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2019-12-08
L’Aula approverà a scatola chiusa. La Lega vuol ricorrere alla Consulta
Ansa
«Questa mattina, attraverso il nostro collegio di avvocati, abbiamo depositato il ricorso alla Consulta per violazione della Costituzione, un ricorso che noi riteniamo importante, essenziale, molto grave, per ciò che è successo in queste settimane, prima al Senato e poi alla Camera, sulla legge di bilancio».
Parole e musica di Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, che aggiunge: «C'è stata la volontà precisa di impedire al Parlamento di conoscere cosa si stesse votando. Questa cosa», attacca Marcucci, «non ha nessun tipo di precedente e mina le fondamenta della nostra democrazia parlamentare e questo ricorso è stato fatto per ristabilire le regole fondamentali della democrazia, che questo governo sta rompendo con regolarità. È ridicolo ascoltare esponenti della maggioranza parlare di una manovra che non conoscono». Marcucci è impazzito? Ricorre contro la maggioranza di cui fa parte?
No: Marcucci è semplicemente, in termini politici, un ipocrita. Il motivo? Le sue parole che abbiamo riportato risalgono al 28 dicembre 2018, quando Marcucci e il Pd erano all'opposizione e bombardavano l'allora maggioranza Lega-M5s, «colpevole» di aver trascinato troppo per le lunghe l'elaborazione della manovra, violando, a loro avviso, l'articolo 72 della Costituzione. In sostanza, il Pd, che presentò un ricorso alla Consulta, firmato da Marcucci e altri 36 senatori dem, denunciava che l'elaborazione della manovra era andata talmente tanto per le lunghe che il Senato era stato costretto ad approvare il testo praticamente a scatola chiusa. L'opposizione dell'epoca fece fuoco e fiamme, denunciando la esautorazione del parlamento, e in particolare del Senato, che non ebbe il tempo nemmeno di iniziare a discutere il testo della legge di bilancio, la più importante di tutte. Presentò, come detto, un ricorso alla Corte costituzionale in cui denunciava «la grave compressione dei tempi di discussione del Ddl, che avrebbe svuotato di significato l'esame della commissione Bilancio e impedito ai singoli senatori di partecipare consapevolmente alla discussione e alla votazione».
La Consulta, il 10 gennaio, dichiarò inammissibile il ricorso del Pd, spiegando che la contrazione dei lavori per l'approvazione della manovra targata Lega-M5s era stata caratterizzata da «una lunga interlocuzione con le istituzioni dell'Unione europea che ha portato a una rideterminazione dei saldi complessivi della manovra economica in un momento avanzato del procedimento parlamentare e ha comportato un'ampia modificazione del disegno di legge iniziale, confluita nel maxi-emendamento». Del resto, ricordiamo tutti molto bene il tremendo braccio di ferro tra il governo Conte 1 e Bruxelles, con minacce di procedura di infrazione, riscritture, polemiche, deficit-pil al 2,4%, poi al 2,04% e così via.
La Corte costituzionale concluse con un avvertimento: «Resta fermo», scrissero i giudici, «che per le leggi future simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate altrimenti potranno non superare il vaglio di costituzionalità». Bene (anzi male): il governo Conte 2, ha fatto di peggio. Molto di peggio. La Camera dei deputati non avrà il tempo di fare altro che approvare il testo a scatola chiusa. Esattamente quello che accadde l'anno scorso, a camere invertite, ma con tre aggravanti. La prima: lo scorso anno, seppure in fretta e furia, le letture parlamentari erano state comunque tre, e non solo due come quest'anno. La seconda: la Consulta lo scorso anno aveva raccomandato di non ripetere questa compressione dei tempi. La terza: la stessa Consulta aveva «assolto» il governo gialloverde alla luce della «lunga interlocuzione con le istituzioni dell'Unione europea». Quest'anno, invece, l'Europa non ha disturbato il manovratore, ha accompagnato l'iter di elaborazione della legge di bilancio con raccomandazioni come quelle che i nonni fanno ai nipotini, carezze, incoraggiamenti e apprezzamenti.
