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2019-02-16
L’autonomia regionale è sul tavolo: barricate M5s, la sinistra si spacca
Ansa
Grande è la confusione sotto il cielo dell'autonomia differenziata: il dibattito diventa incandescente, con il M5s, reduce dalla scoppola rimediata in Abruzzo, che si divide al suo interno e teme ripercussioni pesanti dal punto di vista elettorale al Sud, il suo granaio di voti. Emergono spaccature in tutti i partiti, tranne ovviamente la Lega: dai pentastellati a Forza Italia al Pd, si registrano prese di posizione assai diverse sull'argomento, a seconda della provenienza geografica dei protagonisti politici. Mentre procede - seppure a rilento - l'iter che riguarda Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ieri a tenere banco è stata la Campania, il cui presidente Vincenzo De Luca, esponente del Pd, ha ufficializzato, con una lettera indirizzata al premier Giuseppe Conte, la richiesta di autonomia differenziata anche per la Campania: «Abbiamo chiesto un mese fa», ha detto De Luca, «di essere associati alla discussione che riguarda Veneto, Lombardia ed Emilia. Non abbiamo ricevuto risposte e formalizziamo oggi (ieri, ndr) la richiesta di autonomia differenziata anche per la Campania sulla nostra linea: difesa dell'unità nazionale , parità di condizioni per tutti i cittadini italiani, livelli di prestazione uguali per tutti e premialità e penalità per tutti quegli amministratori che dimostrano di non essere in grado di amministrare in maniera corretta. La linea scelta dal governo porta a spezzare l'unità del Paese, a marginalizzare la realtà del Sud».
Decisa a non arretrare di un millimetro Erika Stefani, ministro per gli Affari regionali: «Sono delusa per le ricostruzioni sbagliate», ha detto la Stefani in riferimento alle notizie di stampa all'indomani del Consiglio dei ministri, «ma determinata ad andare avanti. Ogni allarmismo è del tutto infondato. Ribadiamo il nostro totale rispetto del percorso indicato dalla Costituzione, dei livelli essenziali delle prestazioni e dei bisogni di tutti i territori. Non toglieremo niente a nessuno. Preciso anche che un coinvolgimento condiviso del Parlamento», ha aggiunto la Stefani, «ci sarà. Comprendo i timori per la novità ma non dobbiamo avere paura di cambiare per trovare le soluzioni migliori per risolvere problemi che oggi sono oggettivi». C'è anche un messaggio a De Luca: «Dalla Regione Campania», ha precisato poi il ministero per gli Affari regionali, «risulta agli atti una richiesta del febbraio 2018, nella precedente legislatura, che non precisa gli ambiti e le materie per cui attivare la richiesta. Oltre alle 8 regioni che hanno richiesto formalmente di attivare la procedura, non risulta nessun'altra richiesta». Le regioni di cui sopra sono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche.
Il riferimento della Stefani al coinvolgimento del Parlamento è la risposta alle parole di Roberto Fico, presidente della Camera, leader dell'ala più a sinistra nel M5s: «Da presidente della Camera», ha dichiarato, «dico solo che è importante, importantissimo, che il Parlamento abbia un ruolo centrale nella questione delle autonomie. Non può avere un ruolo marginale in un'attività così importante. Noi», ha aggiunto Fico, «abbiamo nella nostra Costituzione l'equa distribuzione delle risorse, quindi da questo punto di vista non deve accadere niente».
Il premio per l'uscita più demagogica del giorno va all'ex premier Enrico Letta, che dal suo esilio dorato a Parigi (insegna alla prestigiosa facoltà di Sciences politiques) è intervenuto sull'argomento: «Si tratta di una secessione», ha detto Letta al Quotidiano Nazionale, «altro che autonomia. Una secessione mascherata. L'autonomia favorisce solo e solamente il Nord. Quel Nord che si fa gli affari suoi».
