
Inquietante sperimentazione dell'Authority per le comunicazioni in vista delle europee. Affidata a presunti esperti la valutazione di quali giornali dicono il vero e quali il falso. Secondo i debunker «il picco della disinformazione si è toccato alle ultime elezioni».Sbagliare è umano, perseverare è… Agcom. L'Agcom è l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, organo che secondo alcuni a volte sonnecchia davanti alla faziosità dell'informazione radiotelevisiva su cui sarebbe invece chiamata a vigilare. Eppure da qualche tempo - improvvisamente - appare desta, sveglissima, perfino scatenata: contro Internet, però, e con una linea che, più o meno consapevolmente, oscilla pericolosamente lungo il confine della censura.Il presupposto non detto, forse inconfessabile, è quello proprio di un certo establishment politico e mediatico, non solo italiano. Queste élite smarrite ragionano più o meno così: ma come? Controlliamo il grosso della carta stampata, la gran parte delle radio e delle tv, eppure gli elettori continuano a sfuggirci, e noi proseguiamo a perdere, da Brexit a Donald Trump, da Jair Bolsonaro ai trionfi dei populisti europei… Di chi è la colpa? Dev'essere di Internet e dei social network, dove sempre più persone vanno a cercarsi informazione alternativa. E allora ecco tante campagne per descrivere gli elettori come analfabeti funzionali, come razzisti e xenofobi di andata o di ritorno; ecco un'ondata di documenti e paper, in tutto l'Occidente, contro fake news e post truth online; ed ecco qua e là risorgenti tentazioni censorie. Siccome però la censura vera e propria nel 2019 è difficilmente praticabile, si ripiega sul tentativo di «dare pagelle», di affibbiare etichette di inaffidabilità, di squalificare chi appaia sgradito.Torniamo all'Agcom, dunque. Già qualche mese fa, e La Verità se ne occupò ampiamente, un «tavolo tecnico» Agcom produsse un documento che distingueva «disinformazione online» (il caso più grave: notizie false diffuse dolosamente), «misinformazione online» (il caso più lieve: notizie non veritiere, ma diffuse senza intento doloso), e una stravagante via di mezzo, la cosiddetta «malainformazione online» (contenuti informativi fondati su fatti reali, ma - secondo i tecnici Agcom - divulgati e contestualizzati per danneggiare qualcuno o - tenetevi forte - per «affermare o screditare una tesi»). Capite bene che si tratta di un terreno minato: se perfino un contenuto informativo fondato su fatti reali non va bene a lorsignori, ai nuovi guardiani della Rete che si arrogano la pretesa di indagare sulle intenzioni di chi lo scrive o lo pubblica, si può tranquillamente prendere l'articolo 21 della Costituzione e cestinarlo («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»). Ma l'Agcom non si è fermata. E questa settimana ha diffuso il primo numero del suo «Osservatorio sulla disinformazione online», con una sequenza di dati presentati come inquietanti. Riassumiamo la ricerca: «La disinformazione ha interessato l'8% dei contenuti informativi online prodotti mensilmente lo scorso anno e ha riguardato soprattutto argomenti di cronaca e politica (53% dei casi) e notizie di carattere scientifico (18% dei contenuti di disinformazione)». E ancora: «Nel 2018, il volume di disinformazione online ha raggiunto il livello massimo in corrispondenza delle elezioni del 4 marzo e della successiva formazione del governo». Secondo l'Agcom, «sia nel periodo elettorale che nei mesi successivi, le vicende politiche e di governo, la cronaca nera, le teorie pseudoscientifiche e la salute sono state tra le principali tematiche oggetto di disinformazione». E infine ecco i temi maggiormente oggetto di disinformazione: «Immigrazione e terrorismo hanno segnato la maggiore presenza di disinformazione sul totale dei contenuti online prodotti sui singoli argomenti, riportando quote rispettivamente pari al 15% e all'11%». Ma a questo punto il lettore si chiederà: in base a quale criterio l'Agcom distingue buona e cattiva informazione? Lo spiega la nota metodologica in fondo al rapporto, e c'è da fare un salto sulla sedia: Agcom informa che «è stato analizzato l'intero contenuto testuale estrapolato da circa 15 milioni di documenti generati in Italia, nel 2018, da 1.800 fonti informative (canali radio tv nazionali, quotidiani, agenzie di stampa, siti Web di editori tradizionali, testate esclusivamente online, e relative pagine e account di social network), e fonti di disinformazione (siti Web e pagine/account social) individuate come tali da soggetti esterni specializzati in attività di debunking. Il volume di disinformazione online prodotto in Italia è stato quindi stimato con una metodologia di tipo soggettivo, ossia considerando il numero complessivo di documenti generati mensilmente dalle predette fonti di disinformazione». Avete letto bene: «metodologia di tipo soggettivo», cioè hanno preventivamente stabilito chi fossero i cattivi, affidandosi alla valutazione di «soggetti esterni specializzati in attività di debunking» (espressione con cui in Rete si definisce la caccia alle bufale, lo smascheramento delle falsità). Il primo a sollevare il caso è stato il sempre attentissimo e puntuale Benedetto Ponti, docente di diritto amministrativo all'università di Perugia, che ha messo in fila obiezioni assolutamente ficcanti contro l'iniziativa di Agcom. Insomma, l'Agcom pretende di stabilire lei chi siano quelli bravi, e di «appaltare» a soggetti esterni la definizione dei «cattivi». Peggio: dà per scontato (non si sa in base a quale logica) che tutto ciò che è prodotto da fonti «buone» sia affidabile, e tutto ciò che invece viene dai «cattivi» sia per ciò stesso inaffidabile. Di tutta evidenza, il ragionamento non tiene. Occhio: Agcom presenta esplicitamente la sua iniziativa come l'avvio di «una sperimentazione di un sistema di monitoraggio in concomitanza del periodo che precede le prossime elezioni europee». A buon intenditor, poche parole: per «proteggerci», da qui alle europee, e lungo tutta la campagna elettorale, pretenderanno di spiegarci cosa possiamo o non possiamo leggere, dove dobbiamo o non dobbiamo cliccare.
