2020-03-20
Le famiglie dei disabili gravissimi: «Ci lasciano soli, è come morire»
Per chi ha bisogno di assistenza 24 ore su 24 l'epidemia è un dramma: «Badanti e operatori si licenziano, i centri chiudono, persino sul piano sanitario ci sono buchi. Nel decreto si sono dimenticati del tutto di noi».Strage silenziosa di anziani nelle case di riposo. Da Brescia alle Marche, quando la malattia arriva nelle Rsa è impossibile contenerla.Lo speciale contiene due articoli. Da qualche giorno Elena Improta passa ore a girare in macchina per Roma. Nell'abitacolo assieme a lei c'è suo figlio Mario, che ha una disabilità gravissima e «ad alto carico assistenziale sociale». Girano senza una meta, per rubare qualche momento d'aria a una casa trasformata in prigione. Elena è una caregiver, che significa «fornitrice di cure». Ma la traduzione burocratica è un eufemismo grottesco. Nel disegno di legge che li riguarda, i caregiver sono definiti «prestatori volontari di cura». In verità, come spiega Maria Simona Bellini, presidente del Coordinamento nazionale famiglie disabili, di «volontario» c'è ben poco. «Il volontario lo fa per scelta e per quanto tempo decide lui. Noi, invece, siamo obbligati. Lo facciamo 24 ore al giorno, e non certo per scelta». Da quando è esplosa l'emergenza coronavirus, per oltre 3 milioni di caregiver che si occupano di malati e disabili gravi, la situazione è al limite della disperazione. E spesso oltre quel limite. Elena Improta, che ha fondato la onlus Oltre lo sguardo, racconta la condizione di suo figlio. «Per ragazzi come Mario ad alto carico assistenziale, il contenimento delle emozioni e dei comportamenti non è facile. In questi giorni vengono a mancare gli spazi che li aiutano da questo punto di vista: niente laboratori, niente passeggiate con gli amici nel quartiere. Noi genitori, magari sessantenni, dobbiamo garantire assistenza per tutte le 24 ore, spesso non riusciamo a dormire, alle 5.30 siamo già in piedi. Anche solo spingere un figlio adulto in carrozzina per un giro attorno al palazzo diventa difficile, e comunque non è sufficiente». I ragazzi con disabilità psichiche non riescono a sfogare aggressività e ansia, sono bloccati in casa spesso con solo un famigliare. Elena accompagna Mario in giro in auto così almeno «si rasserena un po', sente la musica, pensa di andare da qualche parte anche se giriamo a vuoto». I caregiver la cui esistenza è difficile già in condizioni normali, possono beneficiare di alcuni tipi di assistenza. Quella sanitaria, quella diretta fornita dalle cooperative e quella indiretta, fornita da badanti o altri operatori contrattualizzati direttamente dalle famiglie. Adesso ci sono problemi su tutti i fronti, come racconta Fabiana Gianni, mamma di una ragazza cerebrolesa e fondatrice della Fondazione Villa Point: «Manca l'assistenza diretta perché le cooperative chiudono. Viene a mancare quella indiretta perché la maggioranza delle badanti e del personale ha preferito mettersi in ferie, in malattia o addirittura licenziarsi, e nessuno può obbligare queste persone a lavorare. E poi nessuno lo dice, ma anche l'assistenza infermieristica in questo periodo ha molti buchi». Nel decreto Cura Italia questi problemi non sono presi in considerazione. Per i famigliari dei disabili sono previsti allungamenti dei tempi di libertà dal lavoro concessi dalla legge 104, ma ai caregiver serve ben altro. «Al di là del numero di ore», dice Fabiana Gianni, «per beneficiare della 104 bisogna avere un contratto di lavoro. Ma per i caregiver che hanno dovuto rinunciare al lavoro - e sono tantissimi - non è prevista alcuna tutela. Non è stato previsto nemmeno l'anticipo dell'erogazione dei contributi che le amministrazioni locali forniscono per consentirci di reperire personale a partita Iva in deroga. Faccio un esempio: magari la badante rimane a casa, ma posso chiamare, con tutte le cautele del caso, un fisioterapista. È una questione di salute. Per farvi capire: mia figlia è epilettica. Se non la porto fuori di casa, rischiando, si agita e può avere una crisi. Se ha una crisi devo portarla al pronto soccorso ed esporla a un pericolo enorme. Ecco, questo decreto non ha tenuto conto delle eccezioni». L'assistenza sanitaria, pur con qualche lacuna, è garantita. Viene però a mancare tutto il resto. I centri sono chiusi, i professionisti che aiutano le famiglie (o, più spesso, i singoli, perché tantissimi caregiver sono separati) scelgono di non lavorare o si danno malati. Oppure sono gli stessi caregiver a lasciarli a casa, perché sanno di non poter garantire le necessarie condizioni di sicurezza. «Noi non possiamo mettere badanti o altri nelle condizioni di venire se non si sentono sicuri. Ci sono addirittura ragazzi che non hanno la copertura assicurativa», dice Elena Improta. «Mi chiedo come mai Comune di Roma e Regione non abbiano pensato ad aprire spazi, anche per poche persone, che possano garantire igiene e tutela, magari utilizzando i centri di riabilitazione presenti in Vaticano che ora sono