Da registrare un altro «sì condizionato», quello del presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino (Pd): «C'è da smascherare», ha detto Chiamparino a Repubblica, «un'ambiguità. Non so cosa sia scritto nelle intese di Veneto e Lombardia, ma so cosa ci sarà in quella del Piemonte. Non sta nell'autonomia differenziata incidere sui residui fiscali».
Il presidente della Lombardia, Attilio Fontana (Lega), da parte sua ha detto di aspettarsi tempi brevi per la conclusione dell'iter: «Esistono sicuramente alcuni punti», ha argomentato, «su cui non siamo d'accordo, che dovremo affrontare e risolvere. Penso che nello spazio di una settimana arriveremo a definire una posizione. I due aspetti positivi del Consiglio dei ministri di giovedì scorso sono innanzitutto che si è individuato un testo sul quale lavorare, mentre fino all'altro ieri avevamo una pagina bianca. Il secondo aspetto positivo è che è stata individuata la modalità per arrivare al finanziamento delle competenze. Il contro-dossier del M5s? Lo esamineremo», ha aggiunto Fontana, «la cosa che mi lascia più perplesso è che ne stiamo discutendo da nove mesi, se fosse uscito un po' prima sarebbe stato meno colpo di scena».
Stringato il premier Giuseppe Conte: «È un processo serio, da portare avanti con molta responsabilità e molta chiarezza e determinazione per raggiungere un obiettivo sostenibile. Il Parlamento», ha precisato il presidente del Consiglio, «non può essere destinatario passivo di un progetto di riforma rivoluzionario».
Le bozze di intesa parlano chiaro: il Paese non si divide in zone di serie A e B
Con l'eccezione della Verità, sui quotidiani di ieri c'erano diverse forzature in tema di autonomia regionale: retroscena su liti nel governo, addirittura voci di stop.
Si tratta spesso di fotografie sfocate. La stessa Erika Stefani, ministro per gli Affari regionali, che di solito sceglie un profilo di riserbo, ha sentito l'esigenza di prendere carta e penna per dichiararsi «delusa per le ricostruzioni sbagliate» e «determinata ad andare avanti».
La Verità è in grado di raccontare cosa sia successo in Consiglio dei ministri l'altra sera: nessuna tensione o scorrettezza da parte dei ministri grillini, nessun veto sul proseguimento dell'iter. La Stefani ha presentato il lavoro compiuto sulle intese con le regioni: a questo punto, in un tempo da stabilire, toccherà al premier Giuseppe Conte siglare gli accordi; successivamente saranno varati i disegni di legge governativi, che dovranno essere votati dal Parlamento a maggioranza assoluta.
Fonti di primo piano della delegazione governativa leghista confermano tranquillità: tale è la serenità del partito di Salvini che da parte del Carroccio non ci sarà alcuna forzatura, meno che mai sui tempi. Si è stabilito che, in un giorno della prossima settimana, si terrà un vertice politico per le ultime limature. Quanto alla richiesta grillina di «parlamentarizzare» già ora il percorso, pare da escludere l'ipotesi che si possano sottoporre a procedura emendativa alla Camera e al Senato le singole intese. Si fa invece strada - ragionevolmente - l'idea di un momento parlamentare di dibattito, un po' a somiglianza di quanto accade quando il premier informa preventivamente le Camere alla vigilia dei vertici europei, spesso facendo anche tesoro di risoluzioni parlamentari. Può dunque venir fuori un'ipotesi di questo tipo: prima un vertice Conte-Salvini-Di Maio; poi un dibattito parlamentare; poi la sigla delle intese tra Stato e Regioni; e infine i ddl governativi e il relativo iter alle Camere. Venendo al merito, è opportuno affrontare le principali obiezioni che gli avversari della riforma stanno mettendo in campo. Esaminiamole ad una ad una.
