2020-07-17
L’assist di «Repubblica» a Benetton si rivela un autogol (con smentita)
Intervista strappalacrime al patron, che denuncia la «demonizzazione» della famiglia e passa da vittima. Dopo 10 ore arriva il fuoco amico sul quotidiano: «Mai rilasciato quelle dichiarazioni ai giornalisti».L'artista Oliviero Toscani torna a offendere i suoi concittadini e si lancia in una difesa del leader del gruppo trevigiano: «Esempio di onestà». Ma si dimentica qualche dettaglio.Lo speciale contiene due articoli.Non so come si dica chiagni e fotti a Treviso. Ma ho l'impressione che si dica Benetton. Infatti nel giorno in cui sir Luciano da Ponzano Veneto, re del Maglioncino Perduto, riceve dal premier Conte un regalo da 805 milioni di euro grazie all'aumento in Borsa dei titoli del gruppo, su Repubblica escono alcune sue dichiarazioni, che sembrerebbero impossibili se non fossero perfettamente in sintonia con l'arroganza mostrata dalla famiglia fin dall'inizio di questa tremenda storia. In effetti: le hanno sbagliate tutte, come gli attori bolliti. E come gli attori bolliti non potevano non sbagliare anche l'uscita di scena. Ammesso e non concesso che questa sia davvero un'uscita di scena. E ammesso e non concesso che quelle frasi Benetton le abbia dette davvero. Ieri alle 16.28, infatti, cioè circa dieci ore dopo l'arrivo del quotidiano in tutte le edicole d'Italia, i Benetton hanno diffuso una nota per dire che non hanno «rilasciato dichiarazioni ai giornalisti» e che «le frasi riportate non rappresentano il pensiero» di Luciano. Lasciando aperta una serie di interrogativi: come mai questa smentita a scoppio ritardato? E possibile che un giornale come Repubblica, da sempre vicino ai Benetton, s'inventi di sana pianta delle dichiarazioni di Luciano in un giorno così delicato? L'articolo, per altro, è firmato da un cronista di grande esperienza, come Giampaolo Visetti, normalmente assai attendibile. E regge un titolo d'apertura di prima pagina. E dunque siamo di fronte a una clamorosa intervista inventata da parte di uno dei principali quotidiani italiani e da parte di uno dei suoi più esperti inviati? O siamo di fronte al pentimento postumo di Mister Maglioncino che si è accorto con ritardo che quelle dichiarazioni erano inopportune? Quella riportata da Repubblica, in effetti, più che un'intervista è un j'accuse. Luciano Benetton «si sfoga». È molto offeso. Fa il broncio. «Ci trattano peggio di una cameriera», lamenta. Evidentemente lui, noblesse oblige, è abituato a liquidare le cameriere con assegni da 805 milioni. «Mai mi sarei aspettato certi termini e certi toni pubblici», insiste. E poi attacca con la solita litania del vittimismo prêt à porter: «opera di demonizzazione», «tentativo di esproprio», «accanimento istituzionale». Il capostipite, secondo il giornale amico, piagnucola, brontola, attacca tutti. Tira in ballo «la propaganda e il populismo», un'accusa che di questi tempi va assai più di moda dei maglioncini colorati (del resto ci vuol poco). Gioca insomma a fare la vittima. Soprattutto si mostra assai preoccupato per «la demolizione del nome e del marchio Benetton», un colpo che, sempre secondo quanto riportato da Repubblica, rischierebbe di «devastare tutta la famiglia». Se queste frasi fossero vere, si capisce, suonerebbero assai spiacevoli. Ma non certo nuove. Semplicemente Benetton avrebbe dimenticato ancora una volta, come ha sempre fatto, un piccolo particolare: se c'è qualche famiglia devastata non è certo quella dei ricchi industriali che se ne escono con 805 milioni di più tasca. Ma quella di chi ha perso i suoi cari sotto il maledetto ponte che i Benetton avevano in gestione. Le responsabilità penali di lorsignori da Treviso sono tutte da accertare, si capisce. Ma in quanto a umana sensibilità la condanna è già definitiva da un pezzo. E queste dichiarazione non farebbero che confermalo. Stupisce infatti che proprio colui che per anni ha voluto dare lezioni di etica e di solidarietà, di valori e di rispetto, colui che ha organizzato campagne per sensibilizzarci a tutti i buonismi della terra, non sia mai riuscito a cogliere questa semplice e banale verità: se uno gestisce per anni un bene pubblico e lo gestisce oggettivamente male, riempiendosi le