2019-05-03
«Le fiction televisive sono diventate meglio del cinema»
Il regista della serie rivelazione La porta rossa: «“Gomorra" è geniale, ma è sbagliato trasformare dei camorristi in eroi».Cosa c'entrano Giorgio Strehler e il Piccolo Teatro di Milano con Il commissario Montalbano, la serie monumento della tv italiana, e La porta rossa, la serie rivelazione delle ultime stagioni televisive? I registi delle due serie, Alberto Sironi e Carmine Elia, hanno entrambi cominciato la loro carriera al Piccolo Teatro, apparentemente quanto di più lontano dal linguaggio televisivo contemporaneo. Ma le strade della fiction, in quest'epoca d'oro della narrazione a puntate, sono infinite. Ne parliamo con Elia, regista dalle grandi capacità visive.Com'è nata La porta rossa?«La porta rossa è un progetto che è nato dalla penna di Carlo Lucarelli e Giampiero Rigosi, con la collaborazione di Sofia Assirelli. Nasce come serie gotica, dove un commissario deve scoprire chi lo ha ucciso. La Rai ha cercato di portare il progetto il più possibile all'interno del linguaggio generalista. È rimasto il concetto gotico, noir, mistery, ma si è scaldato attraverso il personaggio di Vanessa e attraverso elementi che potessero rendere la storia meno cupa, per dare alla storia una fruibilità più vicina ai temi della televisione generalista».Quando ha letto la sceneggiatura, ha avvertito subito le potenzialità della serie?«Io stavo finendo di girare Il sistema. Mi è stata mandata «la bibbia» de La porta rossa, l'ho letta e l'ho trovata geniale. La paura di tutti è che potesse diventare una storia banalotta, un ghost all'italiana, e invece dalla prima lettura mi sono reso conto di avere in mano una storia potentissima. Era un miscuglio di generi, però quello prevalente era il mistery». Il successo della serie è legato alla forza dei personaggi.«Tutti i personaggi della serie sono “rotti": non c'è un buono, non c'è un cattivo, hanno sfaccettature diverse e gli spettatori possono riconoscersi in loro. Anche il protagonista, Cagliostro, è un personaggio che sbaglia, è un antieroe, tradisce la moglie, non ha il coraggio di dirle “ti amo", quando lei gli dice per finta che è incinta, e poi lo è realmente, lui reagisce come se gli crollasse la casa addosso. Qui è la grandezza di Rigosi e Lucarelli: la capacità di sviluppare dei personaggi, non farli diventare monodimensionali, ma tridimensionali».La sensazione è che il successo della serie sia stato decretato dal pubblico giovanile, solitamente distante dalla televisione generalista.«La cosa positiva è che avuto successo sia con il pubblico generalista sia sulla piattaforma Rai Play, che riguarda più i giovani».Un altro elemento fondamentale è l'ambientazione.«Trieste è chiaramente un personaggio. La scelta di Trieste è stata mia e del produttore Maurizio Tini. Gli sceneggiatori avevano pensato a Bologna, poi a Torino, invece io e Maurizio abbiamo avuto l'intuizione che ci servisse una città quasi al di fuori delle conoscenze comuni. Trieste è una città di confine, asburgica, diversa dalle città che siamo abituati a vedere in Italia, estremamente ordinata e pulita, anche dal punto di visto architettonico. C'è stato il divertimento di costruire una specie di Gotham City reale».L'ha inquadrata spesso e volentieri dall'alto, una scelta di regia molto forte.«Posso dirlo: è stata una mia scelta. Abbiamo lavorato tutti insieme, è stato un lavoro a più mani. La fortuna è aver potuto scegliere gli attori giusti».Con molti di loro aveva già lavorato.«Con Antonio Gerardi, Lino Guanciale, Gabriella Pession e Gaetano Bruno avevo già lavorato ne Il sistema. Con Elena Radonicich non avevo mai lavorato. Così come con Valentina Romani, un genio!».Come l'avete trovata?