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2019-10-09
L’accordo europeo sui ricollocamenti è un fallimento: «Le adesioni? 3 o 4»
Ansa
Doveva essere una svolta storica, e invece l'accordo di Malta sulla redistribuzione dei migranti rischia di trasformarsi in un clamoroso flop. L'esito del Consiglio degli Affari europei svoltosi ieri - che ha visto al centro della discussione i destini di un'intesa che, almeno sulla carta, dovrebbe rappresentare l'inizio di una nuova fase nella gestione dei flussi migratori verso il continente europeo - si è concluso con un deludente nulla di fatto.
Eloquente il commento dell'autorevole quotidiano tedesco Handelsblatt, che ha riportato l'assenza di qualsiasi «impegno concreto» da parte dei partner europei. Sono passate poco più di due settimane dall'annuncio in pompa magna del raggiungimento del compromesso firmato a La Valletta da Italia, Francia, Germania e Malta per la ricollocazione degli arrivi. «Non siamo più soli», aveva esultato il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, e c'era già chi (mondo delle Ong in pole position) si fregava le mani per la ripresa degli sbarchi. La stessa Lamorgese aveva lodato l'iniziativa definendola il primo passo concreto per un «approccio di vera azione comune europea».
Molto più morigerati, invece, i toni a margine del meeting. Sull'accordo di Malta «siamo stati in grado di allargare il cerchio dei Paesi a sostegno» del meccanismo di «ricollocamento rapido nel caso dell'arrivo di nuove navi», ha dichiarato il ministro francesce dell'Ue Amelie de Montchalin, aggiungendo che «ci sono circa dieci Paesi pronti a prendere parte, e forse anche altri dopo i dettagli che abbiamo fornito». Ci ha pensato la titolare del Viminale a spegnere gli entusiasmi. Prima rifiutandosi di fornire numeri concreti sulle dimensioni di questa intesa («non c'è alcun numero minimo di Paesi aderenti»), e in seguito minimizzando sulle conseguenze politiche dell'incontro di ieri. «Questo è un preaccordo che abbiamo fatto, già adesso praticamente opera perché, quando arrivano degli sbarchi, noi facciamo già la suddivisione con tutti i Paesi che hanno dato disponibilità», ha spiegato la Lamorgese al termine del consiglio. La partita però è tutt'altro che chiusa: «Dobbiamo operare perché l'accordo abbia una valenza anche per gli altri Stati. Speriamo di chiudere tra novembre e dicembre». E quando si tratta di fare nomi e cognomi, il nostro ministro dell'Interno si mostra assai più prudente rispetto alla de Montchalin. Sarebbero appena «tre o quattro» i Paesi che hanno aperto a una possibile adesione all'accordo di Malta, che come se non bastasse coincidono con quelli che «avevano già dato la loro disponibilità».
Tra questi, il Lussemburgo (che ospitava l'incontro di ieri), l'Irlanda e la Finlandia, alla quale spetta la presidenza di turno del Consiglio dell'Ue. Tutto sembra dunque, tranne che un successo. Sebbene infatti la Lamorgese abbia ribadito che il meccanismo è di fatto «già operativo», d'altro canto ha specificato che «non c'è niente di scritto» e che l'obiettivo è che «sia allargato il più possibile». Tradotto in termini più semplici, si tratta di un accordo ristretto a una piccola cerchia di partecipanti, debole nei contenuti e perciò a rischio di essere spazzato via in men che non si dica.
D'altronde i nodi da sciogliere non sono pochi. Uno dei punti caldi rimasti in sospeso riguarda la definizione dello status dei migranti interessati dall'accordo, in particolare se sono compresi o meno quelli economici oppure solo quelli che rientrano nello status di rifugiati. Lo stesso ministro dell'Interno tedesco Horst Seehofer (dunque uno dei promotori dell'intesa) ha tenuto a precisare proprio ieri che qualora il numero dei migranti in arrivo dovesse aumentare rapidamente non esiterebbe a ritirarsi dall'accordo. «Se centinaia di persone dovessero diventare migliaia», ha affermato Seehofer, «direi senza dubbio che il meccanismo di emergenza può dichiararsi concluso». Un po' come dire: finché alla Germania fa comodo, l'accordo può ritenersi valido, diversamente è da considerarsi carta straccia. Non esattamente quello che si potrebbe definire un ragionamento solidale. Forse è anche per la mancanza di un vero spirito comunitario che la maggior parte di 27 Paesi presenti al Consiglio alla fine si sono tirati indietro.
Tra i più contrari all'accordo di redistribuzione troviamo senza dubbio gli Stati del gruppo Visegrad, ovvero Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Ma anche altri membri dell'Ue hanno deciso di fare sentire la propria voce. Grecia, Cipro e Bulgaria hanno presentato un documento nel quale fanno presente che «negli ultimi mesi l'attenzione degli Stati europei si è rivolta principalmente al Mediterraneo centrale, del quale si è discusso a fondo nei precedenti meeting». «Nonostante gli ultimi rapporti dimostrino che il trend degli arrivi è in costante aumento», argomentano i tre Paesi, «il percorso del Mediterraneo orientale non è stato correttamente attenzionato». Gli estensori del documento sono preoccupati che le recenti tensioni in Siria e Turchia peggiorino questa tendenza. La strada per un'estensione dell'accordo, dunque, resta in salita.
