), il “fenomeno”». Quali calciatori del dopoguerra gli piacevano?«Era un grande ammiratore di Rivera e Mazzola e aveva grande stima di Facchetti». Dei suoi ricordi che conservate, a quale tenete di più?«Alle medaglie d’oro dei mondiali del ’34 e del ’38». Ha scritto un libro su suo nonno. Che differenza percepisce tra la Milano di oggi e quella in cui Meazza fu giovane?«A parte le dimensioni, c’erano tanti negozietti tipici al dettaglio, scomparsi. All’epoca Milano era molto più provinciale. Oggi i ragazzini non giocano più a calcio nelle strade, si respira una realtà più internazionale, ma si è persa un po’ di milanesità. Ora quasi più nessuno parla in milanese, i ragazzi di oggi non lo sanno, neanch’io lo so».Che ne sarà dello stadio «Giuseppe Meazza», ex-San Siro?«Inter e Milan vorrebbero uno stadio completamente nuovo, vorrebbero demolire quello esistente, per costruirne uno super-moderno. Io invece faccio parte del comitato “Sì Meazza”, che si propone di preservare l’impianto attuale, modernizzandolo, con costi inferiori. C’è un bel progetto dello studio Aceti-Magistretti, che consentirebbe anche che le squadre non giochino altrove durante i lavori. Spingiamo per questa soluzione. Il Meazza è un monumento di valore storico, ha più di 70 anni, e milanesi, italiani, appassionati all’estero, sono molto legati. È un simbolo di Milano, sarebbe come abbattere la Scala per fare un teatro nuovo. Speriamo non succeda. E per me c’è anche un motivo affettivo in più, che mi fa sperare di poterlo salvare, essendo intitolato al nonno». A livello politico, la situazione com’è?«Il proprietario dell’impianto è il Comune di Milano. Sulla sua salvaguardia, maggioranza e opposizione sono spaccate, c’è una gran confusione, il sindaco Sala sostiene la posizione delle due squadre. Si è parlato anche di due nuovi stadi».E il nome di suo nonno, nel caso il Meazza fosse smantellato?«In famiglia faremo di tutto affinché sia mantenuto. Sarebbe la cosa giusta».