2019-03-10
L’allarme furbetto della Cgil: «Persi 1.000 euro a lavoratore»
Il centro studi del sindacato evidenzia un calo drastico del potere d'acquisto rispetto al 2010. La colpa è della diffusione di impieghi meno qualificati e part time, proliferati sotto il naso di chi doveva vigilare.Il vicepresidente del Parlamento dell'Ue Fabio Massimo Castaldo: «L'eurozona non si discute, ma su austerità e immigrati si cambia».Lo speciale contiene due articoliIn Italia dal 2010 il potere d'acquisto degli stipendi è crollato di 1.000 euro. A dirlo è uno studio della Fondazione Di Vittorio, intitolato Retribuzioni e mercato del lavoro: l'Italia a confronto con le maggiori economie dell'Eurozona. Nell'elaborato - firmato dal ricercatore Lorenzo Birindelli - si spiega chiaramente quale sia il problema: gli stipendi dal 2001 non sono cresciuti abbastanza per via dell'aumento delle professioni poco qualificate, rispetto a quelle che richiedono un percorso di studi più lungo e complesso. In pratica si preferisce assumere persone con scarse competenze, per pagarle meno, piuttosto che far ricorso a professionisti collaudati. Paradossalmente, una fotografia tanto impietosa della condizione in cui versano i lavoratori italiani viene scattata da un ente che è una costola della stessa Cgil, sindacato impegnato in battaglie un po' su tutti i fronti - dall'immigrazione alla Tav, purché antigovernative - che si ritrova a strombazzare risultati tanto scoraggianti in quello che dovrebbe essere il suo «core business». Lo studio mette a confronto l'andamento degli stipendi rilevati dall'Ocse in Belgio, Francia, Germania, Olanda, Italia e Spagna. Queste ultime due nazioni sono le uniche in Europa in cui negli tra il 2010 e il 2017 il potere d'acquisto è diminuito di 1.000 euro e oltre. Va precisato che l'analisi è basata sui salari reali, cioè aumentando le retribuzioni di allora come se i prezzi del 2010 fossero gli stessi di oggi. Nel 2010, secondo l'indagine, in Italia lo stipendio medio era 30.273 euro, mentre nel 2017 era 29.214 euro. In Spagna la situazione è anche peggiore: 9 anni fa la retribuzione media era 29.165 euro, mentre 2 anni fa era 28.064. I lavoratori spagnoli hanno ceduto ben 1.101 euro in quasi due lustri.Certo, la situazione non è rosea nemmeno in Olanda e in Belgio, dove il potere d'acquisto è rimasto praticamente invariato. Nei Paesi Bassi nel 2010 il salario medio era 46.885 euro, nel 2017 invece 46.755 (la perdita è quindi 110 euro). In Belgio si è registrato al contrario un lieve aumento (648 euro) passando da 43.192 euro (2010) a 43.840 (nel 2017). Niente a che vedere con Francia e Germania dove, nonostante la crisi, gli stipendi sono aumentati non poco. A Berlino e dintorni nel 2010 si guadagnavano 35.621 euro, ben meno rispetto ai 39.446 euro del 2017. La differenza è tutt'altro che irrilevante: 3.825 euro. Meno accentuato ma comunque molto positivo lo «spread» francese fra lo stipendio medio del 2010 (35.724 euro) e quello del 2017 (37.622). In questo caso la differenza positiva è di 1.898 euro di potere d'acquisto. Come spiega Birindelli, «oltre alla crisi, vi sono altri aspetti, in parte intrecciati col nostro mercato del lavoro, che aiutano a leggere la stasi delle retribuzioni italiane. Si può iniziare dalla composizione per grande gruppo professionale dell'occupazione dipendente del nostro Paese. Rispetto alla media dell'Eurozona», illustra l'esperto, «l'occupazione dipendente in Italia soffre di una ridotta presenza nelle alte qualifiche (complessivamente quasi 7 punti percentuali in meno). Al contrario, è più alta, di oltre 2 punti percentuali, la quota delle professioni a bassa qualificazione».Tra 2008 e 2017 è cresciuta infatti nel nostro Paese l'incidenza delle professioni intellettuali e scientifiche, pur se la quota rimane ancora distante da quella dell'Eurozona (13,5% contro 17,6%). In calo invece la quota relativa ai dirigenti (dal 2,2% all'1,3% dei lavoratori) e quella delle professioni tecniche (dal 22,3% al 17,7% dei professionisti). Lo studio della Fondazione Di Vittorio prende in esame anche i lavoratori part-time europei. Come spiega il dossier, oltre al nodo salariale per questi professionisti c'è anche il problema di un numero eccessivo di ore lavorate rispetto alla retribuzione percepita. Secondo l'indagine, nel 2017 un professionista part-time in Italia lavorava in media 22,2 ore la settimana contro un coefficiente europeo di 20,7 ore settimanali. Fa peggio di noi solo la Francia: 23,1 ore. In compenso, i lavoratori full time lavorano meno