Su sbarchi e migranti la sinistra ha scelto la linea del naufragio
È davvero molto triste, ma possiamo dire che la linea della sinistra italiana in materia di immigrazione si riassume con una frase: è colpa di Matteo Salvini. Nella notte tra domenica e lunedì, a circa 6 miglia da Lampedusa, l'ennesima ecatombe. Un naufragio in cui hanno perso la vita almeno 13 donne e probabilmente anche vari bambini. Circa una ventina i dispersi: una strage, insomma. Ed ecco Matteo Orfini del Pd pronto a sorvolare le acque come un avvoltoio: «La colpa non è del buonismo», ha detto, «ma di chi ha scritto decreti che impediscono alle navi di salvare vite». Posizione simile, seppur leggermente più moderata, quella di Roberto Saviano. Il coretto non ammette stecche: se i migranti sono periti nel Mediterraneo è perché ci sono poche Ong a pattugliare.
Peccato che il ragionamento traballi. Citiamo la ricostruzione dell'evento proposta da Repubblica, giusto per non sembrare faziosi: «L'isola è a 6 miglia quando, poco dopo le tre di notte, la barca in legno, con l'acqua che entra e il motore ingovernabile, si rovescia sotto gli occhi dei militari della Guardia costiera e della Guardia di finanza accorsi con le motovedette per soccorrerli». Dunque le navi c'erano, e con gente esperta a bordo. Quindi il punto non è che mancassero i soccorsi. Il punto è che le persone non devono partire, altrimenti rischiano la vita.
Meno partenze causano meno morti. È un fatto, i numeri parlano chiaro. Secondo l'Unhcr (dichiarazione del primo ottobre) nel 2019 sono morte nel Mediterraneo un migliaio di persone. Comunque troppe, ma decisamente meno rispetto ai 4.733 del 2016, quando l'invasione era continua e i taxi del mare solcavano a pieno ritmo il Mare nostrum.
I progressisti italiani, tuttavia, non sentono ragioni. Hanno una sola risposta da offrire: porti aperti e più accoglienza. E infatti gli sbarchi sono ripresi alla grande e ricominciamo - purtroppo - a contare i cadaveri. Colpa di Salvini? Abbiano almeno un po' di rispetto per i morti ed evitino la propaganda. Ad esempio quella portata avanti (da Luigi Di Maio in primis) a proposito dei rimpatri. Varato il nuovo decreto, grandi pacche sulle spalle e dichiarazioni trionfalistiche. Nel frattempo, però, gli stranieri giunti a Lampedusa sono stati spartiti in Italia, e dalla Tunisia prosegue il flusso, per la gioia degli scafisti. Ovviamente, anche in questo frangente la responsabilità viene attribuita al precedente governo, colpevole di non aver siglato accordi con i Paesi di provenienza. Viene da chiedersi dove fosse il ministro degli Esteri, mesi fa, quando c'era da trattare con gli Stati africani. E dove fossero gli altri rappresentanti dell'esecutivo, che hanno scaricato al responsabile del Viminale l'ingrato compito.
Riepilogando: fallimentare e mortifera la politica dei porti aperti, finora infruttuosa quella sui rimpatri. Andrà meglio - si dice l'ottimista - in sede europea, con il nuovo accordo sui ricollocamenti abbozzato a Malta. E invece nisba. Ieri Luciana Lamorgese era in Lussemburgo, avrebbe dovuto portare a casa un patto definitivo ma ha certificato il flop. «Non do numeri, perché per adesso quelli che hanno detto di sì sono quei 3-4 Paesi hanno dato disponibilità, come Lussemburgo e Irlanda. Dobbiamo operare perché l'accordo abbia una valenza anche sugli altri Paesi. Dobbiamo cercare di allargare la condivisione». Ecco, questo sarebbe l'esito del Consiglio europeo. L'accordicchio in questione è stato sottoscritto da Francia, Germania, Italia, Finlandia e Malta. A cui si sono aggiunti ieri Lussemburgo, Portogallo e Irlanda.
In compenso, la Francia ha già fatto sapere di non essere per niente intenzionata a farsi carico dei migranti economici. E il ministro tedesco dell'Interno Horst Seehofer ha usato la mazza chiodata: «Se i migranti da salvare aumentano allora posso annunciare domani che il meccanismo di emergenza si ferma». Per altro, lo stesso patterello maltese prevede che, in caso di aumento dei flussi, tutto venga ridiscusso. Per tirare le somme: sconfitta su tutta la linea. Continueremo a prenderci i clandestini in arrivo e dovremo sperare che qualche volenteroso amico europeo, ogni tanto, si faccia carico di qualche profugo. Grande vittoria della sinistra di governo. Eppure ci avevano spiegato che, senza il cattivo Salvini a fare la voce grossa, non saremmo rimasti soli. Certo, come no.
