
The Donald spiega al Congresso l’America first. Poi posticipa le imposte sull’auto per Canada e Messico. L’Ue può negoziare. Respinta la richiesta di bloccare 2 miliardi di dollari. Toghe divise, la partita è aperta. Lo speciale contiene due articoli.Se l’Ue avesse un minimo di avvedutezza, dovrebbe studiarsi per bene il discorso che, martedì sera, Donald Trump ha pronunciato al Congresso degli Stati Uniti. In poco più di un’ora e mezza, il presidente americano ha plasticamente tracciato la sua idea di America first.Ha innanzitutto rivendicato la linea dura in materia di immigrazione clandestina, sottolineando il recente crollo degli arrivi di immigrati irregolari alla frontiera americana. «Ho dichiarato un’emergenza nazionale al nostro confine meridionale e ho schierato l’esercito e la Border Patrol degli Stati Uniti per respingere l’invasione del nostro Paese, e che lavoro hanno fatto. Di conseguenza, gli attraversamenti illegali della frontiera il mese scorso sono stati di gran lunga i più bassi mai registrati», ha dichiarato. Un altro tema affrontato è stato quello del contrasto all’ideologia liberal-progressista. «Stiamo togliendo l’ideologia woke dalle nostre scuole e dal nostro esercito ed è già fuori dalla nostra società. Non la vogliamo. L’ideologia woke è un problema, è cattiva», ha affermato.Venendo poi all’Ucraina, Trump ha espresso apprezzamento per la lettera, arrivatagli da Volodymyr Zelensky, in cui quest’ultimo si è detto pronto «a sedersi al tavolo delle trattative il prima possibile per avvicinarsi a una pace duratura». «Apprezzo che abbia inviato questa lettera», ha detto Trump, riferendosi al presidente ucraino. «Allo stesso tempo», ha aggiunto, «abbiamo avuto una seria discussione con la Russia e abbiamo ricevuto forti segnali che sono pronti per la pace». «È tempo di porre fine a questa guerra insensata. Se si vuole porre fine alle guerre, bisogna parlare con entrambe le parti», ha proseguito l’inquilino della Casa Bianca.Trump ha anche elogiato il lavoro di spending review finora svolto dal Dipartimento per l’efficienza governativa, guidato da Elon Musk. Nel discorso, il presidente ha elencato vari sprechi recentemente tagliati, citando, tra le altre cose, «22 miliardi di dollari del Dipartimento della salute per fornire alloggi e auto gratuite agli immigrati clandestini» e «45 milioni di dollari in borse di studio per diversità, equità e inclusione in Birmania». Ha poi menzionato «8 milioni di dollari per promuovere politiche Lgbtq+ nella nazione africana del Lesotho» e «32 milioni di dollari per un’operazione di propaganda di sinistra in Moldavia».Insomma, in riferimento al discorso di Trump, Bruxelles dovrebbe analizzare soprattutto i passaggi su immigrazione clandestina, lotta al woke, crisi ucraina e Doge. Potrebbe finalmente capire, in questo modo, il punto di vista del presidente americano, anziché limitarsi alle semplificazioni e alle demonizzazioni. È infatti proprio partendo dalla comprensione della sua prospettiva che gli europei potrebbero intavolare delle discussioni costruttive con la Casa Bianca. Un fattore, questo, tanto più serio e urgente per quanto riguarda un altro tema, anch’esso affrontato da Trump nel suo discorso al Congresso: quello dei dazi. «Altri Paesi hanno usato tariffe contro di noi per decenni, e ora è il nostro turno di iniziare a usarle contro questi altri Paesi. Mediamente, l’Ue, la Cina, il Brasile, l’India, il Messico e il Canada», ha dichiarato.Ecco, il tema delle tariffe trumpiane è quello forse maggiormente incompreso da parte di molti europei, che si limitano a gridare allo scandalo. Quello che non si capisce (o si finge di non capire) è che il presidente americano non ha un approccio ideologico al dazio. La tariffa, per lui, è uno strumento volto a mettere sotto pressione il proprio interlocutore: l’obiettivo è quello di aprire un negoziato su una determinata questione (non necessariamente economica), trattare e spuntare un accordo il più vantaggioso possibile. Prova di questo approccio sta nel fatto che ieri la Casa Bianca ha confermato che i dazi alle auto provenienti da Canada e Messico saranno rimandati di un mese. Non è quindi escluso che Trump possa essere disposto a un atteggiamento conciliante, soprattutto nel momento in cui Messico e Canada acconsentissero alle sue richieste di rafforzare ulteriormente le loro frontiere con gli Usa, per contrastare i flussi di fentanyl e di immigrati irregolari. Ciò significa che il presidente è disposto a trattare. Per questo, davanti alla minaccia dei dazi all’Ue, Bruxelles farebbe bene a non farsi trovare impreparata. Potrebbe offrire come contropartita l’abolizione delle barriere d’ingresso e delle multe ai