Un frame del video dell'aggressione a Costanza Tosi (nel riquadro) nella macelleria islamica di Roubaix
Giornalista di «Fuori dal coro», sequestrata in Francia nel ghetto musulmano di Roubaix.
Sequestrata in una macelleria da un gruppo di musulmani. Minacciata, irrisa, costretta a chiedere scusa senza una colpa. È durato più di un’ora l’incubo di Costanza Tosi, giornalista e inviata per la trasmissione Fuori dal coro, a Roubaix, in Francia, una città dove il credo islamico ha ormai sostituito la cultura occidentale.
Scontri fra pro-Pal e Polizia a Torino. Nel riquadro, Walter Mazzetti (Ansa)
La tenuità del reato vale anche se la vittima è un uomo in divisa. La Corte sconfessa il principio della sua ex presidente Cartabia.
Ennesima umiliazione per le forze dell’ordine. Sarà contenta l’eurodeputata Ilaria Salis, la quale non perde mai occasione per difendere i violenti e condannare gli agenti. La mano dello Stato contro chi aggredisce poliziotti o carabinieri non è mai stata pesante, ma da oggi potrebbe diventare una piuma. A dare il colpo di grazia ai servitori dello Stato che ogni giorno vengono aggrediti da delinquenti o facinorosi è una sentenza fresca di stampa, destinata a far discutere.
Mohamed Shahin (Ansa). Nel riquadro, il vescovo di Pinerolo Derio Olivero (Imagoeconomica)
Per il Viminale, Mohamed Shahin è una persona radicalizzata che rappresenta una minaccia per lo Stato. Sulle stragi di Hamas disse: «Non è violenza». Monsignor Olivero lo difende: «Ha solo espresso un’opinione».
Per il Viminale è un pericoloso estremista. Per la sinistra e la Chiesa un simbolo da difendere. Dalla Cgil al Pd, da Avs al Movimento 5 stelle, dal vescovo di Pinerolo ai rappresentanti della Chiesa valdese, un’alleanza trasversale e influente è scesa in campo a sostegno di un imam che è in attesa di essere espulso per «ragioni di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo». Un personaggio a cui, già l’8 novembre 2023, le autorità negarono la cittadinanza italiana per «ragioni di sicurezza dello Stato». Addirittura un nutrito gruppo di antagonisti, anche in suo nome, ha dato l’assalto alla redazione della Stampa. Una saldatura tra mondi diversi che non promette niente di buono.
Nei riquadri, Letizia Martina prima e dopo il vaccino (IStock)
Letizia Martini, oggi ventiduenne, ha già sintomi in seguito alla prima dose, ma per fiducia nel sistema li sottovaluta. Con la seconda, la situazione precipita: a causa di una malattia neurologica certificata ora non cammina più.
«Io avevo 18 anni e stavo bene. Vivevo una vita normale. Mi allenavo. Ero in forma. Mi sono vaccinata ad agosto del 2021 e dieci giorni dopo la seconda dose ho iniziato a stare malissimo e da quel momento in poi sono peggiorata sempre di più. Adesso praticamente non riesco a fare più niente, riesco a stare in piedi a malapena qualche minuto e a fare qualche passo in casa, ma poi ho bisogno della sedia a rotelle, perché se mi sforzo mi vengono dolori lancinanti. Non riesco neppure ad asciugarmi i capelli perché le braccia non mi reggono…». Letizia Martini, di Rimini, oggi ha 22 anni e la vita rovinata a causa degli effetti collaterali neurologici del vaccino Pfizer. Già subito dopo la prima dose aveva avvertito i primi sintomi della malattia, che poi si è manifestata con violenza dopo la seconda puntura, tant’è che adesso Letizia è stata riconosciuta invalida all’80%.