Le polemiche che hanno provocato l'allungamento a dismisura dei tempi sono state tutte interne alla maggioranza giallorossa. Tutto talmente inverosimile da sembrare quasi «doloso», come se M5s, Pd, Iv e Leu avessero voluto arrivare all'ultimo minuto per evitare discussioni potenzialmente pericolosissime in parlamento. La visita lampo di Giuseppe Conte al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mentre ancora era in corso l'ultimo vertice di maggioranza, è certamente stata dettata dalla necessità di informare il Quirinale del contingentamento dei tempi. Il governo ha intenzione di apportare tutte le modifiche alla manovra al Senato per procedere a Montecitorio solo con un voto confermativo in aula, bypassando l'esame nella commissione Bilancio della Camera, il cui presidente, Claudio Borghi, della Lega, è andato su tutte le furie: «Come volevasi dimostrare», ha scritto ieri sera Borghi su Twitter, «uno scandalo. Uno schifo. Platealmente incostituzionale. La Camera tagliata totalmente fuori dalla legge di Bilancio. Ci vediamo alla Consulta». L'idea di ricorrere alla Corte costituzionale non viene esclusa da Matteo Salvini, mentre anche Forza Italia attacca: «Il governo», dice la capogruppo azzurra al Senato, Anna Maria Bernini, «prima ha tenuto in ostaggio il Senato a causa dei suoi litigi, e ora si appresta a porre la fiducia recapitando alla Camera una manovra blindata. È un atto di protervia che offende il Parlamento e la stessa democrazia». E Marcucci? Il capogruppo al Senato del Pd, che lo scorso anno aveva fatto fuoco e fiamme, parla d'altro. Sull'argomento, glissa. Forse ha dimenticato tutto quello che aveva detto l'anno scorso, le accuse, il ricorso. O forse, anzi certamente, finge di averlo dimenticato.
Salvini dà l’avviso di sfratto a Conte
«I sottoscritti impegnano il governo italiano a non approvare la riforma del Mes in quanto serio pericolo per i risparmi degli italiani e per la stabilità economica del Paese, ma anzi ad attivarsi per l'abolizione del Mes stesso e per la restituzione del capitale versato». È questo il testo - stringato ma chiarissimo - della petizione lanciata dalla Lega per un weekend di mobilitazione sia nelle strade sia online, in vista del dibattito parlamentare che la prossima settimana precederà il Consiglio europeo del 12-13 dicembre. Sempre sul Mes, domani alle ore 12 Giorgia Meloni, insieme con i parlamentari nazionali ed europei di Fdi, manifesterà a Bruxelles davanti al Consiglio europeo, contro il salva Stati. A seguire, la delegazione italiana del gruppo Ecr terrà anche una conferenza sulla riforma.
Tornando alla Lega, ieri mattina Matteo Salvini in persona si è presentato a Milano al gazebo di largo Cairoli per incontrare militanti, cittadini e giornalisti: «Gli italiani hanno capito», ha esordito il leader leghista. «Questi giocavano sulla segretezza e sul silenzio, invece abbiamo portato il tema nelle piazze, mercoledì lo porteremo in Parlamento, e conto che tanti parlamentari sceglieranno secondo coscienza e non secondo convenienza».
Preoccupato per il rischio di ristrutturazione del debito reso più concreto dalla riforma del Mes («Non è automatico, ma è possibile»), Salvini, pur sollecitato polemicamente da alcuni cronisti, ha schivato le polemiche sull'euro («L'uscita dall'euro non è nel programma, non c'è nulla da chiarire»), e ha ribadito una linea orientata a uno stare nell'Unione europea a testa alta («Vogliamo stare in Europa ma da protagonisti, non da servi di qualcuno»). Dunque, centralità dell'interesse nazionale come bussola («La Germania i suoi interessi li ha curati in Europa, l'Italia molto meno»).
