2023-02-16
Le giuste istanze dei giovani annegate nel lamento
«La Stampa» trasforma in un manifesto generazionale il discorso di una studentessa all’ateneo di Padova. Dietro la denuncia di problemi reali emergono la paura di competere e le pretese nei confronti dei più grandi. Il piagnisteo però inibisce la lotta.La scrittrice francese Caroline Fourest l’ha ribattezzata «generazione offesa», e non è andata molto lontano dal vero. «Negli atenei, in questi templi del sapere, regna ormai il terrore di mangiare e persino di pensare», ha scritto. «Ci si irrita al minimo disaccordo, che è vissuto come una “microaggressione”, a tal punto da esigere dei “safe space”. Luoghi sicuri, tutti per sé, in cui si impara a scappare dall’alterità e dal confronto». In effetti, ascoltando con attenzione ciò che le nuove generazioni - o, meglio, quanti sono scelti dai media per rappresentarle - hanno da dire, è facile pensare che la cifra dei trentenni e ventenni odierni sia il lamento. «L’isteria collettiva a cui assistiamo», prosegue la Fourest, «è dovuta in significativa parte alla suscettibilità, estremamente eccitabile, delle nuove generazioni. E di più ancora al fatto che è stato loro insegnato a lamentarsi per dimostrare di esistere. […] Le società contemporanee hanno messo lo status di vittima sul primo gradino del podio».Le impressioni dell’intellettuale francese appaiono quasi totalmente confermate dal discorso che Emma Ruzzon - 23 anni, studentessa di lettere - ha tenuto lunedì all’inaugurazione dell’anno accademico dell’università di Padova, e che ieri è stato pubblicato quasi integralmente dalla Stampa, presentato come un grido d’aiuto dei proverbiali «giovani d’oggi». Da una parte, si tratta dell’ennesima espressione dell’attuale feticismo per l’infante, indicato dai più come la «voce della purezza» che ha diritto di puntare il dito contro la corruttela degli adulti (una delle manifestazioni più visibili di questa tendenza è il peso politico conferito in questi anni a Greta e ai suoi più o meno esaltati discepoli). D’altro canto, tuttavia, risulta estremamente interessante addentrarsi nel ragionamento della ragazza, che esibisce una confusione ideologica piuttosto comune e un filo disturbante.Il suo intervento prende le mosse da alcuni fatti di cronaca oggettivamente drammatici, tra cui il recente suicidio di una studentessa milanese che recentemente si è tolta la vita. «Siamo stanchi di piangere i suicidi dei nostri coetanei», grida Emma Ruzzon. «A noi studenti viene richiesto di eccellere nella precarietà e con aspettative asfissianti. Non si tiene conto dei tempi di ognuno di noi né degli ostacoli economici e sociali». Sotto vari punti di vista, Emma ha pienamente ragione: i ragazzi di oggi, rispetto alle leve immediatamente precedenti, si trovano in una situazione deprimente. Gli affitti delle case, la carenza di lavoro, la tragica mancanza di prospettive per il futuro, il costo della vita che aumenta: sono fattori che pesano, e non poco, sulle esistenze di tanti. Sono problemi reali che svelano la crisi profonda della nostra nazione, e che meriterebbero d’essere presi di petto.Purtroppo, però, la soluzione proposta da Emma Ruzzon e le conclusioni del suo discorso risultano perfino dannose al fine di migliorare il quadro. La fanciulla pretende che «tutte le forze politiche presenti si mettano a disposizione per capire, insieme a noi, come attivarsi per rispondere a questa emergenza, ma serve il coraggio di mettere in discussione l’intero sistema merito-centrico e competitivo». Poiché esistono ingiustizie e diseguaglianze, ci dice la studentessa, la soluzione non è lottare per cancellarle, ma intimare alle istituzioni di «mettersi a disposizione» (comandi!) per eliminare ogni difficoltà presente sul percorso dei giovani. Anzi, a ben vedere anche questa è una modalità di lotta: una battaglia condotta tramite il lamento, il che è molto triste.A Emma, come a numerosi altri attivisti suoi coetanei, sembra sfuggire una amara