2024-07-08
Leonardo Manera: «Far ridere gli altri non dà la felicità»
Leonardo Manera (www.leonardomanera.com)
L’artista: «Noi comici viviamo tutti un’inquietudine di fondo. Da giovane ho fatto cabaret nei locali di scambisti, non distrarsi era difficile. Non tutti lo raccontano, però molti della mia generazione hanno cominciato così».«Non solo Zelig», recita il suo sito internet. Leonardo Manera lo puoi trovare ogni mattina su Radio 24 - da settembre - con i monologhi a tutto campo nel programma Uno nessuno 100Milan. E poi lo trovi sui palchi di tutta Italia. Questa sera per esempio è a Milano a Palazzo Sormani, ospite di una rassegna curata dal Teatro Menotti, che ha messo in calendario il suo Homo modernus. Ovvero l’uomo che si alza al mattino e mangia sano ma non ne è gratificato, nell’illusione del cibo ideale. Fa la differenziata sentendosi in colpa se non è perfetta. Sta sui social per ore, forse per dimenticare che il lavoro non lo soddisfa. Non ha tempo per pensare e a sera si chiede se valga ancora la pena sorridere alla vita.Ne vale la pena?«È il mio lavoro, ed è un dono. Come ha detto il Papa qualche giorno fa a noi comici per mestiere in udienza. Ha raccontato che prega ogni mattina che venga concesso a tutti il senso dell’umorismo. Dopo tanti anni, è stata una cosa bella da sentirsi dire».Si dice che il comico non sia mai felice.«Mah, in parte è vero. Quando sei sul palco c’è la realizzazione e la soddisfazione se lo spettacolo è ben riuscito. Ma è un’illusione, pensare di poter essere felici attraverso quel che si fa. È un alibi, la felicità andrebbe trovata altrove».Altrove?«Come me altri colleghi: siamo sempre alla ricerca di qualcosa di più. Non solo i comici, chiunque ha a che fare con forme artistiche o para-artistiche, per così dire. Viviamo tutti un’inquietudine di fondo».Non la spazza via nemmeno il successo?«Ma lo sa che penso di non averlo mai avuto, il successo? Mi definisco un uomo di spettacolo dalla notorietà intermedia. Se facciamo un parallelo con il calcio, sono nella parte destra della classifica di Serie A».Non male, ce ne sono di serie sotto…«Non male, ma lotto per non retrocedere. Però son contento che ho sempre fatto quel che volevo, e che faccio tutt’oggi quel che mi piace. E che mi basta per vivere».In radio ha trovato una sua dimensione.«Un bello spazio di libertà. Mi permettono persino di essere serio ed esprimere opinioni senza alcuna direttiva».Si sveglia presto…«Ecco, questo all’inizio è stato drammatico. Non mi sono mai alzato così presto la mattina, ma dai 50 anni in avanti ho dovuto imparare a essere presente a me stesso già di mattina presto».Uno dei temi a cui siete affezionati, con Alessandro Milan, è quello delle giovani generazioni.«Si dice che i genitori di una volta erano migliori, io non lo penso. Quelli della mia generazione, pur pieni di difetti, ce la mettono tutta, fanno il proprio meglio. Sì, forse sono pure troppo presenti. Con mio figlio ho cercato però un rapporto in tutti gli ambiti della vita, e probabilmente ho fatto più di quanto mio padre abbia fatto per me. C’è chi ancora dice che un tempo si metteva a posto tutto con uno schiaffo e per me è una cosa terribile». Come la presero i suoi quando scoprirono che voleva intraprendere questo tipo di carriera?«Papà era impiegato in banca, la mamma casalinga. Mi aiutò con loro forse il fatto che mio fratello già aveva intrapreso una carriera nella musica, e dipingeva anche. Quindi in qualche modo si erano abituati a un’estrazione artistica dei figli, chissà, fatto sta che non hanno mai opposto resistenza. Detto questo, in breve tempo non ho chiesto nulla e ho saputo cavarmela anche economicamente».Gavetta lunga?«Eterna. A 17 anni il primo spettacolo pagato: abitavo a Salò, sul lago di Garda, e chiesi negli hotel se potevo esibirmi la notte di Capodanno per i turisti. Una coppia di proprietari mi fece il primo provino, e mi presero».Andò bene?«Gli astanti erano così ubriachi che ridevano di gusto, ma credo per l’alcol, mica per me. Forse i proprietari non se ne accorsero: fu un inizio, girai molti degli hotel intorno al lago».Quale fu la molla che fece scattare la passione?«All’inizio fu per i giochi di prestigio. Un prestigiatore delle mie zone mi fece appassionare. Solo che poi fin dai primi spettacoli mi resi conto che quel che mi piaceva di più era se il pubblico mi dava una risposta divertita, ancor più del loro stupore. Mi piaceva la risata, ecco».Ma andò a studiare.«A Pavia l’università di Giurisprudenza. Che mi piaceva pure, ma siccome ormai facevo ogni sera cabaret nelle sue più diverse forme, anche paradossali, non riuscivo a frequentare. Ed era la cosa che mi piaceva di più. Sei esami e ho lasciato».Dal mago comico, ai palchi di Milano, e poi alla tv.