2023-05-07
L’emergenza passa, gli sfacciati no. E dopo i disastri vogliono gli applausi
Marta Cartabia (Imagoeconomica)
Per Giuseppe Remuzzi, siamo usciti «migliori» da questi tre anni. Marta Cartabia, che lavorò alla norma contro i sanitari renitenti, ciancia di «giustizia che ricuce». E lo schiaffo a Conte suggella l’autogiustificazione dell’ex regime.La «vittoria della scienza», il «vaccino in otto mesi», i «gesti semplici per la protezione individuale». Con la fine dell’emergenza Covid, decretata dall’Oms, il professor Giuseppe Remuzzi sembra tornato all’ottimismo fesso degli slogan del primo lockdown: «Andrà tutto bene», «Ne usciremo migliori». E infatti, dice lui, «ne siamo usciti migliori». Non scalfiti dai «quasi 160.000 morti nel mondo per cause inerenti» alle iniezioni antivirus. Più forti persino della «vasta opposizione ai vaccini», come la chiama il Corriere della Sera.Su quella, anzi, dopo il tentato ceffone del no vax a Giuseppe Conte, è arrivata la quadratura del cerchio: il gesto di un cretino è stato trasformato nell’occasione per mettere nello stesso calderone chi credeva che con le siringhe ci iniettassero microchip e chi - per citare giusto alcune delle legittime perplessità sulla campagna di inoculazioni - ritiene che i giovani sani potessero non essere perseguitati con l’apartheid del green pass, o che l’Aifa avrebbe potuto spendersi per una farmacovigilanza un po’ meno pigra e reticente. Niente: chi osa criticare è della medesima risma di Giulio Milani, il sedicente «ex elettore M5s» ed «ex militante deluso» che ha provato ad assestare uno sganascione «pedagogico» a Giuseppi. Peraltro, chiarendo che il suo affronto - riprovevole, scellerato, idiota - nulla aveva a che fare con i vaccini, bensì con i dpcm che condannarono gli italiani ai domiciliari. Da innocenti. Non che Remuzzi pretenda di occultare proprio ogni prova del grande pasticcio pandemico. Il verdetto assolutorio non sarebbe verosimile: qualche autodafé, qualche mea culpa rendono più credibile il bilancio lusinghiero di un triennio orribile. Basta che gli errori siano veniali - le «trasmissioni che hanno confuso le idee», i medici che si sono «prestati al gioco», la difficoltà degli esperti nell’ammettere che non avevano certezze, bensì «gradi di probabilità» - e i meriti, a cominciare dal miracoloso farmaco immunizzante, siano di portata storica. Quando, però, l’esame di sbagli e responsabilità si fa serio, bisogna diventare improvvisamente abbottonati. Così, interpellato sul mancato aggiornamento del piano pandemico, il ricercatore mette le mani avanti: «Non voglio entrare nel merito delle questioni giudiziarie». E getta acqua sul fuoco, sostenendo che «stabilire se c’era o non c’era il piano pandemico per l’influenza non ha molto senso, anche perché il Covid è ben altra cosa. Se fosse stato aggiornato invece che essere fermo al 2006, non avrebbe cambiato nulla, non avrebbe comunque previsto il distanziamento e altre misure poi messe in atto». Già: non le avrebbe previste, perché erano inutili. Erano inutili le serrate lunghe e prolungate, era inutile la carta verde, era inutile il ricatto della didattica a distanza per i ragazzini che non stavano al passo con le dosi di richiamo. Basta ripercorrere il film del 2020 e del 2021: i picchi di ricoveri in rianimazione sono arrivati dopo le chiusure e dopo che sono partite le punture a tappeto. Un programma d’intervento rimesso in regola ci avrebbe risparmiato alcune delle più imbarazzanti manifestazioni di dilettantismo di tecnici e politici. Per esempio: avremmo saputo subito quanti posti letto in terapia intensiva avevamo, anziché affidarci ai conteggi sballati in mano all’Iss, riportati nelle carte dell’inchiesta di Bergamo, o al «piano segreto» del Cts. D’altronde, sulle colonne di un altro giornale, Il Messaggero, Gianni Rezza, già direttore della Prevenzione al ministero, confermava che «dobbiamo avere sempre piani pandemici aggiornati, per farci trovare pronti la prossima volta». Il nocciolo della questione lo mostra, con franchezza, Maurizio Crippa sul Foglio, compatendo l’ex premier giallorosso per la doppia ingiustizia che sarebbe costretto a subire: prima l’aggressione, poi l’interrogatorio del 10 maggio, «per la demenziale inchiesta sul Covid». È lì che vogliono andare a parare: non ci sono colpevoli. Non ci sono reati. Almeno, responsabilità politiche? Almeno, l’indagine parlamentare è legittima? Siamo la democrazia della tanto sbandierata trasparenza, oppure il regime delle grandi rimozioni?Non incoraggia gli amanti della ricerca della verità la prova da equilibrista di Marta Cartabia. L’ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta, ieri, ha meritato un trafiletto sul quotidiano di via Solferino per il dibattito alla Civil week, dove la giurista ha illustrato la sua concezione di una giustizia modellata sull’opera di «ago e filo, che ricuciono relazioni e danno una nuova speranza». Si tratta della «giustizia riparativa», quella che «non fa sconti sulla pena», però ne «umanizza l’espiazione, restituendo dignità a chi ha sbagliato e un senso al dolore delle vittime». Un ragionamento nobile e alato, elaborato da colei cui Mario Draghi attribuì il compito di lavorare alla norma con la quale medici e infermieri non vaccinati sarebbero stati privati di lavoro e stipendio. Fino a quando il governo Meloni non li ha reintegrati, con un mese d’anticipo rispetto alla scadenza naturale del decreto, tenuto in piedi per oltre un anno, di proroga in proroga.Alla fine, è questo che spaventa, più degli sforzi sovrumani - e anche un po’ grotteschi - di scongiurare una resa dei conti: il virus Covid che passa, il metodo Covid che resta. Prendete l’Europa: riforma l’agenzia del farmaco e dimezza i tempi di approvazione dei medicinali, sulla scorta dell’iter semplificato adottato con i vaccini a mRna. E, per restare negli ambienti familiari alla Cartabia, pensate alla Corte costituzionale: misericordia con carcerati ed ergastolani, inflessibilità con chi rifiuta un trattamento sanitario. Se l’eredità della pandemia è questa, possiamo esserne certi: ne siamo usciti migliori. Più buoni, più bravi, ricchi, ricchissimi, praticamente in mutande.
Pier Luigi Lopalco (Imagoeconomica)
Nel riquadro la prima pagina della bozza notarile, datata 14 novembre 2000, dell’atto con cui Gianni Agnelli (nella foto insieme al figlio Edoardo in una foto d'archivio Ansa) cedeva in nuda proprietà il 25% della cassaforte del gruppo