Infine, sorgono dubbi anche sulla tanto sbandierata «umanità» dei progressisti al comando. Non c'è occasione in cui il Pd non rivendichi il successo dell'ex ministro Marco Minniti, il quale sarebbe il vero artefice del crollo degli sbarchi. Posto che ora la tendenza si sta invertendo, è interessante leggere l'inchiesta di Nello Scavo su Avvenire. Quella in cui si spiegava, sempre ieri, che fu il Viminale a guida Pd a invitare al tavolo delle trattative sui migranti il trafficante libico Abdurahman Milad, detto Bija, un pericoloso capo della criminalità particolarmente spietato con gli aspiranti profughi.
Che costui sia stato a Roma in visita ufficiale ormai sembra appurato. Se al ministero non lo conoscevano, c'è da preoccuparsi. Se invece lo conoscevano e l'hanno chiamato ugualmente, beh, qualche spiegazione dovrà arrivare. È vero che in certe occasioni tocca sporcarsi le mani, ma da un partito che accusa Salvini di aver «impedito di salvare vite» una parolina ce l'aspettiamo. Accusano chi vuole i porti chiusi di riconsegnare i migranti ai lager libici, e poi trattavano con il capo dei lager? Ecco un'altra pessima figura a completare il quadro di un disastro conclamato.
Un altro straniero stupratore preso a Milano
Due stupri a distanza di 48 ore a Milano sono legati da inquietanti coincidenze: la giovane età delle vittime, quasi coetanee, e la provenienza degli aggressori, entrambi extracomunitari, ma regolari in Italia. Gli agguati sono avvenuti per strada e non in zone degradate della città. Dopo il colosso ivoriano con permesso di soggiorno per motivi umanitari che sabato notte ha aggredito la studentessa diciottenne in via Ortles, zona Ripamonti, cercando di violentarla, ieri notte in via Pasteur, una traversa di viale Monza, una delle strade radiali milanesi più importanti, una diciannovenne peruviana è stata abusata da un connazionale di 50 anni, che è in Italia da diversi anni e ha i documenti in regola. L'immigrato è stato arrestato dai carabinieri sul posto. La violenza, inaudita, è cominciata con una sevizia tramite un coccio di bottiglia. È continuata a calci e pugni. Ed è terminata, hanno ricostruito i carabinieri che hanno arrestato il peruviano, con un rapporto sessuale. La violenza, peraltro, è stata certificata poi alla Clinica Mangiagalli, dove la vittima è stata accompagnata dai soccorritori. Lì il personale medico ha preso in cura la ragazza e l'ha sottoposta al tampone. Il risultato, positivo, è stato subito comunicato alla Procura e ai carabinieri.
La ricostruzione che i militari dell'Arma hanno inviato ai magistrati (e che contiene anche la versione rilasciata nell'immediatezza dalla ragazza) sembra la trama di un film horror, che comincia con il classico inseguimento. Prima a distanza. Poi, quando la vittima si è accorta di quella presenza inquietante, sempre più da vicino. La ragazza ha avuto la prova di quanto temeva quando, impaurita, si è messa a correre. E lui dietro. Sempre più vicino. Finché lei non è inciampata. A quel punto si è sentita bloccare alle spalle ed è stata colpita con un coccio di bottiglia. Poi sono cominciati gli abusi. Il cinquantenne ha cominciato a spogliarla e l'ha costretta ad avere un rapporto sessuale. L'inseguimento è cominciato all'1.30 circa.
La ragazza stava rientrando a casa. E, coincidenza inquietante, quando sono stati chiamati i soccorsi (da un cittadino che stava rincasando e, dopo aver parcheggiato l'auto, ha praticamente assistito allo stupro), era circa lo stesso orario dell'aggressione di sabato notte. Al momento della chiamata al 112 la violenza era ancora in corso. Tant'è che l'uomo ha descritto con precisione la scena che si era trovato davanti, comprese le urla della vittima.
Dopo pochi minuti i carabinieri sono arrivati sul posto, hanno arrestato il peruviano in flagranza di reato e l'hanno portato a San Vittore. Oltre ai segni della violenza sessuale la ragazza ha riportato anche delle contusioni. La sua coetanea è stata più fortunata. Nonostante la prestanza fisica dell'ivoriano che l'ha aggredita è riuscita a divincolarsi e urlando l'ha messo in fuga. L'immigrato le ha però sottratto il cellulare. Ma è stata la sua condanna. Perché, poco dopo, i carabinieri che hanno soccorso la vittima raccogliendo anche la sua testimonianza l'hanno beccato a qualche isolato di distanza con il cellulare ancora in tasca. Come era ovvio immaginare l'ivoriano ha negato di aver aggredito e palpeggiato la ragazza. Lo smartphone però l'ha incastrato. E anche lui è finito a San Vittore. E mentre il sindaco Beppe Sala chiede altri corridoi umanitari, l'ex vicesindaco e assessore alla Sicurezza Riccardo De Corato gli fa notare che «nell'ultimo mese non si contano più le rapine, i furti, le aggressioni anche a forze dell'ordine, sempre per mano di stranieri». E dopo un lungo elenco dei fatti di cronaca più gravi, De Corato si chiede «cosa deve accadere ancora per far capire a Sala che Milano è satura?».