«Per 12 anni ho fatto giochi di prestigio, poi però li ho abbandonati. Senza, sarebbe stato difficile mantenermi: non sa quante feste di bambini ho animato».Rumorose.«A un certo punto non ne potevo più, son sincero. I genitori non vedono l’ora di sbolognare i figli per un paio d’ore all’intrattenitore, e all’inizio ti dai anche da fare per tenerli calmi, ma tra grida e urla inizi a soccombere (ride, ndr)».Altri lavori?«Ah, moltissimi, ma sempre nell’ambito dello spettacolo. Ho fatto anche il finto cameriere ai matrimoni».Finto?«Mi vestivo da cameriere di tutto punto, e all’insaputa degli ospiti facevo delle gag, senza farmi scoprire. Per esempio, servivo da bere, ma bevevo io. Alcuni si arrabbiarono molto, ci sono state volte che han quasi cercato di picchiarmi».È andata avanti a lungo, la sua performance ai pranzi di nozze?«Di matrimoni ne avrò fatti un centinaio». Tanti. «Pure troppi, mi sa. E raramente ho visto sposi felici».Fu il lavoro peggiore?«Non ne esiste uno peggiore, per me. Fa parte tutto del mio percorso. Nel 1989 - frequentavo i corsi di mimo alla scuola «Quelli che il Grock» - ero in grado di pagarmi l’affitto a Milano in un monolocale sui Navigli. Di quelli che il letto viene giù dall’armadio perché altrimenti non ci sarebbe spazio, e costava 450.000 lire al mese. Ma riuscivo a vivere, quindi va benissimo. Però un lavoro davvero curioso c’è. Più ancora del presentatore di spogliarelli, che pure ho fatto».Ovvero? Qual è?«Il cabaret nei locali di scambio di coppia».Si usa ancora?«Non so, sinceramente. Ho smesso di frequentare quando ho smesso di fare quel tipo di esibizione».Come si svolgeva la serata?«Prima di dare il via alle danze, per così dire, e cioè di aprire il privé, erano previsti una ventina di minuti di spettacolo».Spettatori attenti?«Ricordo che c’erano alcuni esibizionisti che iniziavano già a spogliarsi. Quindi mi esibivo davanti a gente nuda. E poi è capitato ci fosse chi iniziava già ad accoppiarsi in un angolo della sala e il problema era riuscire a non distrarsi».Inviti?«Ovviamente accadeva, talvolta. Ma ero lì per lavoro e toccava rifiutare e andar via».Erano locali a Milano?«Ricordo uno in zona Navigli, un altro a Binasco, uno a Cinisello Balsamo… Non so se tutti lo raccontano, ma tanti della mia generazione di comici hanno iniziato così. Era lavoro garantito».Oggi sembra così a portata di mano il successo…«Chissà, forse lo è. Noi di gavetta abbiamo dovuta farne davvero tanta. Non mi dimenticherò mai però delle serate passate facendo spettacolo per strada. Quella sì che era una bella esperienza. Chi si fermava, e si creava un cerchio intorno a te. Una sensazione di libertà, come se si potesse vivere senza aver bisogno di altro».Si racimolava abbastanza?«Altroché: ho fatto spettacoli di strada nelle estati del ’91 e ’92 se ben ricordo, e si facevano anche 100.000 lire al giorno. Si conoscevano persone, sempre diverse… Un’esperienza estremamente positiva». I comici riempiono i teatri. Sempre più spesso sono fenomeni che nascono dai social. Che ne pensa della stand up comedy?«Che c’era già con Paolo Rossi, e ora si chiama semplicemente in modo diverso. Forse è un modo per le nuove generazioni di marcare una differenza rispetto a noi. Come in tutte le cose, però, vedi con la musica ad esempio, chi inizia vuole sempre dichiararsi nuovo rispetto al passato. Accade poi che ci si istituzionalizza». Sembra non apprezzarli?«No, figuriamoci. Constato soltanto che i social hanno linguaggi molto diversi dallo spettacolo dal vivo. Sono un’altra forma di comunicazione, è anche ovvio. E così la battuta in un breve video funziona, poi bisogna vedere se si regge un’ora e mezzo di spettacolo».«Adriana, Adriana». «Fluoro». Suoi sono alcuni tormentoni. Una sua ossessione?«Mai stata a dire il vero. Prenda “fluoro”, mica lo avevo deciso che sarebbe diventata famosa. Succede così, che in una puntata lo citai e poi lo tenni, e capitò che la gente me lo ripeteva per strada».Personaggi preferiti?«Sono particolarmente affezionato al cinema polacco di Petrektek e Kripztak che abbiamo portato a Zelig con Claudia Penoni». Che secondo Google - se si digita il suo nome - è sua moglie, ma non è così. «Ah no, non lo è, è una bravissima collega ma tra l’altro io non ero nemmeno sposato, e convivevo. Però appunto non con Claudia».Perché quei due del cinema polacco le sono rimasti dentro?«Questione di linguaggi: siamo riusciti a portare in televisione, che di solito ne ha uno veloce e direi aggressivo, un pezzo con un ritmo invece molto pacato. Originale sicuramente. E ha funzionato, questo mi rende contento. Significa che vale sempre la pena di percorrere strade poco battute».
Volodymyr Zelensky (Getty Images)