coesione nazionale
Dicono i critici: avevamo uno Stato, ora avremo al massimo tanti staterelli. Premesso che così non sarà, e che semmai un po' di competizione tra territori potrebbe solo stimolarne l'efficienza (e il premio o la punizione elettorale per i governatori regionali), l'argomento non sta in piedi, perché stiamo parlando di una procedura prevista dall'attuale Costituzione (articolo 116 comma 3). Nella riforme volute a suo tempo da esponenti di centrosinistra a partire da Franco Bassanini, si stabilì che vi fossero competenze esclusive dello Stato, poi competenze esclusive (residuali) delle Regioni, e infine competenze concorrenti. Ecco, l'articolo 116 comma 3 consente che lo Stato, su richiesta della Regione, possa cedere queste ultime competenze. La Regione chiede e lo Stato decide politicamente. Tutto qui.
uniformità
Dicono i critici: sulle prestazioni essenziali, ci sarà un'esplosione di diversità. Ma in realtà già oggi è così, e proprio sulle materie già di competenza regionale: chiunque conosca la sanità del Sud, le liste di attesa, sa che occorre proprio un'iniezione di efficienza. E le discriminazioni avvengono anche a parità di risorse tra Regioni: quindi si pone un tema di capacità di gestione, di buona o cattiva amministrazione. E non è certo l'ipotesi dell'articolo 116 comma 3 a creare questo problema.
aree svantaggiate
Dicono i critici: nel gioco del «residuo fiscale» (cioè la differenza tra le tasse pagate e le spese ricevute), è matematico che qualcuno ci guadagni e qualcun altro ci perda. L'argomento non appare solido, perché il modello ora proposto è quello della compartecipazione ai tributi erariali (per evitare la logica dei trasferimenti). Ergo, se è vero che in caso di aumento del gettito fiscale la Regione potrà avere più soldi, può esser vero anche il contrario: in tempi di crisi, il gettito tende a diminuire, e quindi anche la Regione avrà una quota inferiore.
questione meridionale
Dicono i critici: a rimetterci sarà il Meridione. L'argomento non è convincente per una ragione essenziale: non si toglie niente a nessuno. Semmai, si dà a una Regione esattamente ciò che lo Stato già pagava (in quella stessa Regione) per svolgere un certo servizio (prevalentemente, si tratta degli stipendi relativi a una funzione o competenza). In termini ultrasemplificati, prima pagava papà. Ora ci pensa la Regione con gli stessi soldi: e il bilancio della «famiglia» non cambia.
Quanto al Sud, rispetto al lamento messo in campo dal governatore della Campania Vincenzo De Luca, circola da ieri copia della lettera, scritta nel 2017 dallo stesso De Luca al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, per chiedere «l'apertura di un tavolo per discutere la rinegoziazione di competenze». Testo sorprendente per due ragioni: perché mostra che allora, evidentemente, non si trattava - agli occhi di De Luca - di un'ipotesi ritenuta pericolosa, e perché la lettera sembrava impostare il negoziato su basi di corrispondenza «personale», quando esiste un percorso costituzionale indicato dal già citato articolo 116 comma 3.
Semmai, sarebbe il caso di mettere in campo tre elementi per alzare la posta riformatrice. Primo: finora non si è mai considerato adeguatamente il diverso costo della vita nei vari territori, fattore che tende a gravare sui cittadini del Nord. Secondo: la riforma è forse troppo timida, perché non prevede un autentico federalismo, cioè una vera autonomia fiscale delle Regioni, con relativa responsabilità politica di chi le guida. Terzo: a una più marcata autonomia, dovrebbe far da contrappeso un elemento di nuova unità, a partire da forme di presidenzialismo, cioè di elezione diretta e popolare del Capo dello Stato, eventualmente anche dotato di guida dell'esecutivo (sul modello americano o francese).
