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2022-06-07
La Ue impone un salario che non esiste
Dopo l’ultimo round negoziale di ieri (attraverso una faticosa triangolazione tra Parlamento europeo, Consiglio e Commissione), dovrebbe essere illustrata oggi dal commissario europeo al Lavoro, il lussemburghese Nicolas Schmit, la direttiva europea sul salario minimo, che poi sarà oggetto delle consuete procedure di recepimento nazionale.
La grancassa mediatica è pronta: già 21 paesi Ue su 27 prevedevano una misura del genere, e ora anche gli altri 6 (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia, Svezia) dovranno in qualche modo adeguarsi. Dicono i sostenitori più accesi della novità: in questo modo sarà fissata un’asticella di dignità nella retribuzione al di sotto della quale non si potrà scendere. La sensazione è che, qualcuno colposamente, qualcuno dolosamente, si sottovaluti l’effetto economico sulle imprese e, a cascata, il rischio che la misura possa rivelarsi «job killer», cioè un disincentivo ad assumere di più anziché un benefico incoraggiamento a farlo.
In ogni caso, vale la pena di esaminare quattro nodi che restano da sciogliere. Il primo ha a che fare con intenzioni antiche dei grillini, che colgono un oggettivo successo, dal loro punto di vista. Non c’è solo il Giuseppe Conte che ora fa facile demagogia e cerca una bandierina da sventolare, parlando di «paghe da fame» che, finalmente, verrebbero superate. Il lavorio grillino viene da lontano, da quando la proposta fu lanciata alcuni anni fa e fu celebrata sui giornali a fine 2020 dall’intervento a doppia firma di Nunzia Catalfo (ministra grillina del Lavoro nel gabinetto Conte bis) e dalla sua collega spagnola Yolanda Diaz (esponente del Partito comunista di Spagna e alleata di Podemos).
Il secondo nodo ha a che fare con l’entità del salario minimo, visto che tra i paesi Ue che lo adottano, secondo Eurostat, c’è un autentico abisso: si va dai 2.256 euro mensili del Lussemburgo ai 332 della Bulgaria. E di mezzo c’è tutto un ventaglio ultradiversificato: i 1.774 euro dell’Irlanda, i 1.621 della Germania, i 1.605 della Francia, ma pure i 515 della Romania e i 541 dell’Ungheria. Di tutta evidenza, un’omogeneizzazione totale sarebbe impensabile, viste le strutture letteralmente non paragonabili delle differenti economie nazionali. L’escamotage adottato dalla direttiva sarà infatti quello di «istituire un quadro per fissare salari minimi adeguati ed equi»: operazione che poi andrà declinata nazione per nazione.
Il terzo nodo è tutto politico. La strada maestra per affrontare l’oggettivo e pesantissimo problema dei salari ci sarebbe, ma va in tutt’altra direzione rispetto alle mire di statalisti e dirigisti: si tratterebbe di puntare su uno choc fiscale, su un potente taglio di tasse, ad esempio, come la Verità suggerisce da mesi, attingendo alla cifra monstre degli 80 miliardi stanziati da qui al 2029 per il reddito di cittadinanza. E invece in troppi vorrebbero tenersi il sussidio grillino, non mettere in agenda nessun consistente taglio fiscale, e semmai scaricare solo sulle imprese, già gravate da mille fragilità, costi ulteriori.
Il quarto e ultimo nodo ha a che fare con un tema storicamente rovente: cosa debba essere coperto dalla legge e cosa debba essere lasciato alla contrattazione. Esiste una tradizione riformista pro sussidiarietà che tenderebbe a lasciare più spazio alla contrattazione in generale, e in particolare alla contrattazione decentrata (anche aziendale), affidando a quel momento, ad esempio, la valorizzazione della produttività. Esiste anche una tradizione tutt’altro che riformista, anzi spesso assai forte nella Cgil e nella sinistra più radicale, che è ostile, ma per ragioni opposte, alla contrattazione decentrata, e preferisce la contrattazione collettiva nazionale. I motivi di questo orientamento sono evidenti: maggiore rigidità del sistema, e soprattutto maggiore soggettività politica (tradotto: potere di ricatto) del sindacato nazionale. E allora come si pone questa componente massimalista rispetto al nuovo scenario? Ha deciso di provare a sfruttare il nuovo contesto per allargare i propri spazi. Le avvisaglie già si coglievano nella lettera congiunta Catalfo-Diaz del 2020, in un passaggio chiave in cui le due ministre scrivevano: «Ma un pieno coinvolgimento delle parti sociali porta con sé anche altri vantaggi. Ad esempio, la stessa contrattazione collettiva ne beneficerà in termini di campo d’azione». Ecco l’espressione rivelatrice: «campo d’azione». Ora l’idea dei sindacati e di chi fa sponda con loro è di usare il nuovo strumento come cavallo di Troia per estendere il loro ambito di intervento, e portare la rappresentanza sindacale in modo capillare anche dove essa è stata storicamente meno presente. «La contrattazione da sola non basta più ma va integrata con lo strumento della rappresentanza. Bisogna trovare il modo per correlarle», ha detto di recente il ministro Andrea Orlando. L’obiettivo è fin troppo chiaro: penetrare nel sistema delle piccole e medie imprese. Con gli effetti che ciascuno può immaginare.