tasche di soldi ma non facendo gli investimenti dovuti, e poi questo bene pubblico crolla e uccide 43 persone, ebbene, costui non è la vittima. In ogni caso. Non può essere la vittima. Anche se sarà assolto. Anche se piange su Repubblica per poi pentirsi di aver pianto. Anche se ripete all'infinito le formuletta della «demonizzazione» e dell'«accanimento». Anche se invita tutte le sardine del mondo a posare in foto con lui. Niente da fare. Le vittime continuano a restare quelle che sono rimaste schiacciate sotto il ponte. Non lui che il ponte lo gestiva. La comunicazione, con tanto di retromarcia incorporata, non basta a sovvertire la tragica realtà dei fatti. Eppure, almeno secondo quanto riportato da Repubblica, Luciano non si dà proprio pace. Infatti va all'attacco. Si vanta. Si pavoneggia. «Abbiamo contribuito al boom economico dell'Italia», proclama. E su questo (sempre se fosse vero) avrebbe almeno una parte di ragione. In origine fu così. Ma dal 1999, da quando si sono accaparrati le autostrade per un tozzo di pane con il benestare di Prodi e D'Alema, il bilancio del dare e avere con lo Stato è tutto a favore dei Benetton che dall'Italia hanno ricevuto molto più di quello che hanno offerto. Enormemente di più. Mentre i loro negozi chiudevano, infatti, loro se ne stavano seduti lì, vicino al casello dalle uova d'oro, e incassavano i soldi degli automobilisti, utili su utili, con tariffe sempre in aumento, senza nessuno che controllasse se facevano davvero la manutenzione e gli investimenti previsti oppure no. Alcuni dirigenti sono sotto inchiesta per questo. Alcuni manager sono stati cacciati. Ed è strano che Luciano Benetton «imprenditore abituato a seguire ogni dettaglio del business in prima persona», come lo definisce Repubblica, non si sia mai accorto di niente. Nulla gli sfugge, scrive il quotidiano, «non una sola parola, non una sola azione». Possibile che l'unica cosa sfuggita al suo controllo sia questa? E cioè che il suo gruppo stava mettendo in pericolo la sicurezza degli italiani? Ecco: per tutti questi motivi ci saremmo aspettati, almeno alla fine della vicenda (se poi è davvero la fine), non dico un capo cosparso di cenere, ma per lo meno un moto di umana pietà, un piccolo esame di coscienza, un umile richiesta di scuse. Invece nulla. Il silenzio. O, peggio, un'intervista di cui vergognarsi. Esattamente come è successo poche ore dopo la tragedia quando uscì un comunicato che riduceva il tutto a un problema di circolazione stradale. O come è successo a Ferragosto 2018 quando i Benetton festeggiarono i 43 morti con una cena a Cortina. O come è successo in tutte le interviste che hanno rilasciato da allora, alternando uomini comunicazione, addetti stampa, spifferi, sussurri e smentite, senza mai riuscire nell'impresa di sembrare un po' umani. Anche ieri l'unica persona «distrutta dalla tragedia» che viene ricordata, secondo quanto riportato da Repubblica, è Gilberto Benetton, come se lui fosse stato davvero sotto quel ponte e non invece sopra, a comandare quelli che dovevano evitare il crollo.Per la verità Repubblica riporta anche una frase condivisibile di Mister Maglioncino. Compare proprio alla fine dello sfogo: «Ad affrontare certi problemi non ero preparato», conclude infatti Luciano secondo il quotidiano. Questo è indubbiamente vero. Si è visto. Non era preparato. Ma a questo punto la domanda è inevitabile: sono decenni che quest'uomo sta sul piedistallo e ci insegna, direttamente o per interposto Toscani, come dobbiamo comportarci, che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è giusto e che cosa è sbagliato. E adesso, arrivato a 85 anni, scopre che non era preparato? Non poteva pensarci prima? Non sarà che anche su questo è arrivato tardi, proprio come sulla smentita a Repubblica?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lassist-di-repubblica-a-benetton-si-rivela-un-autogol-con-smentita-2646419867.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="toscani-italia-vile-luciano-e-serio" data-post-id="2646419867" data-published-at="1594925479" data-use-pagination="False"> Toscani: «Italia vile. Luciano è serio»
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
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