Poi il leader leghista ha invitato i cronisti a fare spazio («Potete cortesemente allontanarvi un momento? Sono qui per i cittadini»), e, armato di megafono, ha rivolto un breve saluto alla folla dei presenti: «Grazie a tutti, buon Sant'Ambrogio, buona Immacolata in anticipo, viva Milano, viva il presepe, e viva un'Europa che o è cristiana oppure non è. Grazie per le decine di migliaia di firme che, dalle prime ore di stamattina, state dando per fermare un trattato internazionale che mette a rischio il futuro, il lavoro e il risparmio di milioni di cittadini italiani. Io vi ringrazio per quello che state facendo e farete».
E poi ancora un ringraziamento e una battuta: «Grazie, quando il popolo si sveglia e si mette in cammino, non ci sono banchieri, finanzieri o Giuseppi che tengano, l'Italia agli italiani».
E proprio a Conte e alle difficoltà del suo governo sono state dedicate le altre risposte di Salvini ai giornalisti, anche con riferimento all'accordo faticosamente raggiunto dalla maggioranza sugli ultimi aspetti della manovra: il premier «tolga il disturbo perché il suo è il governo sbagliato nel posto sbagliato». Conte dice che è stata scongiurata la recessione? «Guardate l'economia italiana, è la penultima in Europa. Questo è il governo delle tasse, se le rinvii di tre mesi sempre tasse sono». E ancora: «Hanno deciso di tassare gli italiani una volta al mese, un po' a maggio, un po' a giugno, un po' ad agosto», ha ironizzato il leader leghista sul rinvio di alcune nuove tasse. «È un governo che sta insieme con lo scotch. Prima prendono atto, e prima prende atto il presidente Mattarella che l'Italia sta perdendo aziende e credibilità nel mondo, meglio è».
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Riduci
La legge di bilancio non sarà discussa dal Parlamento. Un anno fa, per lo stesso motivo, il Pd chiamò in causa la Corte costituzionale. Ma allora era colpa della trattativa con l'Ue, oggi delle divisioni nella maggioranza.Il Carroccio raccoglie firme contro il Mes. Matteo Salvini: «Giuseppi tolga il disturbo». E per fermare il salva Stati Giorgia Meloni e i parlamentari di Fdi manifestano a Bruxelles.Lo speciale contiene due articoli.«Questa mattina, attraverso il nostro collegio di avvocati, abbiamo depositato il ricorso alla Consulta per violazione della Costituzione, un ricorso che noi riteniamo importante, essenziale, molto grave, per ciò che è successo in queste settimane, prima al Senato e poi alla Camera, sulla legge di bilancio». Parole e musica di Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, che aggiunge: «C'è stata la volontà precisa di impedire al Parlamento di conoscere cosa si stesse votando. Questa cosa», attacca Marcucci, «non ha nessun tipo di precedente e mina le fondamenta della nostra democrazia parlamentare e questo ricorso è stato fatto per ristabilire le regole fondamentali della democrazia, che questo governo sta rompendo con regolarità. È ridicolo ascoltare esponenti della maggioranza parlare di una manovra che non conoscono». Marcucci è impazzito? Ricorre contro la maggioranza di cui fa parte? No: Marcucci è semplicemente, in termini politici, un ipocrita. Il motivo? Le sue parole che abbiamo riportato risalgono al 28 dicembre 2018, quando Marcucci e il Pd erano all'opposizione e bombardavano l'allora maggioranza Lega-M5s, «colpevole» di aver trascinato troppo per le lunghe l'elaborazione della manovra, violando, a loro avviso, l'articolo 72 della Costituzione. In sostanza, il Pd, che presentò un ricorso alla Consulta, firmato da Marcucci e altri 36 senatori dem, denunciava che l'elaborazione della manovra era andata talmente tanto per le lunghe che il Senato era stato costretto ad approvare il testo praticamente a scatola chiusa. L'opposizione dell'epoca fece fuoco e fiamme, denunciando la esautorazione del parlamento, e in particolare del Senato, che non ebbe il tempo nemmeno di iniziare a discutere il testo della legge di bilancio, la più importante