2020-05-18
Andrea Crisanti: «Contro il Covid bisogna trasgredire»
Andrea Crisanti (TEDxWarwick)
Il professore che ha ispirato Luca Zaia: «Abbiamo ignorato le indicazioni dell'Oms e del governo, i fatti ci hanno dato ragione. In Veneto da anni dobbiamo affrontare il virus del Nilo. Le mascherine? Non c'è la ricetta alternativa».Alle otto della sera, la giornata lavorativa del professor Andrea Crisanti non è ancora finita. «Sono uno straccio», confessa. Da direttore del dipartimento di medicina molecolare e microbiologia dell'università di Padova, è diventato uno dei padri del «modello veneto» che così bene ha funzionato contro il coronavirus. Nato a Roma, una lunga docenza all'Imperial College di Londra, è tornato in Italia da due anni. Che cosa le ha insegnato avere lavorato in Gran Bretagna?«È stata un'esperienza fantastica. Ciò che più ho imparato è la forza di sfidare lo status quo e le conoscenze acquisite. Là questo coraggio è molto apprezzato, c'è un grande rispetto per l'originalità. La ricerca avanza solo se ci sono persone in grado di mettere in discussione ciò che già sappiamo e se c'è un ambiente che valorizza quanti la pensano in maniera diversa. Bisogna essere un po' trasgressivi per essere bravi scienziati». Con il Covid lei dove ha trasgredito?«Nell'essermi mosso in largo anticipo ed essere rimasto coerente alle mie idee nonostante l'Organizzazione mondiale della sanità e il governo italiano dicessero di fare tutto il contrario».Ha avuto tutti contro.«Però se uno è convinto delle proprie idee ed è in buona fede, vince sempre. Alla fine, la cosa più importante è l'onestà intellettuale».Cioè?«Basare le proprie convinzioni sui dati. È fondamentale specialmente per una persona di scienza».E se non ci sono dati sufficienti?«Bisogna avere il coraggio di dire: non lo so».In questo caso la scienza non sa molto.«Esatto! Con centinaia di migliaia di persone malate non è ancora uscito uno studio completo. Sappiamo poco, ma ci vuole il coraggio di dirlo. La scienza è misura, sfida delle conoscenze, confronto. Una conoscenza non misurabile non è scientifica».Ha ancora rapporti con Londra?«Naturalmente legami scientifici. E poi là ci sono mia moglie e mio figlio».Quando li ha visti l'ultima volta?«Tre mesi fa. Mia moglie lavora a Londra e mio figlio studia a Cambridge. Per due anni ho fatto su e giù ogni fine settimana. Quando poteva, scendeva mia moglie: ogni occasione era buona».Quindi lei era già in isolamento forzato...«Sì, sono solo soletto. Però confortato dall'affetto degli amici e dei colleghi che sono stati tutti molto gentili e mi hanno mostrato grande solidarietà».Come si svolge la sua giornata?«Alle 9 incontro per una mezz'ora i dirigenti del dipartimento di cui sono direttore. Poi vedo i dirigenti del reparto e trattiamo di questioni molto pratiche: magari mancano i reagenti, un macchinario si è rotto, ci sono progetti da avviare. Le riunioni sono numerose così come le richieste di interviste. A metà giornata spesso mangio un panino con il direttore generale e il direttore sanitario».Pranza con la mascherina?«Ci sediamo a un bel tavolone lungo per tenere le distanze. È anche un momento di relax».Trova tempo per altro?«Incontro colleghi che chiedono il nostro supporto e i collaboratori scientifici con cui stiamo realizzando un progetto, dobbiamo ultimare un paper per Nature. Tengo webinar con la facoltà. Arrivo a sera senza fiato».Riceve lettere, telefonate, mail?«Moltissime. E cerco di rispondere a tutti».Che cosa le scrivono?«Molti colleghi chiedono consigli o collaborazione. C'è anche gente normale con tanti problemi: ricordo una coppia positiva da due mesi che non sapeva cosa fare. Li abbiamo ricoverati qui a Padova».Che cosa ha imparato da questa epidemia?«L'importanza della solidarietà».Non un elemento scientifico?«I dati scientifici stimolano la mente e magari creano momenti di euforia tutta personale, ma non c'è niente di meglio che sentire le persone attorno a te con la stessa motivazione e lo stesso scopo».Che cosa l'ha segnata di più in questi mesi?«Ho in mente le mamme di Vo' Euganeo che portavano i ragazzini a fare la puntura e dicevano: guarda che lo stai facendo per l'Italia. Sono queste le cose che danno un senso alla giornata».Quando prevede di rivedere i suoi familiari?«Prima dell'estate, spero...».Prudente o pessimista?«L'Inghilterra sta in un mare di guai».Come mai ci si ammala ancora dopo due mesi di lockdown?«In Veneto sono prevalentemente persone che lavorano in ospedali e residenze sanitarie assistite: sono tra il 60 e 70% dei nuovi casi».Nelle città il virus non circola più?«Poco».È ragionevole riaprire tutto?