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Riduci
Giuseppe Conte si espone: «Progetto rivoluzionario, da portare avanti». I grillini temono di perdere voti in Meridione e Roberto Fico guida gli oppositori della riforma. Pd diviso fra chi ci vuole provare e chi opta per un no di propaganda.Le bozze di intesa parlano chiaro: il Paese non si divide in zone di serie A e B. La Costituzione già prevede l'autonomia su alcune materie e blinda l'equità. Il punto non è «togliere» fondi, bensì gestirli.Lo speciale contiene due articoli. Grande è la confusione sotto il cielo dell'autonomia differenziata: il dibattito diventa incandescente, con il M5s, reduce dalla scoppola rimediata in Abruzzo, che si divide al suo interno e teme ripercussioni pesanti dal punto di vista elettorale al Sud, il suo granaio di voti. Emergono spaccature in tutti i partiti, tranne ovviamente la Lega: dai pentastellati a Forza Italia al Pd, si registrano prese di posizione assai diverse sull'argomento, a seconda della provenienza geografica dei protagonisti politici. Mentre procede - seppure a rilento - l'iter che riguarda Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, ieri a tenere banco è stata la Campania, il cui presidente Vincenzo De Luca, esponente del Pd, ha ufficializzato, con una lettera indirizzata al premier Giuseppe Conte, la richiesta di autonomia differenziata anche per la Campania: «Abbiamo chiesto un mese fa», ha detto De Luca, «di essere associati alla discussione che riguarda Veneto, Lombardia ed Emilia. Non abbiamo ricevuto risposte e formalizziamo oggi (ieri, ndr) la richiesta di autonomia differenziata anche per la Campania sulla nostra linea: difesa dell'unità nazionale , parità di condizioni per tutti i cittadini italiani, livelli di prestazione uguali per tutti e premialità e penalità per tutti quegli amministratori che dimostrano di non essere in grado di amministrare in maniera corretta. La linea scelta dal governo porta a spezzare l'unità del Paese, a marginalizzare la realtà del Sud». Decisa a non arretrare di un millimetro Erika Stefani, ministro per gli Affari regionali: «Sono delusa per le ricostruzioni sbagliate», ha detto la Stefani in riferimento alle notizie di stampa all'indomani del Consiglio dei ministri, «ma determinata ad andare avanti. Ogni allarmismo è del tutto infondato. Ribadiamo il nostro totale rispetto del percorso indicato dalla Costituzione, dei livelli essenziali delle prestazioni e dei bisogni di tutti i territori. Non toglieremo niente a nessuno. Preciso anche che un coinvolgimento condiviso del Parlamento», ha aggiunto la Stefani, «ci sarà. Comprendo i timori per la novità ma non dobbiamo avere paura di cambiare per trovare le soluzioni migliori per risolvere problemi che oggi sono oggettivi». C'è anche un messaggio a De Luca: «Dalla Regione Campania», ha precisato poi il ministero per gli Affari regionali, «risulta agli atti una richiesta del febbraio 2018, nella precedente legislatura, che non precisa gli ambiti e le materie per cui attivare la richiesta. Oltre alle 8 regioni che hanno richiesto formalmente di attivare la procedura, non risulta nessun'altra richiesta». Le regioni di cui sopra sono Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche.Il riferimento della Stefani al coinvolgimento del Parlamento è la risposta alle parole di Roberto Fico, presidente della Camera, leader dell'ala più a sinistra nel M5s: «Da presidente della Camera», ha dichiarato, «dico solo che è importante, importantissimo, che il Parlamento abbia un ruolo centrale nella questione delle autonomie. Non può avere un ruolo marginale in un'attività così importante. Noi», ha aggiunto Fico, «abbiamo nella nostra Costituzione l'equa distribuzione delle risorse, quindi da questo punto di vista non deve accadere niente».Il premio per l'uscita più demagogica del giorno va all'ex premier Enrico Letta, che dal suo esilio dorato a Parigi (insegna alla prestigiosa facoltà di Sciences politiques) è intervenuto sull'argomento: «Si tratta di una secessione», ha detto Letta al