«È stata un'intuizione di Francesco Nardella, vicedirettore di Rai fiction, che mi ha segnalato questa ragazza che aveva già lavorato con loro. Mi ha detto: “Falle un provino perché secondo me è veramente notevole". Le ho fatto un provino e lei è stata straordinaria. C'è stato poco da dover discutere o da scegliere: è stato subito la nostra Vanessa».Gli altri attori?«Gabriella Pession è stata una scelta condivisa da tutti. Lino Guanciale all'inizio non lo volevano, mentre io e Maurizio Tini puntavamo su di lui, poi con grande intuizione Michele Zatta, Luigi Mariniello e Tini Andreatta di Rai Fiction hanno accettato e hanno visto in Lino il giusto mix per fare un personaggio difficilissimo. L'unica persona con cui si rapporta è Vanessa, per la quale nella prima stagione è stato il padre che non ha mai avuto, mentre nella seconda lei si innamora di lui». Il ruolo di Cagliostro implicava la difficoltà di essere presente-assente perché solo Vanessa poteva vederlo.«Io giravo la stessa scena con Cagliostro e senza Cagliostro. Quando giravo la scena con Cagliostro, la difficoltà e la bravura di questi interpreti era che loro non dovevamo mai pensare di avvertire la sua presenza se non nei momenti in cui riusciva in qualche modo a farsi sentire».Idee per la terza stagione?«C'è una grande idea, qualcosa sicuramente di potente. Io penso che la terza stagione sarà la chiusura del capitolo Cagliostro, ma non ti posso dire se passerà la porta rossa!». I suoi modelli?«Sono nato in un paesino del Salernitano, San Cipriano Picentino, ma sono cresciuto a Milano perché i miei genitori si sono trasferiti lì per lavoro, e a 1 anno sono arrivato a Milano. Mia mamma era sartina, come si dice a Milano, mio padre lavorava alla posta. Sono cresciuto milanese, anche se a Milano ero terrone, a Roma cotoletta e a Salerno nebbioso. Abitavo sopra un cinema e il mio portinaio di casa era il gestore della sala cinematografica. Mia madre, per tenerci buoni, mandava me e le mie sorelle in questo cinema e noi vedevamo film su film. Abitavamo al 13° piano, in viale Fulvio Testi, all'ex Bicocca, dove ora c'è la Scuola Civica di Milano, che ho frequentato. Avevo fatto domanda a Roma per il Centro sperimentale di cinematografia. Quando è arrivato il telegramma, mio padre ha detto: “Ti mantieni da solo"».Per il corso di regia?«Non ho mai pensato ad altro se non la regia. Però raccontavo balle ai miei amici, dicevo che volevo fare il giornalista perché mi vergognavo a dire che volevo fare il regista».Quindi ha dovuto rinunziare al Centro sperimentale di cinematografia.«Mio padre non mi avrebbe mai mantenuto a Roma. Finito il militare, una mia compagna di liceo, che è diventata la mia compagna, ha vinto il concorso al Piccolo Teatro come attrice, io ho saputo che c'era un corso di regia e mi sono iscritto. Il teatro è stato il mio primo amore. Lì ho imparato a conoscere gli attori, cosa fondamentale». La sua idea era di fare cinema o televisione?«La mia idea era di lavorare nel settore. Ho iniziato a girare cortometraggi alla Scuola di Cinema, quindi, dopo un po' di pubblicità, ho fatto prima l'assistente alla regia e poi l'aiuto sul set di Cascina Vianello, che giravano a Milano per la regia di Gianfrancesco Lazotti. Sono venuto a Roma per Linda il brigadiere 2 e ho cominciato a conoscere vari registi. Alla fine, dopo moltissima gavetta come aiuto regista, grazie a Luca Bernabei della Lux Vide ho esordito nella quinta edizione di Don Matteo. Il mio primo grande lavoro è stato Ho sposato uno sbirro con Flavio Insinna, dopodiché ho diretto le serie Terapia d'urgenza, La dama velata, Il sistema». Per Il sistema, un intreccio di criminalità e alta finanza, a cosa vi eravate ispirati?