«È una decisione politica che deve avvenire a un rischio accettabile. Purtroppo, in Italia questo rischio non è misurabile perché non abbiamo il vero numero totale di casi».Come mai?«I numeri ufficiali sono falsati perché riportano soltanto i positivi ai quali è stato fatto il tampone».Non abbiamo elementi per dire quanti sono gli infetti?«No. Io ho sempre auspicato che fossero conteggiati anche coloro che telefonavano da casa ai servizi sanitari locali riferendo una sintomatologia compatibile. Senza contare anche questi, il totale vero non lo sapremo mai».Si dice che una proporzione ragionevole sia 10 volte superiore a quella ufficiale.«Uno a 10 forse è tanto, ma tra 5 e 10 è abbastanza vicino al dato reale».Come mai i malati di adesso presentano sintomi meno violenti?«È la stessa ragione per cui il virus è emerso quando già il 3 per cento della popolazione era infetta. All'inizio l'infezione è lieve, poi più persone si infettano, più c'è la possibilità che la carica virale aumenti». Il virus si rafforza al crescere del contagio?«È così. E adesso si è ridotta la carica infettante».Bisogna portare le mascherine?«Assolutamente, al contrario di quanto ci hanno detto all'inizio. Non ho una ricetta alternativa».E se non si trovano?«Bisogna chiederne conto a chi doveva assicurarne la fornitura. È chiaro che così si lascia la popolazione indifesa e sicuramente a rischio».Ha detto che una delle sue «trasgressioni» è stata muoversi per tempo. «A Padova abbiamo cominciato a organizzarci nella terza settimana di gennaio. Abbiamo ordinato i reagenti per i tamponi e ci siamo preparati per il caso in cui fossero serviti più posti letto nelle terapie intensive. Con il nostro laboratorio siamo riusciti a passare rapidamente da 50 test al giorno a 3.500; dovremmo arrivare a 6.000 alla fine di questa settimana e probabilmente a 12.000 per l'inizio di giugno. Abbiamo fatto acquisti e investimenti via via che ci rendevamo conto che questa era la strada giusta».Si è detto che il modello Veneto non poteva essere applicato altrove, per esempio in Lombardia.«Noi abbiamo sempre detto che l'epidemia si vince sul territorio e ogni ricovero in ospedale è una sconfitta. Purtroppo abbiamo inseguito il virus anziché incalzarlo».Perché è così importante il caso di Vo' dove avete fatto tre controlli su tutti gli abitanti?«Abbiamo fatto l'ultimo giro di tamponi per dare supporto alla gente e prelevare il sangue: vogliamo studiare gli anticorpi e la genetica della popolazione per verificare se ci sono associazioni. Sono dati che proprio in questi giorni stiamo cominciando a elaborare». I tamponi rimangono necessari?«Senza dubbio. Stiamo ricevendo una fortissima richiesta delle attività produttive e in Veneto, nonostante una capacità di fare tamponi superiore alla media italiana, non siamo in grado di fare fronte a tutte le domande».È ragionevole fare tamponi a tutti?«Parlo per il Veneto, la situazione che conosco meglio: ormai il contagio è così limitato che sarebbe il caso di limitarli alle persone a rischio, cioè il personale sanitario, le Rsa e quanti, per motivi di lavoro o altro, vengono a contatto con un gran numero di persone».Gli anziani sono sempre a rischio?«I più esposti sono quanti incontrano molta gente. Gli anziani sono più vulnerabili ma non sono i primi ad ammalarsi».Se si dovessero riaccendere nuovi focolai, bisognerà chiudere di nuovo tutto?«Come è stato fatto a Vo', si dovrebbe dichiarare micro zone rosse e partire con i tamponi».Perché le altre università non si sono attivate come voi a Padova per farsi trovare pronte?«Fare il virologo o il microbiologo non significa avere competenze per gestire un'epidemia. È come se si chiedesse a un meccanico di fare l'urbanista. I virologi studiano le molecole ma l'epidemia è un'altra cosa: ci vogliono competenze specifiche sul virus, ma anche di sanità pubblica, di igiene medica, di genetica. Ricordo che in Italia coloro che ci hanno portato fuori dal tifo, dalla malaria, dal colera ne sono morti tutti. E questa scienza non si è più coltivata».È il mondo della ricerca che deve attivare la politica, o la politica doveva interpellare voi? Non è stato lei a chiamare il governatore Zaia?«In Veneto da anni è diffusa d'estate l'epidemia del West Nile virus. In qualche modo nel territorio avevamo le competenze per capire che cos'è un'epidemia. Le altre regioni hanno avuto il lusso di non averne da 60-70 anni».I veneti devono ringraziare anche le zanzare?«Nel mondo i Paesi che hanno risposto meglio sono quelli del Medioriente, più esposti a tante epidemie e dotati di una struttura sanitaria tarata anche su questo. In Italia l'unico sistema analogo è quello veneto».