2020-11-24
Le Regioni alpine contro il governo: «Stagione senza sci? Un suicidio»
Giuseppe Conte e Roberto Speranza orientati a tener chiusi gli impianti, a rischio un comparto che muove 3 miliardi l'anno. Gli assessori competenti protestano con l'esecutivo. Ma Andrea Orlando e il premier li gelano: «Idea irricevibile».«La Verità» ha avuto i dati sui luoghi in cui sono decedute le vittime della pandemia. Solo il 9,7% è spirato in terapia intensiva, mentre la metà era nei reparti ordinari.Lo speciale contiene due articoli. «La riapertura delle piste da sci? Se le cose si fanno in sicurezza, tra l'altro all'aria aperta, credo si possa fare. Non vorrei che ci castrassimo anche su questo, chiudendo piste in Italia quando magari restano aperte quelle in Francia o in Svizzera così le persone andrebbero a sciare lì». Parole di buon senso, quelle dell'infettivologo Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, che a Radio Uno commenta con equilibrio e pacatezza il tema della riapertura delle piste da sci, ennesima grana che il governo del caos, quello guidato da Giuseppe Conte, non è in grado di risolvere, ostaggio dei rigoristi a oltranza guidati dal ministro della Salute, Roberto Speranza. Già, Speranza, il ministro che non è riuscito a preparare l'Italia alla seconda ondata e che, invece di trarne le conseguenze e dimettersi, ora tiene in ostaggio circa 120.000 lavoratori del comparto sciistico, settore economico che ha un volume d'affari, indotto compreso, di circa 3 miliardi di euro l'anno. Le indiscrezioni relative al prossimo dpcm di Conte, che dovrà essere firmato il 4 dicembre, il giorno dopo la scadenza di quello attualmente in vigore, segnalano la volontà del premier e di Speranza di tenere chiusi gli impianti, con conseguenze drammatiche per il settore. Una scelta che le Regioni del Nord, quelle più interessate dall'argomento, contestano con vigore. Gli assessori competenti delle Regioni alpine hanno inviato una lettera al governo nella quale chiedono di aprire gli impianti anche agli sciatori amatoriali, seguendo i protocolli di sicurezza approvati dalla Conferenza delle Regioni. Il documento è stato firmato da Martina Cambiaghi (assessore allo Sport e Giovani della Regione Lombardia), Daniel Alfreider (vicepresidente della Provincia autonoma di Bolzano), Luigi Giovanni Bertschy (vicepresidente della Regione Val d'Aosta), Sergio Bini (assessore al Turismo della Regione Friuli Venezia Giulia), Federico Caner (assessore al Turismo della Regione Veneto), Roberto Failoni (assessore al Turismo della Provincia autonoma di Trento) e Fabrizio Ricca (assessore allo Sport della Regione Piemonte).«Pur con la piena consapevolezza», scrivono gli assessori, «delle difficoltà e delle incertezze dettate da questo difficile momento, tutto il sistema turistico sta lavorando alacremente per un avvio in sicurezza della stagione invernale con il coordinamento degli assessori agli impianti a fune di Val d'Aosta, Piemonte, Lombardia, Provincia di Trento, Provincia di Bolzano, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Siamo tutti ben coscienti delle difficoltà del momento ma vogliamo e dobbiamo guardare al futuro con atteggiamento positivo, consapevoli soprattutto dell'importanza che l'industria dello sci ricopre per l'economia italiana. Grazie all'approvazione delle linee guida per gli impianti sciistici potremo garantire un avvio in sicurezza della stagione invernale». Più lapidario Luca Zaia: «Una stagione senza sci per la nostra montagna sarebbe un suicidio», mentre il vicesegretario del Pd Andrea Orlando, al contrario, parla di proposta «irricevibile» e di «demagogia irresponsabile». Dello stesso parere, per l'appunto, sembra anche Conte: «Non possiamo concederci vacanze indiscriminate sulla neve», ha detto il premier a Otto e mezzo.Le «linee guida per l'utilizzo degli impianti di risalita nelle stazioni e nei comprensori sciistici», approvate ieri dalla Conferenza delle Regioni, verranno sottoposte nelle prossime ore al Comitato tecnico scientifico e al governo per tentare di trovare un punto di equilibrio tra la tutela della salute e quella dell'economia. Questo regolamento, è bene sottolinearlo, prevede comunque la chiusura degli impianti per gli sciatori amatoriali nelle regioni rosse. In quelle gialle e arancioni, invece, si prevede di adottare stringenti misure di sicurezza. Le principali: obbligo di indossare la mascherina chirurgica sotto lo scaldacollo; riduzione del 50% di presenze in funivie e cabinovie rispetto alla capienza massima, che resta al 100% per le seggiovie; tetto massimo di skipass giornalieri; acquisto online di biglietti per evitare le code; distanziamento interpersonale di un metro in tutte le fasi precedenti il trasporto dei turisti; l'après-ski, ovvero lo svago al di fuori delle piste con aperitivi e spuntini, sarebbe consentito solo con posti a sedere nel rispetto delle regole già definite nei protocolli sulla ristorazione e pubblici