della media Ue: 39 ore contro 39,8 la settimana. In parole povere, considerando la retribuzione per singola ora, chi lavora part-time viene pagato meno di un operatore a tempo pieno. Sia per i lavoratori a mezza giornata sia per quelli full time il problema nel mercato italiano è sempre lo stesso: sono i profili medi e alti a soffrire della maggiore penalizzazione, mentre per quelli bassi il divario è più contenuto, anche per il ruolo esercitato dai minimi contrattuali. Cosa fare dunque per risolvere i problemi retributivi dei lavoratori italiani? «Il tema dei redditi può e deve essere affrontato in più modi», dice Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, «un intervento su quantità e qualità dell'occupazione, relativo allo scarso tasso di occupazione e al continuo incremento del lavoro povero; una nuova fase di contrattazione, a tutti i livelli, che aumenti assieme al salario nazionale la diffusione della contrattazione di secondo livello; una vera e importante riforma fiscale, di carattere fortemente progressivo, che recuperi risorse vero le retribuzioni. In realtà», continua Fammoni, «la scarsa crescita delle retribuzioni è uno degli effetti, ma anche causa, dello scarso sviluppo del nostro Paese. Provoca gravi disagi alla condizione delle persone, fa lievitare un lavoro povero e rappresenta una delle cause della permanente situazione emergenziale dei conti pubblici italiani».La realtà è che l'unico modo per alzare i salari dei lavoratori italiani è quello di ridurre la spropositata tassazione di cui soffrono. Il divario tra retribuzione lorda e netta è ormai troppo elevato rispetto agli standard segnati in molti altri Paesi europei. Si tratta di un meccanismo che, oltre ad arricchire poco le persone, causa una scarsa propensione agli investimenti nella nostra nazione. Un problema che, dunque, riguarda tutti gli italiani, non solo quelli che lavorano. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/lallarme-furbetto-della-cgil-persi-1-000-euro-a-lavoratore-2631159492.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="allunione-europea-serve-discontinuita" data-post-id="2631159492" data-published-at="1758183260" data-use-pagination="False"> «All’Unione europea serve discontinuità» Ansa Il vicepresidente del Parlamento europeo, Fabio Massimo Castaldo (M5s), torna sul programma presentato dal Movimento per le elezioni europee del 2014. Tra i «sette punti per l'Europa» cinque anni fa c'era l'abolizione del fiscal compact, trattato intergovernativo firmato nel 2012, durante il governo Monti, che ha inasprito le regole di Maastricht sul rapporto defict-pil e debito pubblico-pil. Vicepresidente, il patto è ancora lì: ha funzionato a garantire la stabilità dell'Unione? «No, anzi, l'esatto contrario. Ha danneggiato soprattutto i Paesi più in difficoltà. Per reagire a fasi congiunturali negative ci vogliono politiche espansive e investimenti pubblici nei settori più innovativi, non misure di austerità che acuiscono disoccupazione, diseguaglianze e povertà. L'austerity è stata costantemente sostenuta e votata dal Patto del nazareno europeo che governa l'Europa da oltre 10 anni, vale a dire Ppe e S&D, rappresentati in Italia da Forza Italia e Pd». Cosa serve per far ripartire l'Europa? «Serve discontinuità e, a tal proposito, le cito il nostro voto decisivo in Commissione affari monetari del Parlamento europeo. Grazie alle nostre battaglie è stato rigettato il report che integrava il fiscal compact nel quadro giuridico dell'Ue. I falchi dell'austerità volevano ingabbiare l'Italia rafforzando lo status del trattato e noi lo abbiamo impedito». Crede che con la prossima legislatura verrà superato il fiscal compact? «Per la prossima legislatura puntiamo a essere ago della bilancia per rivedere il six pack e il two pack, che rappresentano il cuore delle politiche di austerità e che restringono lo spazio di politica fiscale degli Stati membri, privandoli dei principali strumenti macroeconomici in un contesto di domanda debole». La prossima settimana è in programma l'istituzione del fondo monetario europeo: cos'è? «Non è altro che l'istituzionalizzazione del trattamento ingiusto e umiliante che è stato riservato alla Grecia con l'azione della Troika. Noi presenteremo un emendamento di rigetto della proposta che prevede la concessione di prestiti in cambio dell'imposizione di misure di austerità. Si tratterebbe di un ricatto». Quali sono gli altri punti del programma del 2014 ancora validi? Si parlava di referendum per la permanenza dell'euro, di investimenti in