realtà: che la sofferenza, il dolore, la stanchezza, la debolezza e la sconfitta costituiscono una parte rilevante dell’esistenza umana. E la pretesa di eliminarle è semplicemente folle. Ovviamente, i ragazzi che esprimono posizioni simili non sono del tutto colpevoli: sono figli di una cultura che li ha convinti di avere una sorta di diritto a godere delle gioie del mondo, senza compiere sforzi per guadagnarle. È la stessa cultura, giusto per portare un esempio recente, che ha dominato sul palco di Sanremo: una sfilata di giovani donne belle, ricche, di successo che si lamentavano delle proprie disgrazie e delle difficoltà che sono costrette a sopportare ogni giorno, una lagna disperante.Attenzione: è sacrosanto pretendere che si tenga conto di chi non ce la fa, di chi rimane indietro. Ci sono ottime ragioni per combattere la «tirannia della valutazione» e per opporsi alle logiche hobbesiane di guerra di tutti contro tutti (tipiche dell’immaginario neoliberale). Ciò non significa, però, abbandonarsi alla pigrizia esistenziale oggi tanto pubblicizzata, caratteristica del bambino viziato che pesta i piedi per ottenere dalla mamma ciò che vuole. Non è una immagine scelta a caso: a prescindere dalle scemenze che si odono a proposito del patriarcato imperante, quella in cui viviamo è una società ipermaterna che incentiva tutti gli aspetti negativi del femminile e ci consegna all’inettitudine. Come ha notato Gilles Lipovetsky, oggi l’imperativo è quello di «essere sé stessi» (non è forse la frase più ripetuta in ogni film o serie televisiva per giovani adulti?). La cultura occidentale, al contrario, origina da un’altra ambizione: quella di «conoscere sé stessi», cioè «diventare chi si è». La differenza è sottile, ma fondamentale. La conoscenza di sé prevede un percorso, che di solito contempla numerose difficoltà e vari riti di iniziazione: un passaggio al bosco, cioè un confronto diretto con il buio, la paura, l’errore e la morte. Affrontare tale sentiero consente di diventare consapevoli della finitezza e dei limiti dell’uomo, e dunque - volendo - più caritatevoli nei confronti di chi sbatte contro un destino avverso. Allo stesso tempo, il percorso di individuazione tempra, dà forma a ciò che è liquido e caotico.In sintesi, l’intera cultura dell’Occidente - che origina dai combattimenti svolti nella palestra platonica e dalle ferite della croce - è basata sull’allenamento. Non sulla competizione per il potere e l’arricchimento sfrenato, non sulla soppressione dell’avversario, ma sul miglioramento di sé attraverso (anche) la fatica. Dall’inizio dei tempi, l’aspirazione del genere umano è quella di eliminarla, questa fatica, e di sfuggire alla presa della morte. Ma del fatto che il tentativo sia destinato al fallimento abbiamo una montagna di prove: le ultime ce le hanno fornite la gestione paranoica della pandemia (con la pretesa di giungere all’irraggiungibile «rischio zero») e l’atteggiamento dei riguardi della guerra in Ucraina (si combatta pure fino all’ultimo uomo, a patto che battersi e morire non tocchi a noi).Ebbene, non stupisce che i giovani allevati in questo brodo abbiano assunto il lamento come forma espressiva. Non si rendono nemmeno conto che, in realtà, stanno facendo il preciso gioco del sistema che tanto li angoscia. Si battono per l’ambiente con terribile ansia non per «cambiare il mondo», ma per conservare quello attuale, perché temono che il futuro non sia confortante come il benessere in cui sono cresciuti. Rifiutano la competizione, ma le consentono di prosperare cambiando di segno: oggi lo scontro è fra gruppi lamentosi e passivo aggressivi, quello che piange di più trionfa a spese degli altri. Il piagnisteo inibisce la lotta, trasforma la rabbia in depressione, confonde gli obiettivi.La buona battaglia contro l’ingiustizia richiede generazioni allenate, che, invece di pretendere, prendano. E che siano libere di mostrarsi sensibili e fragili, libere di piangere se vogliono. Ma non di piagnucolare.