La violenza degli ultimi giorni però non è rimasta circoscritta a Milano. A Roma ieri sera un semplice controllo di documenti poteva trasformarsi in una tragedia. E se non ci sono state conseguenze drammatiche è stato solo per la prontezza di uno dei poliziotti intervenuti. I fatti: una pattuglia della polizia di Stato ferma due stranieri in via Ricasoli, all'Esquilino. Alla richiesta di documenti uno dei due fugge a piedi. È un nigeriano di 20 anni ed ha già dei precedenti. Si accorge che i poliziotti lo stanno per acciuffare e, a quel punto, sceglie di tentare il tutto per tutto: si ferma e aggredisce uno degli agenti.
Nella colluttazione ha cercato di sfilargli la pistola. Si è aggrappato alla fondina. Ma il poliziotto, aiutato dal collega, ha reagito. Ed è riuscito a evitare che lo straniero si impossessasse dell'arma. In quel caso la situazione sarebbe potuta degenerare facilmente. Alla fine il nigeriano è stato arrestato con l'accusa di lesioni a pubblico ufficiale. Il poliziotto aggredito è finito in ospedale con una prognosi di dieci giorni. Ma l'ennesima tragedia di uomini in divisa, per fortuna, è stata evitata.
La pellicola spot per lo ius culturae dimostra soltanto che non serve
«Lo hanno soprannominato il Nanni Moretti di Torpignattara», scriveva ieri di lui Avvenire. E con questo, Phaim Bhuiyan ce lo siamo giocati già ventiduenne: il giovane regista di origini bangladesi non ha fatto in tempo ad affacciarsi nel mondo del grande schermo che subito gli è toccata l'etichetta ferale di cineasta feticcio della sinistra, una roba che ti riempie di recensioni compiacenti ma ti svuota le sale.
L'occasione, tuttavia, era troppo ghiotta: vuoi mettere la bellezza di avere uno spot vivente allo ius soli che ti fa il giro delle sette chiese nei salotti tv progressisti? Intanto, ieri è andato su Rai 2 il suo Bangla, con tempismo perfetto rispetto al dibattito sullo ius culturae. Lo sbarco in tv è stato ovviamente accompagnato da una serie di articoli adoranti, tutti peraltro entusiasti di poter abbreviare Torpignattara in «Torpigna», con soli 36 anni di ritardo su Vacanze di Natale del 1983, che poi è stata anche l'ultima volta che la cosa ha fatto ridere. Ma si sa, il vernacolo spesso funziona bene come succedaneo del rapporto perduto con la realtà.
Eccoci con Bangla, quindi, un film basato su una storia così originale che ci si stupisce che Christopher Nolan non ne abbia ancora comprato i diritti per un remake hollywoodiano: la storia d'amore tra due giovani di due mondi diversi. Spiazzati, eh? Lui è un giovane bangladese integrato, ma con una famiglia musulmana conservatrice, lei una italiana che viene da un contesto alto borghese. Tutti rivedranno i loro rispettivi pregiudizi e l'amore trionferà. Evviva.
Nel frattempo, la marchetta allo ius soli è confezionata. Eppure, a leggere le interviste a Bhuiyan, pare di capire che di questa legge, tutto sommato, non ci sia così tanto bisogno. Lui, per cominciare, è diventato italiano a 18 anni, con la legge vigente, senza che la cosa gli impedisse di integrarsi. E l'apartheid di cui si vaneggia e che la nuova legge dovrebbe appunto sanare? Non pervenuta. A Cinecittà news, che gli chiedeva come avesse vissuto la sua vita all'incrocio tra le due identità, il regista ha risposto: «Con spensieratezza. Ho avuto la fortuna di essere considerato sempre come italiano». Ah, ecco. E la ghettizzazione nelle scuole? «Nella scuola è più semplice perché non ci sono quelle distinzioni che si fanno da adulti», replica l'italobangladese ad Avvenire. Insomma, nessun bambino di serie B.
In compenso, dalle parole di Bhuiyan emerge chiara la necessità di un tempo piuttosto consistente per far sedimentare l'integrazione. «Tra i bengalesi», dice a Cinecittà news, «parlare di sesso è tabù, così i ragazzi devono imparare tutto da soli. È vero che ci sono i matrimoni combinati, è un fatto culturale». Aggiunge inoltre che «è vero che le storie con gli italiani non sono ben viste». Ad Avvenire, poi, ha raccontato delle difficoltà nel raccontare l'islam: «Ho parlato con l'imam per vedere se certe scene potessero dare fastidio». E con il giovane integrato che chiede il permesso all'imam per fare una commedia, da Torpigna è tutto.
