2020-04-11
L’Europa vuole sapere da Bonafede come protegge i detenuti dal morbo
Alfonso Bonafede (Simona Granati - Corbis/Getty Images)
Mancano i braccialetti elettronici, negati i domiciliari a un recluso. Lui ricorre alla Cedu.Dalle carceri arrivano nuovi guai per il governo, e in particolare per il guardasigilli Alfonso Bonafede. Grazie al ricorso di un detenuto vicentino, nei giorni scorsi la Corte europea dei diritti dell'uomo (la Cedu) ha chiesto al ministro della Giustizia di «fornire urgentemente informazioni e chiarimenti» sulle «misure preventive specifiche» adottate per proteggere «il richiedente e tutti gli altri detenuti dal pericolo di contagio di Covid-19». Per la risposta, la Cedu ha concesso sette giorni al nostro governo: Bonafede, insomma, dovrà farlo tassativamente entro le 10 di martedì 14 aprile. E non potrà sottrarsi, perché il suo silenzio ammetterebbe che i diritti umani dei detenuti italiani subiscono una grave violazione.È questo il primo risultato ottenuto dagli avvocati Roberto Ghini di Modena e Pina Di Credico di Reggio Emilia. I due sono i difensori di B.M., un condannato per reati di droga che ha ancora 16 mesi da scontare e oggi è recluso a Vicenza. B. M. dovrebbe essere fra i 12.000 condannati per reati di non particolare gravità, e la cui pena residua è inferiore ai 18 mesi, che il decreto Cura Italia del 17 marzo ha stabilito possano lasciare la prigione per andare agli arresti domiciliari. La norma punta a ridurre il sovraffollamento nelle prigioni e soprattutto a evitare che il contagio vi si diffonda. Il terrore del coronavirus, ai primi di marzo, aveva già scatenato rivolte in una ventina di istituti. Secondo il ministero, i reclusi al 6 aprile erano 57.137: diecimila in più rispetto alla capienza regolamentare. Tra loro il Covid-19 ha finora fatto una vittima, a Bologna, e i contagiati sono almeno una quarantina. Sono morti anche due agenti di custodia: uno a Locri, in Calabria, l'altro a Opera, vicino a Milano. Gli avvocati Ghini e Di Credico hanno deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo quando il Tribunale di sorveglianza di Verona ha respinto la loro istanza per la detenzione domiciliare di B. M.: il giudice, sostengono i due legali, avrebbe addotto «ragioni relative alla personalità del detenuto», malgrado questo tipo di valutazione non sia richiesta dal decreto. B.M ha quindi fatto opposizione al Tribunale di sorveglianza di Venezia, ma intanto i suoi legali si sono rivolti alla Cedu per chiedere una misura «urgente e provvisoria», ovverosia che a B. M. sia concesso di passare subito agli arresti a casa, anche senza il «braccialetto elettronico» previsto dal decreto Cura Italia. Purtroppo i dispositivi per il controllo a distanza mancano ovunque, in Italia, malgrado lo Stato abbia scandalosamente speso per loro 200 milioni di euro negli ultimi 19 anni. È uno scandalo che oggi si aggrava, se è vero che Bonafede ha chiesto al Commissario straordinario Domenico Arcuri di trovare urgentemente altri braccialetti: ovviamente a pagamento.Se poi B. M. non potrà passare ai domiciliari, gli avvocati Ghini e Di Credico hanno chiesto ai giudici di Strasburgo di ordinare che almeno venga posto «in condizioni di sicurezza», cioè in una cella singola con adeguate protezioni sanitarie. A Vicenza oggi il detenuto divide 7-8 metri quadrati con un compagno, non è dotato di alcun presidio sanitario e anzi «è tenuto ad acquistare il disinfettante necessario per sanificare la sua cella».È evidente che l'istanza di B. M. a Strasburgo potrebbe aprire la strada a migliaia di ricorsi simili. La Cedu ha chiesto al governo italiano di indicare anche quale sia il tempo che occorre in media al Tribunale di sorveglianza di Venezia per decidere su reclami simili a quello presentato da B. M.. Ha chiesto anche se il magistrato che gli ha negato gli arresti domiciliari, nella sua decisione, abbia preso in considerazione «l'eccezionale crisi sanitaria in corso» in Italia. Si vedrà ora che cosa risponderà il ministro Bonafede, e che cosa poi deciderà la Corte di Strasburgo. Ghini e Di Credico sostengono che il tema del rischio di un grave contagio in carcere non è mai stato affrontato prima dalla Corte di Strasburgo: «Si tratta di una questione che riguarda la tutela dei detenuti», sostengono i due avvocati «cioè soggetti tra i più fragili e vulnerabili, e affidati allo Stato: proprio per questo il governo deve disporre una tutela adeguata».
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