di tutte. Presentò, come detto, un ricorso alla Corte costituzionale in cui denunciava «la grave compressione dei tempi di discussione del Ddl, che avrebbe svuotato di significato l'esame della commissione Bilancio e impedito ai singoli senatori di partecipare consapevolmente alla discussione e alla votazione».La Consulta, il 10 gennaio, dichiarò inammissibile il ricorso del Pd, spiegando che la contrazione dei lavori per l'approvazione della manovra targata Lega-M5s era stata caratterizzata da «una lunga interlocuzione con le istituzioni dell'Unione europea che ha portato a una rideterminazione dei saldi complessivi della manovra economica in un momento avanzato del procedimento parlamentare e ha comportato un'ampia modificazione del disegno di legge iniziale, confluita nel maxi-emendamento». Del resto, ricordiamo tutti molto bene il tremendo braccio di ferro tra il governo Conte 1 e Bruxelles, con minacce di procedura di infrazione, riscritture, polemiche, deficit-pil al 2,4%, poi al 2,04% e così via. La Corte costituzionale concluse con un avvertimento: «Resta fermo», scrissero i giudici, «che per le leggi future simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate altrimenti potranno non superare il vaglio di costituzionalità». Bene (anzi male): il governo Conte 2, ha fatto di peggio. Molto di peggio. La Camera dei deputati non avrà il tempo di fare altro che approvare il testo a scatola chiusa. Esattamente quello che accadde l'anno scorso, a camere invertite, ma con tre aggravanti. La prima: lo scorso anno, seppure in fretta e furia, le letture parlamentari erano state comunque tre, e non solo due come quest'anno. La seconda: la Consulta lo scorso anno aveva raccomandato di non ripetere questa compressione dei tempi. La terza: la stessa Consulta aveva «assolto» il governo gialloverde alla luce della «lunga interlocuzione con le istituzioni dell'Unione europea». Quest'anno, invece, l'Europa non ha disturbato il manovratore, ha accompagnato l'iter di elaborazione della legge di bilancio con raccomandazioni come quelle che i nonni fanno ai nipotini, carezze, incoraggiamenti e apprezzamenti.Le polemiche che hanno provocato l'allungamento a dismisura dei tempi sono state tutte interne alla maggioranza giallorossa. Tutto talmente inverosimile da sembrare quasi «doloso», come se M5s, Pd, Iv e Leu avessero voluto arrivare all'ultimo minuto per evitare discussioni potenzialmente pericolosissime in parlamento. La visita lampo di Giuseppe Conte al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mentre ancora era in corso l'ultimo vertice di maggioranza, è certamente stata dettata dalla necessità di informare il Quirinale del contingentamento dei tempi. Il governo ha intenzione di apportare tutte le modifiche alla manovra al Senato per procedere a Montecitorio solo con un voto confermativo in aula, bypassando l'esame nella commissione Bilancio della Camera, il cui presidente, Claudio Borghi, della Lega, è andato su tutte le furie: «Come volevasi dimostrare», ha scritto ieri sera Borghi su Twitter, «uno scandalo. Uno schifo. Platealmente incostituzionale. La Camera tagliata totalmente fuori dalla legge di Bilancio. Ci vediamo alla Consulta». L'idea di ricorrere alla Corte costituzionale non viene esclusa da Matteo Salvini, mentre anche Forza Italia attacca: «Il governo», dice la capogruppo azzurra al Senato, Anna Maria Bernini, «prima ha tenuto in ostaggio il Senato a causa dei suoi litigi, e ora si appresta a porre la fiducia recapitando alla Camera una manovra blindata. È un atto di protervia che offende il Parlamento e la stessa democrazia». E Marcucci? Il capogruppo al Senato del Pd, che lo scorso anno aveva fatto fuoco e fiamme, parla d'altro. Sull'argomento, glissa. Forse ha dimenticato tutto quello che aveva detto l'anno scorso, le accuse, il ricorso. O forse, anzi certamente, finge di averlo dimenticato.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/laula-approvera-a-scatola-chiusa-la-lega-vuol-ricorrere-alla-consulta-2641543861.