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Il Consiglio Ue degli Affari interni, dedicato al patto sottoscritto a Malta, si rivela il solito buco nell'acqua. Luciana Lamorgese resta vaga («Non do numeri») e la Germania fa la furba: «Se ne arrivano troppi ci sfiliamo».La riapertura dei porti provoca più morti, le ricette di Bruxelles sono fuffa. E si scopre che il governo Pd trattava con i trafficanti.Dopo l'aggressione di sabato, ventenne violentata per strada. A Roma nigeriano attacca un poliziotto.Arriva in tv Bangla, di Phaim Bhuiyan, integratosi alla perfezione con la legge vigente.Lo speciale contiene quattro articoli.Doveva essere una svolta storica, e invece l'accordo di Malta sulla redistribuzione dei migranti rischia di trasformarsi in un clamoroso flop. L'esito del Consiglio degli Affari europei svoltosi ieri - che ha visto al centro della discussione i destini di un'intesa che, almeno sulla carta, dovrebbe rappresentare l'inizio di una nuova fase nella gestione dei flussi migratori verso il continente europeo - si è concluso con un deludente nulla di fatto. Eloquente il commento dell'autorevole quotidiano tedesco Handelsblatt, che ha riportato l'assenza di qualsiasi «impegno concreto» da parte dei partner europei. Sono passate poco più di due settimane dall'annuncio in pompa magna del raggiungimento del compromesso firmato a La Valletta da Italia, Francia, Germania e Malta per la ricollocazione degli arrivi. «Non siamo più soli», aveva esultato il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, e c'era già chi (mondo delle Ong in pole position) si fregava le mani per la ripresa degli sbarchi. La stessa Lamorgese aveva lodato l'iniziativa definendola il primo passo concreto per un «approccio di vera azione comune europea». Molto più morigerati, invece, i toni a margine del meeting. Sull'accordo di Malta «siamo stati in grado di allargare il cerchio dei Paesi a sostegno» del meccanismo di «ricollocamento rapido nel caso dell'arrivo di nuove navi», ha dichiarato il ministro francesce dell'Ue Amelie de Montchalin, aggiungendo che «ci sono circa dieci Paesi pronti a prendere parte, e forse anche altri dopo i dettagli che abbiamo fornito». Ci ha pensato la titolare del Viminale a spegnere gli entusiasmi. Prima rifiutandosi di fornire numeri concreti sulle dimensioni di questa intesa («non c'è alcun numero minimo di Paesi aderenti»), e in seguito minimizzando sulle conseguenze politiche dell'incontro di ieri. «Questo è un preaccordo che abbiamo fatto, già adesso praticamente opera perché, quando arrivano degli sbarchi, noi facciamo già la suddivisione con tutti i Paesi che hanno dato disponibilità», ha spiegato la Lamorgese al termine del consiglio. La partita però è tutt'altro che chiusa: «Dobbiamo operare perché l'accordo abbia una valenza anche per gli altri Stati. Speriamo di chiudere tra novembre e dicembre». E quando si tratta di fare nomi e cognomi, il nostro ministro dell'Interno si mostra assai più prudente rispetto alla de Montchalin. Sarebbero appena «tre o quattro» i Paesi che hanno aperto a una possibile adesione all'accordo di Malta, che come se non bastasse coincidono con quelli che «avevano già dato la loro disponibilità». Tra questi, il Lussemburgo (che ospitava l'incontro di ieri), l'Irlanda e la Finlandia, alla quale spetta la presidenza di turno del Consiglio dell'Ue. Tutto sembra dunque, tranne che un successo. Sebbene infatti la Lamorgese abbia ribadito che il meccanismo è di fatto «già operativo», d'altro canto ha specificato che «non c'è niente di scritto» e che l'obiettivo è che «sia allargato il più possibile». Tradotto in termini più semplici, si tratta di un accordo ristretto a una piccola cerchia di partecipanti, debole nei contenuti e perciò a rischio di essere spazzato via in men che non si dica.D'altronde i nodi da sciogliere non sono pochi. Uno dei punti caldi rimasti in sospeso riguarda la definizione dello status dei migranti interessati dall'accordo, in particolare se sono compresi o meno quelli economici oppure solo quelli che rientrano nello status di rifugiati. Lo stesso ministro dell'Interno tedesco Horst Seehofer (dunque uno dei promotori dell'intesa) ha tenuto a precisare proprio ieri che qualora il numero dei migranti in arrivo dovesse aumentare rapidamente non esiterebbe a ritirarsi dall'accordo. «Se centinaia di persone dovessero diventare migliaia», ha affermato Seehofer, «direi senza dubbio che il meccanismo di emergenza può dichiararsi concluso». Un po' come dire: finché alla Germania fa comodo, l'accordo può ritenersi valido, diversamente è da considerarsi carta straccia. Non esattamente quello che si potrebbe definire un ragionamento solidale. Forse è anche per la mancanza di un vero spirito comunitario che la maggior parte di 27 Paesi presenti al Consiglio alla fine si sono tirati indietro. Tra i più contrari all'accordo di redistribuzione