danni delle aziende americane: una posizione che sarebbe benaccolta dalla Casa Bianca. Un’ulteriore carta che Bruxelles potrebbe giocarsi sarebbe quella di un maggiore allineamento a Trump nel suo approccio duro sul commercio nei confronti della Cina. Peccato che, negli ultimi due anni, Parigi e Berlino abbiano ulteriormente rafforzato i loro legami con Pechino: una linea che francesi e tedeschi non sembrano intenzionati a mutare. Perché alla fine il problema è proprio questo: gli interessi franco-tedeschi rischiano di portare Bruxelles sempre più allo scontro con Washington. Uno scenario che finirebbe col danneggiare l’intera Ue. Ecco perché chi oggi auspica che Giorgia Meloni si accodi a Parigi e Berlino su Trump è fuori strada. La via da intraprendere è quella di un rilancio delle relazioni transatlantiche, non quella di inseguire le velleità inconcludenti di Francia e Germania. Con buona pace delle cordate filocinesi che remano contro la Meloni.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/linea-dura-trump-su-kiev-2671279586.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-corte-suprema-frena-il-tycoon-da-ripristinare-alcuni-fondi-usaid" data-post-id="2671279586" data-published-at="1741249360" data-use-pagination="False"> La Corte suprema frena il tycoon: «Da ripristinare alcuni fondi Usaid» La Corte suprema ha decretato una battuta d’arresto per Donald Trump. Ha infatti respinto la sua richiesta di mantenere bloccati quasi 2 miliardi di dollari in fondi per gli aiuti esteri. Secondo The Hill si tratta, in particolare, di «pagamenti dovuti in base a contratti esistenti». L’ordinanza è stata emessa ieri, trovando una Corte suprema spaccata cinque a quattro. Contro il presidente si sono schierati anche due togati di nomina repubblicana: John Roberts e Amy Coney Barrett, designata dallo stesso Trump nel 2020. Tutto è nato quando alcune organizzazioni appaltatrici di Usaid hanno fatto ricorso contro il congelamento, promosso dal tycoon, degli aiuti esteri statunitensi. Il 13 febbraio, il giudice distrettuale Amir Ali - nominato da Joe Biden nel 2024 - ha stabilito che i fondi continuassero a essere erogati, mentre il caso veniva esaminato. Successivamente, i ricorrenti hanno sostenuto che l’amministrazione Trump continuava a mantenere bloccati i soldi. Al che, Ali ha decretato che il denaro oggetto del contenzioso dovesse essere speso entro la mezzanotte di mercoledì 26 febbraio. Il giorno prima, a seguito di un controricorso di Trump che chiedeva una scadenza più lunga, il giudice capo della Corte suprema, John Roberts, ha sospeso temporaneamente l’ordinanza di Ali. E arriviamo così alla decisione espressa ieri dalla maggioranza della Corte suprema, secondo cui l’ordinanza di grado inferiore deve restare in vigore, mentre la corte distrettuale dovrà «chiarire quali obblighi il governo deve adempiere». Il giudice supremo, Samuel Alito, ha espresso un duro dissenso nei confronti della decisione della maggioranza. «Ha un singolo giudice distrettuale, che probabilmente non ha giurisdizione, il potere incontrollato di costringere il governo degli Stati Uniti a pagare (e probabilmente a perdere per sempre) 2 miliardi di dollari dei contribuenti? La risposta a questa domanda dovrebbe essere un enfatico “No”, ma la maggioranza di questa corte apparentemente la pensa diversamente. Sono sbalordito», ha scritto.Tuttavia attenzione: nonostante i democratici stiano cantando vittoria, l’analista legale della Cnn, Steve Vladeck, ha definito l’ordinanza di ieri come «estremamente modesta». «In realtà non richiede all’amministrazione Trump di effettuare immediatamente pagamenti di aiuti esteri fino a 2 miliardi di dollari; spiana semplicemente la strada alla corte distrettuale, per obbligare tali pagamenti», ha specificato. Ali dovrebbe comunque tenere oggi un’udienza. Vedremo come continuerà a svilupparsi questa vicenda giudiziaria. Resta il fatto che chi parlava di una Corte suprema in mano a Trump dovrebbe oggi ricredersi. Come detto, tra i giudici che si sono schierati contro la sua amministrazione figura la Coney Barrett, da lui stesso nominata nel 2020. In tutto questo, l’attuale Casa Bianca sta puntando molto sul Dipartimento per l’efficienza governativa, che è stato incaricato di effettuare dei considerevoli tagli di spesa. A finire nel mirino di Trump è stata soprattutto l’Usaid: agenzia che, creata dall’amministrazione Kennedy nel 1961, il presidente americano considera un covo di burocrati progressisti, oltreché fondamentalmente inutile per i suoi obiettivi di politica estera.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
Continua a leggereRiduci
Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






