2020-11-21
Le cinquanta sfumature di jota del Friuli
La zuppa è diffusa in tutta la regione, ma con regole diverse. Miscuglio di avanzi delle cucine povere, ha infinite varianti locali Tra i piatti più noti il fricò, con i ritagli del formaggio. E la putizza, oggetto di un siparietto tra papa Francesco e Melania Trump.Di terra, di mare, di montagna. La tavola del piccolo Friuli Venezia Giulia è una scoperta golosa che merita di essere conosciuta. Un tempo Marano lagunare era il serbatoio, con le sue valli da pesca, a garantire la crescita in santa pace di branzini, orate, anguille, issate poi a bordo della «batela», un'imbarcazione tipica, a fondo piatto, a propulsione remante. Il Boreto a la graisana è una pepita golosa della vicina Grado. Agli inizi del Novecento oltre un terzo nella popolazione era composta da casoneri, coloro che vivevano nei casoni, tipiche abitazioni coperte di paglia e canne sugli isolotti lagunari. Non tutto il pesce poteva essere venduto ai mercati di Udine o Trieste. Vi erano degli scarti di ottima qualità che venivano cotti nel lavèso, una pentola prima di pietra e poi di terracotta. Come olio si usa quello di semi, non di oliva, perché più leggero e più facilmente emulsionabile con l'acqua. Un piatto unico in cui non vi è traccia di pomodoro, tanto che l'orgoglio locale recita che è in uso sin da prima che Cristoforo Colombo portasse le nuove colture dalla Merica. Il mantra locale è chiaro: Far el boreto ze un'arte … e l'arte ze dei artisti, e artisti no se deventa, se nasse. Ovvero quando la traduzione non serve. Salendo di Grado troviamo la jota, diffusa in tutta la regione, ma con regole diverse. È un minestrone, con varianti locali, principalmente in funzione di quanto offriva la dispensa, anche se il legame comune prevede fagioli e cappucci garbi, cioè cavolo cappuccio. Le sue origini sono modeste, un miscuglio di avanzi delle cucine povere, tanto che il motto era chiaro «se deve avanzare qualcosa che avanzi la jota». Nelle valli friulane (su tutte la val Pesarina, attenta custode della memoria, con le sue diverse declinazioni stagionali) spesso era jota e così sia. Tanto che le giovani di casa che si affacciavano alla vita, con i loro legittimi sogni e desideri, recitavano sottovoce «sempre jota, sempre jota, mai polenta e latte. Sempre erbe, sempre erbe e mai un bel tosato». Rincara la dose Ernesto Kosovitz, nel 1899, che la definisce «una specie di minestra grossolana». Ma non la pensano allo stesso modo nella città di mare, incrocio di genti e di commerci, cioè Trieste. Qua è roba di lusso, ricercate ed apprezzata. A cominciare da un semplice «andemo a jota», cioè andiamo a mangiare, sino al goliardico «là sì che iera jota», per definire un luogo dove si trovano ragazze di buona compagnia. Una pratica che richiede pazienza e dedizione. Fagioli e cappucci vanno inizialmente cotti separatamente e riuniti solo dopo, tanto che la classica liturgia prevede di coprirli d'acqua per cinque volte. La vera jota triestina è ancora più buona se preparata con un giorno d'anticipo e servita poi riscaldata. Tra gli ingredienti anche patate e costine di maiale, mentre nella vicina Gorizia è più scura, per l'aggiunta di orzo. Altro piatto, altra storia con i cjarson, che si possono trovare sia salati che dolci. Origini carniche, grazie ai cramars, i venditori di spezie che attraversavano a piedi le Alpi per vendere la loro preziosa merce, proveniente da Venezia, nei mercati dell'impero asburgico. Viaggiavano con le crassigne in spalla, sorta di cassettiere cui affidavano le loro fortune. Quando tornavano a casa dai loro lunghi viaggi, le donne di famiglia ripulivano i cassetti di quanto rimasto ed ecco nascere questa specie di agnolotti, con la sfoglia composta da acqua e farina, il resto lasciato alla provvidenza. Parenti stretti gli gnocchi, che nel goriziano hanno una particolarità decisamente golosa ed inattesa, ovvero farciti con le susine. Nella mezza prugna al