troviamo senza dubbio gli Stati del gruppo Visegrad, ovvero Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Ma anche altri membri dell'Ue hanno deciso di fare sentire la propria voce. Grecia, Cipro e Bulgaria hanno presentato un documento nel quale fanno presente che «negli ultimi mesi l'attenzione degli Stati europei si è rivolta principalmente al Mediterraneo centrale, del quale si è discusso a fondo nei precedenti meeting». «Nonostante gli ultimi rapporti dimostrino che il trend degli arrivi è in costante aumento», argomentano i tre Paesi, «il percorso del Mediterraneo orientale non è stato correttamente attenzionato». Gli estensori del documento sono preoccupati che le recenti tensioni in Siria e Turchia peggiorino questa tendenza. 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Ed ecco Matteo Orfini del Pd pronto a sorvolare le acque come un avvoltoio: «La colpa non è del buonismo», ha detto, «ma di chi ha scritto decreti che impediscono alle navi di salvare vite». Posizione simile, seppur leggermente più moderata, quella di Roberto Saviano. Il coretto non ammette stecche: se i migranti sono periti nel Mediterraneo è perché ci sono poche Ong a pattugliare. Peccato che il ragionamento traballi. Citiamo la ricostruzione dell'evento proposta da Repubblica, giusto per non sembrare faziosi: «L'isola è a 6 miglia quando, poco dopo le tre di notte, la barca in legno, con l'acqua che entra e il motore ingovernabile, si rovescia sotto gli occhi dei militari della Guardia costiera e della Guardia di finanza accorsi con le motovedette per soccorrerli». Dunque le navi c'erano, e con gente esperta a bordo. Quindi il punto non è che mancassero i soccorsi. Il punto è che le persone non devono partire, altrimenti rischiano la vita. Meno partenze causano meno morti. È un fatto, i numeri parlano chiaro. Secondo l'Unhcr (dichiarazione del primo ottobre) nel 2019 sono morte nel Mediterraneo un migliaio di persone. Comunque troppe, ma decisamente meno rispetto ai 4.733 del 2016, quando l'invasione era continua e i taxi del mare solcavano a pieno ritmo il Mare nostrum. I progressisti italiani, tuttavia, non sentono ragioni. Hanno una sola risposta da offrire: porti aperti e più accoglienza. E infatti gli sbarchi sono ripresi alla grande e ricominciamo - purtroppo - a contare i cadaveri. Colpa di Salvini? Abbiano almeno un po' di rispetto per i morti ed evitino la propaganda. Ad esempio quella portata avanti (da Luigi Di Maio in primis) a proposito dei rimpatri. Varato il nuovo decreto, grandi pacche sulle spalle e dichiarazioni trionfalistiche. Nel frattempo, però, gli stranieri giunti a Lampedusa sono stati spartiti in Italia, e dalla Tunisia prosegue il flusso, per la gioia degli scafisti. Ovviamente, anche in questo frangente la responsabilità viene attribuita al precedente governo, colpevole di non aver siglato accordi con i Paesi di provenienza. Viene da chiedersi dove fosse il ministro degli Esteri, mesi fa, quando c'era da trattare con gli Stati africani. E dove fossero gli altri rappresentanti dell'esecutivo, che hanno scaricato al responsabile del Viminale l'ingrato compito. Riepilogando: fallimentare e mortifera la politica dei porti aperti, finora infruttuosa quella sui rimpatri. Andrà meglio - si dice l'ottimista - in sede europea, con il nuovo accordo sui ricollocamenti abbozzato a Malta. E invece nisba. Ieri Luciana Lamorgese era in Lussemburgo, avrebbe dovuto portare a casa un patto definitivo ma ha certificato il flop. «Non do numeri, perché per adesso quelli che hanno detto di sì sono quei 3-4 Paesi hanno dato disponibilità, come Lussemburgo e Irlanda. Dobbiamo operare perché l'accordo abbia una valenza anche sugli altri Paesi. Dobbiamo cercare di allargare la condivisione». Ecco, questo sarebbe l'esito del Consiglio europeo. L'accordicchio in questione è stato sottoscritto da Francia, Germania, Italia, Finlandia e Malta. A cui si sono aggiunti ieri Lussemburgo, Portogallo e Irlanda. In compenso, la Francia ha già fatto sapere di non essere per niente intenzionata a farsi carico dei migranti economici. E il ministro tedesco dell'Interno Horst Seehofer ha usato la mazza chiodata: «Se i migranti da salvare aumentano allora posso annunciare domani che il meccanismo di emergenza si ferma». Per altro, lo stesso patterello maltese prevede che, in caso di aumento dei flussi, tutto venga ridiscusso. Per tirare le somme: sconfitta su tutta la linea. Continueremo a prenderci i clandestini in arrivo e dovremo sperare che qualche volenteroso amico europeo, ogni tanto, si faccia carico di qualche profugo. Grande vittoria della sinistra di governo. Eppure ci avevano spiegato che, senza il cattivo Salvini a fare la voce grossa, non saremmo rimasti soli. Certo, come no. Infine, sorgono dubbi anche sulla tanto sbandierata «umanità» dei progressisti al comando. Non c'è occasione in cui il Pd non rivendichi il