Quotidiano Nazionale, «altro che autonomia. Una secessione mascherata. L'autonomia favorisce solo e solamente il Nord. Quel Nord che si fa gli affari suoi». Da registrare un altro «sì condizionato», quello del presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino (Pd): «C'è da smascherare», ha detto Chiamparino a Repubblica, «un'ambiguità. Non so cosa sia scritto nelle intese di Veneto e Lombardia, ma so cosa ci sarà in quella del Piemonte. Non sta nell'autonomia differenziata incidere sui residui fiscali».Il presidente della Lombardia, Attilio Fontana (Lega), da parte sua ha detto di aspettarsi tempi brevi per la conclusione dell'iter: «Esistono sicuramente alcuni punti», ha argomentato, «su cui non siamo d'accordo, che dovremo affrontare e risolvere. Penso che nello spazio di una settimana arriveremo a definire una posizione. I due aspetti positivi del Consiglio dei ministri di giovedì scorso sono innanzitutto che si è individuato un testo sul quale lavorare, mentre fino all'altro ieri avevamo una pagina bianca. Il secondo aspetto positivo è che è stata individuata la modalità per arrivare al finanziamento delle competenze. Il contro-dossier del M5s? Lo esamineremo», ha aggiunto Fontana, «la cosa che mi lascia più perplesso è che ne stiamo discutendo da nove mesi, se fosse uscito un po' prima sarebbe stato meno colpo di scena».Stringato il premier Giuseppe Conte: «È un processo serio, da portare avanti con molta responsabilità e molta chiarezza e determinazione per raggiungere un obiettivo sostenibile. Il Parlamento», ha precisato il presidente del Consiglio, «non può essere destinatario passivo di un progetto di riforma rivoluzionario».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lautonomia-regionale-e-sul-tavolo-barricate-m5s-la-sinistra-si-spacca-2629077676.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-bozze-di-intesa-parlano-chiaro-il-paese-non-si-divide-in-zone-di-serie-a-e-b" data-post-id="2629077676" data-published-at="1765409377" data-use-pagination="False"> Le bozze di intesa parlano chiaro: il Paese non si divide in zone di serie A e B Con l'eccezione della Verità, sui quotidiani di ieri c'erano diverse forzature in tema di autonomia regionale: retroscena su liti nel governo, addirittura voci di stop. Si tratta spesso di fotografie sfocate. La stessa Erika Stefani, ministro per gli Affari regionali, che di solito sceglie un profilo di riserbo, ha sentito l'esigenza di prendere carta e penna per dichiararsi «delusa per le ricostruzioni sbagliate» e «determinata ad andare avanti». La Verità è in grado di raccontare cosa sia successo in Consiglio dei ministri l'altra sera: nessuna tensione o scorrettezza da parte dei ministri grillini, nessun veto sul proseguimento dell'iter. La Stefani ha presentato il lavoro compiuto sulle intese con le regioni: a questo punto, in un tempo da stabilire, toccherà al premier Giuseppe Conte siglare gli accordi; successivamente saranno varati i disegni di legge governativi, che dovranno essere votati dal Parlamento a maggioranza assoluta. Fonti di primo piano della delegazione governativa leghista confermano tranquillità: tale è la serenità del partito di Salvini che da parte del Carroccio non ci sarà alcuna forzatura, meno che mai sui tempi. Si è stabilito che, in un giorno della prossima settimana, si terrà un vertice politico per le ultime limature. Quanto alla richiesta grillina di «parlamentarizzare» già ora il percorso, pare da escludere l'ipotesi che si possano sottoporre a procedura emendativa alla Camera e al Senato le singole intese. Si fa invece strada - ragionevolmente - l'idea di un momento parlamentare di dibattito, un po' a somiglianza di quanto accade quando il premier informa preventivamente le Camere alla vigilia dei vertici europei, spesso facendo anche tesoro di risoluzioni parlamentari. Può dunque venir fuori un'ipotesi di questo tipo: prima un vertice Conte-Salvini-Di Maio; poi un dibattito parlamentare; poi la sigla delle intese tra Stato e Regioni; e infine i ddl governativi e il relativo iter alle