innovazione e dell'abolizione del pareggio di bilancio. «La permanenza dell'Italia nell'eurozona non è in discussione, era una provocazione congeniale a evidenziare l'asimmetria dell'attuale architettura, mentre gli altri due punti rientrano nel quadro di smantellamento dell'austerity. Il nostro obiettivo è di rafforzare il cambiamento che è iniziato con le ultime elezioni politiche italiane. Ecco perché puntiamo a creare un gruppo nuovo al Parlamento europeo. I partiti dell'establishment hanno fallito». Sul tema immigrazione quale strada intendete percorrere? «Serve una vera riforma del regolamento di Dublino e non i pastrocchi più volte proposti dal Consiglio, né tantomeno la timida riforma proposta dal Parlamento. Serve soprattutto la solidarietà europea. Se non ci sarà, siamo pronti a regolarci di conseguenza su dossier di interesse dei Paesi che si sottrarranno al proprio dovere». Cosa può dirci delle alleanze in Europa? Servono almeno 25 parlamentari provenienti da 7 Paesi differenti per formare un gruppo parlamentare. In caso chi ne farebbe parte insieme a voi? Altri giornali hanno parlato di attivisti antisfratto e pro-marijuana croati, liberali finlandesi e gilet gialli... «Respingiamo le etichette che alcuni giornali hanno affibbiato ai nostri alleati! Stiamo lavorando per costruire il primo gruppo post ideologico europeo e siamo ottimisti sulla possibilità di trovare i numeri necessari. I partiti dell'establishment, Ppe e Pse, perderanno circa 100 parlamentari e al loro posto entreranno forze politiche figlie della stagione del cambiamento. Le sembra ingiusto che i nostri alleati croati si siano opposti a una legge che consentiva alle banche di sfrattare le famiglie croate per debiti anche di un solo euro? Siamo pronti a dialogare con chi si riconoscerà nelle nostre battaglie». Macron parla di «amore» tra Italia e Francia e che gli ostacoli vanno superati «con il cuore». Se poniamo sullo sfondo la fusione tra Stx e Fincantieri, possiamo dire che la Francia ci remi contro nel contesto Europeo? «Credo che sia opportuno ripristinare il dialogo fra Italia e Francia. Fermo restando che prendiamo le distanze da proteste violente, è evidente che Macron, ritirando l'ambasciatore francese, ha voluto esasperare la situazione anche per fini interni. Dimenticando di aver più volte assunto posizioni tutt'altro che amichevoli verso il nostro Paese: la vicenda Stx ne è un esempio. Forse avere un controllo sudcoreano su quei cantieri non era un problema, averne uno italiano sì». Di chi è la colpa della crisi europea, di certe élite rappresentate da partiti come quello di Macron? «Macron è solo la punta dell'iceberg di un'architettura istituzionale sbagliata. Le sembra normale che il Parlamento europeo, unica istituzione eletta direttamente dai cittadini, sia del tutto priva del potere di iniziativa legislativa e che possa proporre le leggi solo la Commissione europea, che è composta da tecnocrati? Nella istituzioni europee ci deve essere meno potere in mano alle lobby». Il premier ungherese Viktor Orbán è al centro delle polemiche, alcuni vogliono il suo partito Fidesz fuori dal Ppe… «Dopo la lettera inviata dal partito greco Nea Demokratia sono 12 i partiti di ben 9 Paesi europei a chiedere l'espulsione di Orbán dal Ppe. Io credo che quest'azione rappresenti una vera e propria mozione di sfiducia a Weber, candidato presidente della Commissione e amico di Orbán, nonché una bella grana per Tajani, che punta alla riconferma proprio con i voti di Orbán, da sempre grande amico di Berlusconi». Ci dica meglio… «All'interno del Ppe è in atto un regolamento di conti interno dai contorni quanto mai opachi. Sono rimasto colpito dall'inedita alleanza Socialisti-Fidesz sull'emendamento al regolamento che voleva attribuire alla maggioranza, cioè ai grandi gruppi, il potere di sciogliere i raggruppamenti non asserviti alle vecchie logiche. Questo dimostra quanto Orbán sia digeribile anche per i socialisti quando serve». Aulla Tav, il «no» di bandiera del Movimento non rischia di essere fallimentare? «Fallimentare è spendere un sacco di soldi per un'opera che non serve. L'alta velocità è fondamentale e ci sono zone dove va assolutamente implementata, per esempio nel Centro-Sud Italia».
Nucleare sì, nucleare no? Ne parliamo con Giovanni Brussato, ingegnere esperto di energia e materiali critici che ci spiega come il nucleare risolverebbe tutti i problemi dell'approvvigionamento energetico. Ma adesso serve la volontà politica per ripartire.
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