Governo spaccato, i dubbi della Lega. Sindacati in ordine sparso sui rischi
La direttiva europea sul salario minimo per legge plana sull’Italia spaccando il governo. Il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta, ha detto un no forte e chiaro all’introduzione per legge di una soglia retributiva di base comune a tutti i lavoratori, mentre il M5s continua ad essere favorevole a cominciare dal leader Giuseppe Conte che aveva chiarito: «Se per alcuni politici è normale che si prendano paghe da fame, di 3-4 euro lordi l’ora, allora diciamo che la politica del M5s non è questa. Non accetteremo mai fino a quando non approveremo il salario minimo». Rincara l’eurodeputata grillina Daniela Rondinelli: «La direttiva rappresenta l’occasione per l’Italia di dare risposte concrete alla povertà lavorativa e riformare il sistema di contrattazione collettiva impedendo i contratti pirata che generano dumping nel mercato del lavoro. I salari bassi non solo compromettono il potere di acquisto dei lavoratori ma incidono anche negativamente sulla capacità di crescita della nostra economia». Frena, invece, il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti (Lega): «Il salario minimo non deve essere un tabù ma bisogna stare attenti a come si fa», come spiega il deputato della Lega e responsabile del dipartimento Lavoro, Claudio Durigon: «No al salario minimo per legge ma rinnovare i contratti scaduti e defiscalizzare la produttività. La legge sul compenso minimo rischierebbe solo di provocare un allineamento al ribasso dei salari. In Italia la contrattazione collettiva è applicata all’85% dei lavoratori e ha portato ai lavoratori stessi tante opportunità e tanti diritti, basti pensare al welfare o alla contrazione di secondo livello. Oggi dobbiamo incentivare ancor di più l’estensione della contrattazione ed eliminare quei contratti che fanno dumping». Più disponibile il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, secondo cui la misura sarebbe un modo per «per assicurare un salario dignitoso a tanti lavoratori». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Maria Cecilia Guerra di Leu, sottosegretaria all’Economia: «Sono anche favorevole a una legge sul salario minimo che, però, agganci il salario alle altre tutele stabilite dalla contrattazione collettiva, che nel nostro Paese deve restare particolarmente rilevante». Il timore che una soglia di base degli stipendi rischi di incidere negativamente sulla contrattazione collettiva e appiattire al ribasso le buste paga, ha scatenato i distinguo dei sindacati. Per il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, «il salario minimo va esteso e rafforzato attraverso la contrattazione», mentre il leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri malgrado sia favorevole, ha una sola preoccupazione: «Non sostituisca i contratti». «Non dobbiamo ascoltare l’Europa solo quando ci dice di tagliare le pensioni o cancellare l’articolo 18 o tagliare la spesa sociale» ha detto il segretario della Cgil, Maurizio Landini. «Se finalmente», ha continuato, «tutta l’Ue si rende conto che salari bassi e lavoratori precari senza diritti mettono in discussione la tenuta sociale, bisogna ascoltarla. La questione va affrontata in modo intelligente, dal salario minimo si può arrivare in Italia a una legge sulla rappresentanza che consenta ai lavoratori di eleggere i loro delegati e di votare sugli accordi che li riguardino». Quella del salario minimo «mi pare la classica arma di distrazione di massa rispetto ai problemi del lavoro in Italia, perché il salario minimo riguarda una fetta di lavoratori già garantiti dal contratto nazionale di lavoro, dentro cui tendenzialmente c’è un salario minimo» ha detto invece la leader di FdI Giorgia Meloni.