Camere. Venendo al merito, è opportuno affrontare le principali obiezioni che gli avversari della riforma stanno mettendo in campo. Esaminiamole ad una ad una. coesione nazionale Dicono i critici: avevamo uno Stato, ora avremo al massimo tanti staterelli. Premesso che così non sarà, e che semmai un po' di competizione tra territori potrebbe solo stimolarne l'efficienza (e il premio o la punizione elettorale per i governatori regionali), l'argomento non sta in piedi, perché stiamo parlando di una procedura prevista dall'attuale Costituzione (articolo 116 comma 3). Nella riforme volute a suo tempo da esponenti di centrosinistra a partire da Franco Bassanini, si stabilì che vi fossero competenze esclusive dello Stato, poi competenze esclusive (residuali) delle Regioni, e infine competenze concorrenti. Ecco, l'articolo 116 comma 3 consente che lo Stato, su richiesta della Regione, possa cedere queste ultime competenze. La Regione chiede e lo Stato decide politicamente. Tutto qui. uniformità Dicono i critici: sulle prestazioni essenziali, ci sarà un'esplosione di diversità. Ma in realtà già oggi è così, e proprio sulle materie già di competenza regionale: chiunque conosca la sanità del Sud, le liste di attesa, sa che occorre proprio un'iniezione di efficienza. E le discriminazioni avvengono anche a parità di risorse tra Regioni: quindi si pone un tema di capacità di gestione, di buona o cattiva amministrazione. E non è certo l'ipotesi dell'articolo 116 comma 3 a creare questo problema. aree svantaggiate Dicono i critici: nel gioco del «residuo fiscale» (cioè la differenza tra le tasse pagate e le spese ricevute), è matematico che qualcuno ci guadagni e qualcun altro ci perda. L'argomento non appare solido, perché il modello ora proposto è quello della compartecipazione ai tributi erariali (per evitare la logica dei trasferimenti). Ergo, se è vero che in caso di aumento del gettito fiscale la Regione potrà avere più soldi, può esser vero anche il contrario: in tempi di crisi, il gettito tende a diminuire, e quindi anche la Regione avrà una quota inferiore. questione meridionale Dicono i critici: a rimetterci sarà il Meridione. L'argomento non è convincente per una ragione essenziale: non si toglie niente a nessuno. Semmai, si dà a una Regione esattamente ciò che lo Stato già pagava (in quella stessa Regione) per svolgere un certo servizio (prevalentemente, si tratta degli stipendi relativi a una funzione o competenza). In termini ultrasemplificati, prima pagava papà. Ora ci pensa la Regione con gli stessi soldi: e il bilancio della «famiglia» non cambia. Quanto al Sud, rispetto al lamento messo in campo dal governatore della Campania Vincenzo De Luca, circola da ieri copia della lettera, scritta nel 2017 dallo stesso De Luca al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, per chiedere «l'apertura di un tavolo per discutere la rinegoziazione di competenze». Testo sorprendente per due ragioni: perché mostra che allora, evidentemente, non si trattava - agli occhi di De Luca - di un'ipotesi ritenuta pericolosa, e perché la lettera sembrava impostare il negoziato su basi di corrispondenza «personale», quando esiste un percorso costituzionale indicato dal già citato articolo 116 comma 3. Semmai, sarebbe il caso di mettere in campo tre elementi per alzare la posta riformatrice. Primo: finora non si è mai considerato adeguatamente il diverso costo della vita nei vari territori, fattore che tende a gravare sui cittadini del Nord. Secondo: la riforma è forse troppo timida, perché non prevede un autentico federalismo, cioè una vera autonomia fiscale delle Regioni, con relativa responsabilità politica di chi le guida. Terzo: a una più marcata autonomia, dovrebbe far da contrappeso un elemento di nuova unità, a partire da forme di presidenzialismo, cioè di elezione diretta e popolare del Capo dello Stato, eventualmente anche dotato di guida dell'esecutivo (sul modello americano o francese).
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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