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="salvini-da-lavviso-di-sfratto-a-conte" data-post-id="2641543861" data-published-at="1765638911" data-use-pagination="False"> Salvini dà l’avviso di sfratto a Conte «I sottoscritti impegnano il governo italiano a non approvare la riforma del Mes in quanto serio pericolo per i risparmi degli italiani e per la stabilità economica del Paese, ma anzi ad attivarsi per l'abolizione del Mes stesso e per la restituzione del capitale versato». È questo il testo - stringato ma chiarissimo - della petizione lanciata dalla Lega per un weekend di mobilitazione sia nelle strade sia online, in vista del dibattito parlamentare che la prossima settimana precederà il Consiglio europeo del 12-13 dicembre. Sempre sul Mes, domani alle ore 12 Giorgia Meloni, insieme con i parlamentari nazionali ed europei di Fdi, manifesterà a Bruxelles davanti al Consiglio europeo, contro il salva Stati. A seguire, la delegazione italiana del gruppo Ecr terrà anche una conferenza sulla riforma. Tornando alla Lega, ieri mattina Matteo Salvini in persona si è presentato a Milano al gazebo di largo Cairoli per incontrare militanti, cittadini e giornalisti: «Gli italiani hanno capito», ha esordito il leader leghista. «Questi giocavano sulla segretezza e sul silenzio, invece abbiamo portato il tema nelle piazze, mercoledì lo porteremo in Parlamento, e conto che tanti parlamentari sceglieranno secondo coscienza e non secondo convenienza». Preoccupato per il rischio di ristrutturazione del debito reso più concreto dalla riforma del Mes («Non è automatico, ma è possibile»), Salvini, pur sollecitato polemicamente da alcuni cronisti, ha schivato le polemiche sull'euro («L'uscita dall'euro non è nel programma, non c'è nulla da chiarire»), e ha ribadito una linea orientata a uno stare nell'Unione europea a testa alta («Vogliamo stare in Europa ma da protagonisti, non da servi di qualcuno»). Dunque, centralità dell'interesse nazionale come bussola («La Germania i suoi interessi li ha curati in Europa, l'Italia molto meno»). Poi il leader leghista ha invitato i cronisti a fare spazio («Potete cortesemente allontanarvi un momento? Sono qui per i cittadini»), e, armato di megafono, ha rivolto un breve saluto alla folla dei presenti: «Grazie a tutti, buon Sant'Ambrogio, buona Immacolata in anticipo, viva Milano, viva il presepe, e viva un'Europa che o è cristiana oppure non è. Grazie per le decine di migliaia di firme che, dalle prime ore di stamattina, state dando per fermare un trattato internazionale che mette a rischio il futuro, il lavoro e il risparmio di milioni di cittadini italiani. Io vi ringrazio per quello che state facendo e farete». E poi ancora un ringraziamento e una battuta: «Grazie, quando il popolo si sveglia e si mette in cammino, non ci sono banchieri, finanzieri o Giuseppi che tengano, l'Italia agli italiani». E proprio a Conte e alle difficoltà del suo governo sono state dedicate le altre risposte di Salvini ai giornalisti, anche con riferimento all'accordo faticosamente raggiunto dalla maggioranza sugli ultimi aspetti della manovra: il premier «tolga il disturbo perché il suo è il governo sbagliato nel posto sbagliato». Conte dice che è stata scongiurata la recessione? «Guardate l'economia italiana, è la penultima in Europa. Questo è il governo delle tasse, se le rinvii di tre mesi sempre tasse sono». E ancora: «Hanno deciso di tassare gli italiani una volta al mese, un po' a maggio, un po' a giugno, un po' ad agosto», ha ironizzato il leader leghista sul rinvio di alcune nuove tasse. «È un governo che sta insieme con lo scotch. Prima prendono atto, e prima prende atto il presidente Mattarella che l'Italia sta perdendo aziende e credibilità nel mondo, meglio è».
Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Riduci
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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