successo dell'ex ministro Marco Minniti, il quale sarebbe il vero artefice del crollo degli sbarchi. Posto che ora la tendenza si sta invertendo, è interessante leggere l'inchiesta di Nello Scavo su Avvenire. Quella in cui si spiegava, sempre ieri, che fu il Viminale a guida Pd a invitare al tavolo delle trattative sui migranti il trafficante libico Abdurahman Milad, detto Bija, un pericoloso capo della criminalità particolarmente spietato con gli aspiranti profughi. Che costui sia stato a Roma in visita ufficiale ormai sembra appurato. Se al ministero non lo conoscevano, c'è da preoccuparsi. Se invece lo conoscevano e l'hanno chiamato ugualmente, beh, qualche spiegazione dovrà arrivare. È vero che in certe occasioni tocca sporcarsi le mani, ma da un partito che accusa Salvini di aver «impedito di salvare vite» una parolina ce l'aspettiamo. Accusano chi vuole i porti chiusi di riconsegnare i migranti ai lager libici, e poi trattavano con il capo dei lager? Ecco un'altra pessima figura a completare il quadro di un disastro conclamato. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/laccordo-europeo-sui-ricollocamenti-e-un-fallimento-le-adesioni-3-o-4-2640888909.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="un-altro-straniero-stupratore-preso-a-milano" data-post-id="2640888909" data-published-at="1765406192" data-use-pagination="False"> Un altro straniero stupratore preso a Milano Due stupri a distanza di 48 ore a Milano sono legati da inquietanti coincidenze: la giovane età delle vittime, quasi coetanee, e la provenienza degli aggressori, entrambi extracomunitari, ma regolari in Italia. Gli agguati sono avvenuti per strada e non in zone degradate della città. Dopo il colosso ivoriano con permesso di soggiorno per motivi umanitari che sabato notte ha aggredito la studentessa diciottenne in via Ortles, zona Ripamonti, cercando di violentarla, ieri notte in via Pasteur, una traversa di viale Monza, una delle strade radiali milanesi più importanti, una diciannovenne peruviana è stata abusata da un connazionale di 50 anni, che è in Italia da diversi anni e ha i documenti in regola. L'immigrato è stato arrestato dai carabinieri sul posto. La violenza, inaudita, è cominciata con una sevizia tramite un coccio di bottiglia. È continuata a calci e pugni. Ed è terminata, hanno ricostruito i carabinieri che hanno arrestato il peruviano, con un rapporto sessuale. La violenza, peraltro, è stata certificata poi alla Clinica Mangiagalli, dove la vittima è stata accompagnata dai soccorritori. Lì il personale medico ha preso in cura la ragazza e l'ha sottoposta al tampone. Il risultato, positivo, è stato subito comunicato alla Procura e ai carabinieri. La ricostruzione che i militari dell'Arma hanno inviato ai magistrati (e che contiene anche la versione rilasciata nell'immediatezza dalla ragazza) sembra la trama di un film horror, che comincia con il classico inseguimento. Prima a distanza. Poi, quando la vittima si è accorta di quella presenza inquietante, sempre più da vicino. La ragazza ha avuto la prova di quanto temeva quando, impaurita, si è messa a correre. E lui dietro. Sempre più vicino. Finché lei non è inciampata. A quel punto si è sentita bloccare alle spalle ed è stata colpita con un coccio di bottiglia. Poi sono cominciati gli abusi. Il cinquantenne ha cominciato a spogliarla e l'ha costretta ad avere un rapporto sessuale. L'inseguimento è cominciato all'1.30 circa. La ragazza stava rientrando a casa. E, coincidenza inquietante, quando sono stati chiamati i soccorsi (da un cittadino che stava rincasando e, dopo aver parcheggiato l'auto, ha praticamente assistito allo stupro), era circa lo stesso orario dell'aggressione di sabato notte. Al momento della chiamata al 112 la violenza era ancora in corso. Tant'è che l'uomo ha descritto con precisione la scena che si era trovato davanti, comprese le urla della vittima. Dopo pochi minuti i carabinieri sono arrivati sul posto, hanno arrestato il peruviano in flagranza di reato e l'hanno portato a San Vittore. Oltre ai segni della violenza sessuale la ragazza ha riportato anche delle contusioni. La sua coetanea è stata più fortunata. Nonostante la prestanza fisica dell'ivoriano che l'ha aggredita è riuscita a divincolarsi e urlando l'ha messo in fuga. L'immigrato le ha però sottratto il cellulare. Ma è stata la sua condanna. Perché, poco dopo, i carabinieri che hanno soccorso la vittima raccogliendo anche la sua testimonianza l'hanno beccato a qualche isolato di distanza con il cellulare ancora in tasca. Come era ovvio immaginare l'ivoriano ha negato di aver aggredito e palpeggiato la ragazza. Lo smartphone però l'ha incastrato. E anche lui è finito a San Vittore. E mentre il sindaco Beppe Sala chiede altri corridoi umanitari, l'ex vicesindaco e assessore alla Sicurezza Riccardo De Corato gli fa notare che «nell'ultimo mese non si contano più le rapine, i