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Riduci
In arrivo la direttiva sulla retribuzione garantita per legge. In realtà c’è un’ampia forbice tra i Paesi (21 su 27) che lo adottano: dai 2.256 euro del Lussemburgo ai 332 della Bulgaria. L’obiettivo è politico e salderà l’asse statalista tra i grillini, il Pd e la Cgil.Salario minimo: Per la Cisl va «esteso e rafforzato» mentre la Uil teme che sostituisca i contratti.Lo speciale contiene due articoli.Dopo l’ultimo round negoziale di ieri (attraverso una faticosa triangolazione tra Parlamento europeo, Consiglio e Commissione), dovrebbe essere illustrata oggi dal commissario europeo al Lavoro, il lussemburghese Nicolas Schmit, la direttiva europea sul salario minimo, che poi sarà oggetto delle consuete procedure di recepimento nazionale. La grancassa mediatica è pronta: già 21 paesi Ue su 27 prevedevano una misura del genere, e ora anche gli altri 6 (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia, Svezia) dovranno in qualche modo adeguarsi. Dicono i sostenitori più accesi della novità: in questo modo sarà fissata un’asticella di dignità nella retribuzione al di sotto della quale non si potrà scendere. La sensazione è che, qualcuno colposamente, qualcuno dolosamente, si sottovaluti l’effetto economico sulle imprese e, a cascata, il rischio che la misura possa rivelarsi «job killer», cioè un disincentivo ad assumere di più anziché un benefico incoraggiamento a farlo.In ogni caso, vale la pena di esaminare quattro nodi che restano da sciogliere. Il primo ha a che fare con intenzioni antiche dei grillini, che colgono un oggettivo successo, dal loro punto di vista. Non c’è solo il Giuseppe Conte che ora fa facile demagogia e cerca una bandierina da sventolare, parlando di «paghe da fame» che, finalmente, verrebbero superate. Il lavorio grillino viene da lontano, da quando la proposta fu lanciata alcuni anni fa e fu celebrata sui giornali a fine 2020 dall’intervento a doppia firma di Nunzia Catalfo (ministra grillina del Lavoro nel gabinetto Conte bis) e dalla sua collega spagnola Yolanda Diaz (esponente del Partito comunista di Spagna e alleata di Podemos). Il secondo nodo ha a che fare con l’entità del salario minimo, visto che tra i paesi Ue che lo adottano, secondo Eurostat, c’è un autentico abisso: si va dai 2.256 euro mensili del Lussemburgo ai 332 della Bulgaria. E di mezzo c’è tutto un ventaglio ultradiversificato: i 1.774 euro dell’Irlanda, i 1.621 della Germania, i 1.605 della Francia, ma pure i 515 della Romania e i 541 dell’Ungheria. Di tutta evidenza, un’omogeneizzazione totale sarebbe impensabile, viste le strutture letteralmente non paragonabili delle differenti economie nazionali. L’escamotage adottato dalla direttiva sarà infatti quello di «istituire un quadro per fissare salari minimi adeguati ed equi»: operazione che poi andrà declinata nazione per nazione. Il terzo nodo è tutto politico. La strada maestra per affrontare l’oggettivo e pesantissimo problema dei salari ci sarebbe, ma va in tutt’altra direzione rispetto alle mire di statalisti e dirigisti: si tratterebbe di puntare su uno choc fiscale, su un potente taglio di tasse, ad esempio, come la Verità suggerisce da mesi, attingendo alla cifra monstre degli 80 miliardi stanziati da qui al 2029 per il reddito di cittadinanza. E invece in troppi vorrebbero tenersi il sussidio grillino, non mettere in agenda nessun consistente taglio fiscale, e semmai scaricare solo sulle imprese, già gravate da mille fragilità, costi ulteriori. Il quarto e ultimo nodo ha a che fare con un tema storicamente rovente: cosa debba essere coperto dalla legge e cosa debba essere lasciato alla contrattazione. Esiste una tradizione riformista pro sussidiarietà che tenderebbe a lasciare più spazio alla contrattazione in generale, e in particolare alla contrattazione decentrata (anche aziendale), affidando a quel momento, ad esempio, la valorizzazione della produttività. Esiste anche una tradizione tutt’altro che riformista, anzi spesso assai forte nella Cgil e nella sinistra più radicale, che è ostile, ma per ragioni opposte, alla contrattazione decentrata, e preferisce la contrattazione collettiva nazionale. I motivi di questo orientamento sono evidenti: maggiore rigidità del sistema, e soprattutto maggiore soggettività politica (tradotto: potere di ricatto) del sindacato nazionale. E allora come si pone questa componente massimalista rispetto al nuovo scenario? Ha deciso di provare a sfruttare il nuovo contesto per allargare i propri spazi. Le avvisaglie già si coglievano nella lettera congiunta Catalfo-Diaz del 2020, in un passaggio chiave in cui le due ministre scrivevano: «Ma un pieno coinvolgimento delle parti sociali porta con sé anche altri vantaggi. Ad esempio, la stessa contrattazione collettiva ne beneficerà in termini di campo d’azione». Ecco l’espressione rivelatrice: «campo d’azione». Ora l’idea dei sindacati e di chi fa sponda con loro è di usare il nuovo strumento come cavallo di Troia per estendere il loro ambito di intervento, e portare la rappresentanza sindacale in modo capillare anche dove essa è stata storicamente meno presente. «La contrattazione da sola non basta più ma va integrata con lo strumento della rappresentanza. Bisogna trovare il modo per correlarle», ha detto di recente il ministro Andrea Orlando. L’obiettivo è fin troppo chiaro: penetrare nel sistema delle piccole e medie imprese. Con gli effetti che ciascuno può immaginare.