esercizi. «Sarebbe una brutta notizia», sottolinea a Rai Radio Uno il campione di sci altoatesino Gustav Thoeni, che gestisce un albergo in provincia di Bolzano, «non aprire piste da sci, noi viviamo di questo. Si può sciare in sicurezza, al massimo sono più le funivie il problema». «Riaprire le piste da sci», dicono all'Ansa Alberto Tomba e Federica Brignone, la leggenda dello sci azzurro e la campionessa attuale, «per dare un segnale al Paese e salvare un settore dal fallimento certo. È molto importante che gli impianti aprano a Natale, perché sarebbe un segnale positivo per tutti. Altrimenti, con le stazioni chiuse, il danno sarebbe irreparabile. Nello sci il distanziamento non è certo un problema. Le piste vanno aperte». Nella vicina Svizzera gli impianti sono aperti, con rigide misure di sicurezza.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-regioni-alpine-contro-il-governo-stagione-senza-sci-un-suicidio-2649021163.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-lombardia-1-su-4-e-morto-in-casa" data-post-id="2649021163" data-published-at="1606167725" data-use-pagination="False"> In Lombardia 1 su 4 è morto in casa Ogni giorno siamo sommersi da numeri e grafici sul Covid, eppure inspiegabilmente manca una statistica ufficiale – sia a livello nazionale che locale – che ci permetta di capire quante persone muoiano in ospedale, in casa o nelle residenze per anziani. Noi della Verità siamo riusciti a ottenere in esclusiva lo spaccato dei decessi nel dettaglio da parte della Regione Lombardia, un territorio che da solo rappresenta un quinto della popolazione italiana e il 40% dei morti totali per coronavirus. Partiamo dalle famigerate terapie intensive, da sempre nell'occhio del ciclone. Entrando nel dettaglio dei numeri, si scopre che dei 19.706 morti registrati in Lombardia dall'inizio della pandemia fino al 17 novembre, 1.909 sono occorsi in terapia intensiva. Una cifra pari al 9,7% del totale e al 16,1% dei decessi complessivi in ospedale. Se consideriamo che il dato tiene conto sia della prima che della seconda ondata, e che i posti letto di terapia intensiva disponibili in Lombardia sono circa un migliaio, anche tenuto conto del «fattore ricambio» ci si sarebbe aspettato un numero di decessi sensibilmente superiore. Questa informazione sembra confermare le parole pronunciate ai primi di novembre dal professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell'Istituto Mario Negri di Milano e considerato uno dei più importanti ricercatori italiani: «I numeri dicono che i morti non vengono dalla terapia intensiva». E allora, da dove derivano? Da dove meno ci si aspetta. La fredda realtà dei numeri dice che la metà (50,4%) dei decessi totali proviene dai reparti ordinari. Sono ben 9.944 i pazienti spirati in corsia, pari a 8 decessi su 10 occorsi all'interno di una struttura ospedaliera. Una proporzione impressionante, che descrive con efficacia la pressione che medici e sanitari stanno subendo non solo nei reparti acuti, ma anche in quelli solitamente destinati alle terapie «normali». La restante quota, pari a 4 decessi su 10, riguarda poi le Rsa (2.890 morti, pari al 14,7%) e le abitazioni private (4.963 morti, pari al 25,2%). Numeri la cui interpretazione è tutt'altro che semplice. Al netto del problema ben noto delle strutture residenziali, specie nel corso della prima ondata, colpisce il dato assai elevato riferito ai morti a casa. Riguardo a questa categoria di persone, la Regione Lombardia precisa che pressoché nella totalità dei casi la positività al coronavirus è stata accertata prima del decesso. Nella giornata di ieri, anche a seguito di sollecitazione del nostro quotidiano, il governatore della Regione Veneto, Luca Zaia, ha deciso di rivelare in conferenza stampa il dettaglio dei morti per luogo di decesso. Sommati a quelli lombardi, ci permettono di scattare una fotografia relativa a un quarto della popolazione italiana e alla metà dei decessi per Covid in tutto il Paese. La quota di persone decedute in ospedale arriva al 70,4%, e risulta superiore rispetto alla Lombardia sia per ciò che concerne i reparti ordinari (1.719 morti, 56,2% del totale), sia per le terapie intensive (434 morti, 14,2% del totale). Nemmeno in questo caso però il dato delle aree «critiche» raggiunge i livelli temuti. Decisamente inferiore la percentuale di decessi al proprio domicilio (4,7%), mentre preoccupa il dato delle Rsa, pari al 22,8% del totale. Nel marasma dei numeri una cosa appare chiara: occorre indagare a fondo per comprendere il luogo esatto in cui avvengono i decessi per Covid. «Dobbiamo capire da dove vengono i morti per capire dove intervenire», sempre per usare le parole del professor Remuzzi, «potrebbero essere dalle Rsa, e lì dobbiamo mettere un impegno enorme, ma anche persone che muoiono per essere arrivate in ospedale per le malattie per cui si arriva normalmente e che sono positive al Covid».
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