furti, le aggressioni anche a forze dell'ordine, sempre per mano di stranieri». E dopo un lungo elenco dei fatti di cronaca più gravi, De Corato si chiede «cosa deve accadere ancora per far capire a Sala che Milano è satura?». La violenza degli ultimi giorni però non è rimasta circoscritta a Milano. A Roma ieri sera un semplice controllo di documenti poteva trasformarsi in una tragedia. E se non ci sono state conseguenze drammatiche è stato solo per la prontezza di uno dei poliziotti intervenuti. I fatti: una pattuglia della polizia di Stato ferma due stranieri in via Ricasoli, all'Esquilino. Alla richiesta di documenti uno dei due fugge a piedi. È un nigeriano di 20 anni ed ha già dei precedenti. Si accorge che i poliziotti lo stanno per acciuffare e, a quel punto, sceglie di tentare il tutto per tutto: si ferma e aggredisce uno degli agenti. Nella colluttazione ha cercato di sfilargli la pistola. Si è aggrappato alla fondina. Ma il poliziotto, aiutato dal collega, ha reagito. Ed è riuscito a evitare che lo straniero si impossessasse dell'arma. In quel caso la situazione sarebbe potuta degenerare facilmente. Alla fine il nigeriano è stato arrestato con l'accusa di lesioni a pubblico ufficiale. Il poliziotto aggredito è finito in ospedale con una prognosi di dieci giorni. Ma l'ennesima tragedia di uomini in divisa, per fortuna, è stata evitata. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/laccordo-europeo-sui-ricollocamenti-e-un-fallimento-le-adesioni-3-o-4-2640888909.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="la-pellicola-spot-per-lo-ius-culturae-dimostra-soltanto-che-non-serve" data-post-id="2640888909" data-published-at="1765406192" data-use-pagination="False"> La pellicola spot per lo ius culturae dimostra soltanto che non serve «Lo hanno soprannominato il Nanni Moretti di Torpignattara», scriveva ieri di lui Avvenire. E con questo, Phaim Bhuiyan ce lo siamo giocati già ventiduenne: il giovane regista di origini bangladesi non ha fatto in tempo ad affacciarsi nel mondo del grande schermo che subito gli è toccata l'etichetta ferale di cineasta feticcio della sinistra, una roba che ti riempie di recensioni compiacenti ma ti svuota le sale. L'occasione, tuttavia, era troppo ghiotta: vuoi mettere la bellezza di avere uno spot vivente allo ius soli che ti fa il giro delle sette chiese nei salotti tv progressisti? Intanto, ieri è andato su Rai 2 il suo Bangla, con tempismo perfetto rispetto al dibattito sullo ius culturae. Lo sbarco in tv è stato ovviamente accompagnato da una serie di articoli adoranti, tutti peraltro entusiasti di poter abbreviare Torpignattara in «Torpigna», con soli 36 anni di ritardo su Vacanze di Natale del 1983, che poi è stata anche l'ultima volta che la cosa ha fatto ridere. Ma si sa, il vernacolo spesso funziona bene come succedaneo del rapporto perduto con la realtà. Eccoci con Bangla, quindi, un film basato su una storia così originale che ci si stupisce che Christopher Nolan non ne abbia ancora comprato i diritti per un remake hollywoodiano: la storia d'amore tra due giovani di due mondi diversi. Spiazzati, eh? Lui è un giovane bangladese integrato, ma con una famiglia musulmana conservatrice, lei una italiana che viene da un contesto alto borghese. Tutti rivedranno i loro rispettivi pregiudizi e l'amore trionferà. Evviva. Nel frattempo, la marchetta allo ius soli è confezionata. Eppure, a leggere le interviste a Bhuiyan, pare di capire che di questa legge, tutto sommato, non ci sia così tanto bisogno. Lui, per cominciare, è diventato italiano a 18 anni, con la legge vigente, senza che la cosa gli impedisse di integrarsi. E l'apartheid di cui si vaneggia e che la nuova legge dovrebbe appunto sanare? Non pervenuta. A Cinecittà news, che gli chiedeva come avesse vissuto la sua vita all'incrocio tra le due identità, il regista ha risposto: «Con spensieratezza. Ho avuto la fortuna di essere considerato sempre come italiano». Ah, ecco. E la ghettizzazione nelle scuole? «Nella scuola è più semplice perché non ci sono quelle distinzioni che si fanno da adulti», replica l'italobangladese ad Avvenire. Insomma, nessun bambino di serie B. In compenso, dalle parole di Bhuiyan emerge chiara la necessità di un tempo piuttosto consistente per far sedimentare l'integrazione. «Tra i bengalesi», dice a Cinecittà news, «parlare di sesso è tabù, così i ragazzi devono imparare tutto da soli. È vero che ci sono i matrimoni combinati, è un fatto culturale». Aggiunge inoltre che «è vero che le storie con gli italiani non sono ben viste». Ad Avvenire, poi, ha raccontato delle difficoltà nel raccontare l'islam: «Ho parlato con l'imam per vedere se certe scene potessero dare fastidio». E con il giovane integrato che chiede il permesso all'imam per fare una commedia, da Torpigna è tutto.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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