«Sandrone Dazieri e Walter Lupo sono due autori capaci nello scrivere l'action. L'idea era quella di raccontare una storia noir, dove il bene e il male fossero mischiati, con in evidenza una dark lady, Gabriella Pession. Non è stata fatta la seconda stagione per una questione di costi, però penso che sia stata una serie coraggiosa per una rete generalista».Avete tratto ispirazione dallo scandalo di Mafia Capitale?«No. Dazieri ha avuto la grande intuizione di raccontare il marcio nella politica di Roma prima che venisse fuori lo scandalo».Poi è arrivata Suburra...«Suburra aveva altri mezzi. Calcola - questa è una cosa che non si dice mai - che se Suburra e Gomorra costano 2,5 milioni per un episodio di 100 minuti, La porta rossa costa 1,3-1,4 milioni. I tempi di realizzazione sono meno larghi e questo fa la differenza. La ricchezza di un regista è il tempo».Quanti giorni di riprese impiegate per fare 100 minuto di prodotto finito?«Tre settimane e mezzo a puntata circa. Sono 20 settimane di riprese per 600 minuti complessivi».Delle fiction italiane quale le è piaciuta?«Ho visto Il nome della rosa: è un'operazione coraggiosa, ha più chiavi di lettura, un racconto filosofico marcato di giallo. In Italia non è andata benissimo, ma all'estero ha avuto successo».Lei l'ha apprezzata?«Sì su tanti aspetti, nì su altri. In alcuni momenti il protagonista, John Turturro, si è mangiato il libro, invece il protagonista di questa serie doveva essere il libro. Ho trovato una messinscena molto classica, molto giusta per il racconto, però forse cercare troppo classicismo ha appesantito qualcosa già pesante».E invece Gomorra?«Io trovo che Gomorra sia un esempio alto di fiction italiana nel mondo. L'unica critica che posso fare a Gomorra... la messinscena è geniale, la scelta degli attori, eccetera, però trovo che far diventare eroi dei camorristi sia una cosa che un po' dà fastidio».Bisogna allora tornare indietro a Romanzo criminale, che ha creato una mitizzazione dei componenti della Banda della Magliana.«Idem, però, mentre in Romanzo criminale sentivi che c'era un burattinaio che tirava i fili e una ragione di Stato, in Gomorra c'è la rappresentazione della cattiveria e della violenza, sembrano degli eroi, ma sono eroi che ammazzano. La Marvel fa dei superoi mettendo dentro la psicologia, la filosofia, dietro c'è un pensiero, mentre in Gomorra si sente un'esagerazione, soprattutto nell'ultima stagione dove i personaggi sono quasi delle macchiette di sé stessi». Limite pure di Suburra.«Certo. Bisogna avere il coraggio di raccontare delle storie. Faccio degli esempi. The Night of è un capolavoro. Racconta la vita carceraria, ma ci sono più chiavi di lettura, il carcere è un pretesto. Faccio un altro esempio, una delle più belle serie televisive, True detective, fa vedere quella che è stata l'America e quello che non è più, descrivendo con il meccanismo del giallo la provincia americana. River è un'altra serie da cui ho attinto a piene mani. L'operazione della Bbc è stata geniale. Noi dobbiamo avere il coraggio di raccontare le nostre storie, non dobbiamo scimmiottare un codice che non ci appartiene. Bisognerebbe imitare i nostri grandi registi, Sorrentino, Virzì, che per me sono dei geni, anzi copiamoli, perché imitare è sbagliato, devi saper copiare! Brian De Palma prendeva la scena di un grande film, la copiava, poi la camera si muoveva e diventava la sua scena. Bisogna avere il coraggio di saper copiare bene. Dopo Shakespeare ma che vuoi inventare?!».Aspira a passare al cinema?«Ma secondo te la televisione non ha già superato il cinema? La porta rossa non ha un linguaggio e capacità filmiche maggiori di tanti film italiani?».
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Mario Draghi e Ursula von der Leyen (Ansa)
Il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin (Imagoeconomica). Nel riquadro il programma dell'evento organizzato da La Verità