posto del nocciolo viene posto un pizzico di granella di pane tostato, usato anche come spolverata finale sul piatto. La sua stagione tra fine estate e inizio autunno. Posto che la cucina friulana è una cucina del riuso, tra i suoi ambasciatori conosciuti anche «all'estero» è senza dubbio il fricò, una felice intuizione legata al recupero dei ritagli del formaggio, ovvero gli strissulis. Per alcune fonti già noto ai tempi di Maestro Martino, uno dei padri della cucina rinascimentale quando, prima di venire chiamato al soglio (culinario) vaticano, fu per alcuni anni al servizio del patriarca di Aquileia. Ricorda una frittata, ma non vi sono uova nell'impasto. Si trova in versione friabile, la più antica, come morbida. Può essere usato in millanta modi a seconda di come necessità o fantasia comandano. Classico con patate e cipolla, mentre abbinato con involtini di vitello è stato il piatto con cui il friulano Luca Manfè, di Aviano, ha vinto la quarta edizione di Master chef Usa nel 2013. Un tempo era lasciato dalle donne la mattina prima di portare gli animali al pascolo, ponendo sulle braci del focolare un padellino con le croste avanzate del formaggio. Al momento dei dolci permane l'imbarazzo della scelta. Conosciutissima la gubana, testimone dell'antica tradizione di utilizzare quanto offriva la dispensa: noci, nocciole, biscotti, frutta candita. Nasce nelle valli del Natisone. L'etimo la fa risalire a guba, che in slavo significa piega. La forma di una chiocciola che avvolge e protegge al suo interno un ricco ripieno. Uscì dalla dimensione domestica negli anni Sessanta, anche se le prime tracce riportano sino al 1409, presente nel banchetto offerto a papa Gregorio XII quando venne in visita a Cividale. Caratteristica principale elasticità e morbidezza. È il dolce della grandi festività religiose, ma anche ospite d'onore a sagre, banchetti, matrimoni. Parente della pinsa trevigiana, la pinza friulana è una focaccia con profumi di vaniglia, rum, anice stellato e scorze di agrumi. Tradizione che passava di madre in figlia dove la bravura era quella di usare meno lievito possibile… e molto olio di gomito. Il primo impasto alle quattro di mattina, con due lievitazioni successive, con l'ultimo che poteva anche richiedere due ore. A quel punto le forme venivano imbarcate su assi di legno, ricoperte da un tovagliolo, e portate dal proprio fornaio, il pec di paese. Certificate pec ante litteram, come racconta Catherina Prato, in quanto era buona usanza su di ognuna mettere una monetina che garantiva il singolo produttore. Un attento ricercatore di archivi familiari quali l'accademico di Gorizia Roberto Zottar ha scoperto come mai le pinze della nobile famiglia Prandi d'Ulmhort fossero così ricercate. Su tre chili di farina si usavano cento uova, ma solo i rossi d'uovo. La putizza, di origine slava, un rotolo di sfoglia ripieno di frutta secca, esordì in grande spolvero al castello di Miramare, nel 1864, in onore degli arciduchi Massimiliano I e Carlotta del Belgio. Omaggio prezioso a Gabriele d'Annunzio, ma che rimbalzò sulle cronache internazionali quando papa Francesco chiese a Melania Trump, osservando l'esuberante consorte al suo fianco, «ma cosa gli dài da mangiare, putizza?». La citazione della staffa va a pieno merito riservata alla rigojanci, torta fascinosa, una sinfonia di cioccolato. Inventata dal pasticcere ungherese Emil Gerbeaud, con la quale il violinista tzigano Rigò Jancsi sedusse la ricca americana Clara Ward, una che aveva ispirato nientemeno che Henry de Toulouse-Lautrec, che per lui lasciò un'agiata vita aristocratica per intraprendere le strade di un Europa al culmine dei piaceri di una Belle Epoque al tramonto. Ben presto il mito dei due amanti e della loro torta dalle mille tentazioni si diffuse in tutta l'area mitteleuropea, mettendo salde radici a Trieste e Gorizia, dove tuttora è testimone di una storia senza tempo.
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