chiusi. Nel Lazio ci sono 2914 disabili gravissimi, si sanno i loro nomi e cognomi. Possibile che il massimo sia dare loro un numero di telefono da chiamare in caso di necessità, tanto più che i centralini sono sempre intasati?». Sara Bonnano è la madre di Simone, che ha bisogno di assistenza continua: «Ora si vede molta gente disperata perché si sente ingabbiata in casa e va in ansia o si deprime», dice. «Noi viviamo in questa stessa condizione da anni. Questa è la vita normale di un caregiver: perdita di lavoro, di contatti e relazioni umane, di parenti e amici. È la norma. Qualcuno ora propone di darci più soldi, magari 500 euro in più, come sostegno. Ma che me ne faccio dei soldi se gli assistenti domiciliari non vengono a lavorare o se non posso comprare le mascherine da dargli? Per noi rimanere soli è la morte. Tanto vale dare a mio figlio la sedazione profonda». Già: qui non è questione di soldi, ma di aiuti concreti. Creazione di spazi, reperimento di personale, fornitura di mascherine e igienizzanti, organizzazione di lezioni scolastiche ad hoc (che non sono state previste), insomma tutto quello che possa sgravare almeno per qualche ora chi deve assistere un figlio o un parente. «La mancanza dei dispositivi di sicurezza è molto pesante», conferma Roberto Speziale, presidente di Anffas. «Noi già da tempo chiediamo un piano di emergenza per situazioni gravi. Purtroppo il fatto che non ci si sia occupati per anni della disabilità grave ora fa emergere in modo drammatico tutti i problemi». Problemi che ricadono sulle spalle di persone già provate da anni di fatiche e preoccupazioni. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-famiglie-dei-disabili-gravissimi-ci-lasciano-soli-e-come-morire-2645539459.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="strage-silenziosa-di-anziani-nelle-case-di-riposo" data-post-id="2645539459" data-published-at="1758061831" data-use-pagination="False"> Strage silenziosa di anziani nelle case di riposo I nostri vecchi muoiono nelle case di riposo e pochi se ne accorgono. L'emergenza sono giustamente i posti letto che mancano in terapia intensiva, gli ospedali che non riescono ad accogliere tutti i malati di coronavirus, gli anziani da proteggere invitandoli a restare nelle loro abitazioni. Non devono uscire, sono a rischio, ma altri ultrasettantenni altrettanto fragili stanno vivendo una situazione di reclusione forzata. Con la differenza che, dove stanno, se uno si contagia è spacciato. Le strutture allora diventano lazzaretti per gli ospiti, ad altissimo rischio per chi ci lavora. Nelle ultime settimane la morìa nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa) è diventata drammatica, 20 decessi nel Bresciano, 25 nella residenza «Borromea» a Mediglia in provincia di Milano, 16 nella milanese «Virgilio Ferrari», 15 nella casa di riposo di Gandino in Val Seriana, nel Bergamasco, 4 nella Rsa di Merlara nel Padovano, solo per ricordare gli ultimi morti. Un bollettino inarrestabile che si aggiunge alla tremenda conta di decessi per il Covid-19 cui non riusciamo ad abituarci e che accentua la crudezza di una dipartita improvvisa, nella solitudine di un luogo che non è casa, lontani dai propri cari, senza un figlio o un nipote che possa confortare. Quando un anziano viene colpito in Rsa dal coronavirus, il contagio è impossibile da contenere. Il focolaio si estende rapidissimo, coinvolgendo gli operatori socio sanitari e le loro famiglie. A Cremona, il Covid-19 è entrato in tutte le Rsa dove gli ospiti sono circa 4.000 e altrettanti gli operatori. A Cingoli, nelle Marche, su 40 anziani della casa di riposo, 37 sono risultati positivi al tampone. Nella stessa struttura sono state contagiate due operatrici, un medico, un'infermiera, il marito di un'operatrice. Metà dei vecchietti non è autosufficiente, non si muovono dal tetto, non possono essere isolati, non hanno armi per combattere contro un nemico invisibile. Fa male dirlo, ma il loro destino appare segnato. Molte delle case di riposo in Italia, sono circa 7.500, hanno interrotto la comunicazione con l'esterno sospendendo le visite di parenti e familiari degli ospiti. Altre hanno permesso contatti e forse non sapranno mai se un decesso era dovuto a coronavirus: quando un anziano muore nel suo letto non gli viene fatto il tampone. In ogni caso, le residenze per la terza età non sono fortini abbandonati a sé stessi, gli operatori, i medici che vi lavorano entrano ed escono dalle Rsa più volte al giorno. Il rischio di contagi sempre esiste. Ma c'è di peggio, il personale è sprovvisto di mascherine, di guanti: mancano negli ospedali, figuriamoci altrove. «Lavoriamo senza protezioni. Non abbiamo più camici, occhialini, non si possono ordinare termometri perché non si trovano», ha raccontato al Corriere della Sera un infermiere del «Virgilio Ferrari». Così, se il maledetto Covid-19 entra in una casa di riposo, è finita. Tutto si blocca all'interno, virus compreso, lasciato ad agire indisturbato sui nostri genitori o sui nostri nonni.