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-ue-impone-un-salario-che-non-esiste-2657469083.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="governo-spaccato-i-dubbi-della-lega-sindacati-in-ordine-sparso-sui-rischi" data-post-id="2657469083" data-published-at="1654607500" data-use-pagination="False"> Governo spaccato, i dubbi della Lega. Sindacati in ordine sparso sui rischi La direttiva europea sul salario minimo per legge plana sull’Italia spaccando il governo. Il ministro della Pubblica amministrazione Renato Brunetta, ha detto un no forte e chiaro all’introduzione per legge di una soglia retributiva di base comune a tutti i lavoratori, mentre il M5s continua ad essere favorevole a cominciare dal leader Giuseppe Conte che aveva chiarito: «Se per alcuni politici è normale che si prendano paghe da fame, di 3-4 euro lordi l’ora, allora diciamo che la politica del M5s non è questa. Non accetteremo mai fino a quando non approveremo il salario minimo». Rincara l’eurodeputata grillina Daniela Rondinelli: «La direttiva rappresenta l’occasione per l’Italia di dare risposte concrete alla povertà lavorativa e riformare il sistema di contrattazione collettiva impedendo i contratti pirata che generano dumping nel mercato del lavoro. I salari bassi non solo compromettono il potere di acquisto dei lavoratori ma incidono anche negativamente sulla capacità di crescita della nostra economia». Frena, invece, il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti (Lega): «Il salario minimo non deve essere un tabù ma bisogna stare attenti a come si fa», come spiega il deputato della Lega e responsabile del dipartimento Lavoro, Claudio Durigon: «No al salario minimo per legge ma rinnovare i contratti scaduti e defiscalizzare la produttività. La legge sul compenso minimo rischierebbe solo di provocare un allineamento al ribasso dei salari. In Italia la contrattazione collettiva è applicata all’85% dei lavoratori e ha portato ai lavoratori stessi tante opportunità e tanti diritti, basti pensare al welfare o alla contrazione di secondo livello. Oggi dobbiamo incentivare ancor di più l’estensione della contrattazione ed eliminare quei contratti che fanno dumping». Più disponibile il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, secondo cui la misura sarebbe un modo per «per assicurare un salario dignitoso a tanti lavoratori». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Maria Cecilia Guerra di Leu, sottosegretaria all’Economia: «Sono anche favorevole a una legge sul salario minimo che, però, agganci il salario alle altre tutele stabilite dalla contrattazione collettiva, che nel nostro Paese deve restare particolarmente rilevante». Il timore che una soglia di base degli stipendi rischi di incidere negativamente sulla contrattazione collettiva e appiattire al ribasso le buste paga, ha scatenato i distinguo dei sindacati. Per il segretario della Cisl, Luigi Sbarra, «il salario minimo va esteso e rafforzato attraverso la contrattazione», mentre il leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri malgrado sia favorevole, ha una sola preoccupazione: «Non sostituisca i contratti». «Non dobbiamo ascoltare l’Europa solo quando ci dice di tagliare le pensioni o cancellare l’articolo 18 o tagliare la spesa sociale» ha detto il segretario della Cgil, Maurizio Landini. «Se finalmente», ha continuato, «tutta l’Ue si rende conto che salari bassi e lavoratori precari senza diritti mettono in discussione la tenuta sociale, bisogna ascoltarla. La questione va affrontata in modo intelligente, dal salario minimo si può arrivare in Italia a una legge sulla rappresentanza che consenta ai lavoratori di eleggere i loro delegati e di votare sugli accordi che li riguardino». Quella del salario minimo «mi pare la classica arma di distrazione di massa rispetto ai problemi del lavoro in Italia, perché il salario minimo riguarda una fetta di lavoratori già garantiti dal contratto nazionale di lavoro, dentro cui tendenzialmente c’è un salario minimo» ha detto invece la leader di FdI Giorgia Meloni.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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