2024-04-15
«La Ue che fa guerra al vino tradisce il mercato comune»
Il capo dell’associazione di categoria, Lamberto Frescobaldi: «Col via libera alle etichette dissuasive Bruxelles ha sposato acriticamente le posizioni ideologiche dell’Oms. Ma il settore non è in crisi».Non tutte le vendemmie sorridono agli uomini. L’ultima per l’Italia è stata la più scarsa degli ultimi settant’anni: 38 milioni di ettolitri, un quarto in meno dell’anno prima. C’è da piangere sul vino mancato? Forse, ma a dirla tutta nelle cantine d’Italia c’erano tante, troppe bottiglie non vendute. E ora? Si respira. Vista da Verona - dove da ieri è cominciata la cinquantaseiesima edizione del Vinitaly con i soliti anacronistici problemi di traffico, di parcheggi introvabili, di eserciti d’imbucati, di blogger improvvisati con un quartiere fieristico che sembra di colpo invecchiato come lo sono forse le fiere in sé - l’Italia delle cantine s’è mesta. O forse è solo più responsabile; i tempi da ricchi premi e cotillon sono - giustamente - tramontati, le mode dei difetti spacciati per qualità sono scemate sotto i colpi di un mercato diventato di colpo difficile, selettivo. Dove contano qualità, storia e marchio. Per capire come va davvero un settore che - a seconda delle stime - vale dai 13 ai 15 miliardi, ne fattura all’estero 7,7 (qualcuno dice che sono meno: 5,5, e quel qualcuno è l’Ismea, che comunque sia è sempre la voce più importante del fatturato agricolo), dà lavoro diretto a un milione di persone, è composto da almeno 6.500 aziende strutturate e qualche altra decina di migliaia di coltivatori, e muove un indotto che vale almeno due volte, in questa domenica di Vinitaly Lamberto Frescobaldi, un nome e otto secoli di storia, presidente dell’Unione italiana vini, fa un pre consuntivo. Certo, considerato da chi ha tra gli avi musicisti e scrittori, esploratori e politici, da chi, se guarda indietro, vede i suoi maggiori coltivare vigna in quel di Pomino che Cosimo III dei Medici nel 1716 elevò a prima Doc col Valdarno, il Chianti e il Carmignano, il vino è oltre l’economia, oltre i numeri: il vino è civiltà.Prendiamola di petto: il vino è in crisi?«Negli ultimi 30 anni, e segnatamente da tre o quattro lustri, c’è stato un cambio di passo poderoso della nostra viticoltura: il vigneto e il vino italiano sono ai vertici mondiali. Ci sono produttori, tanti, che segnano il mercato nel mondo, la qualità italiana è riconosciuta come assoluta e c’è davvero tantissima voglia d’Italia nel mondo. Questo fondamento di credibilità, di qualità, di riconoscibilità è un patrimonio solido e consolidato. Poi ci sono - come sempre e come in tutti i settori - momenti di flessione, che per noi vignaioli devono diventare anche momenti di riflessione».Eppure presidente Frescobaldi c’è chi dice: si produce troppo, dobbiamo spiantare i vigneti. Verità o crisi di nervi?«Parlare di espianti della vigna è una solenne sciocchezza. Sono contrario come produttore e sono contrario come presidente dell’Unione italiana vini. Non stiamo producendo troppo, abbiamo semmai delle sfide da affrontare con la viticoltura che va sempre migliorata, adeguata, sulla quale dobbiamo fare ricerca. Molti si sono dimenticati di quando noi che coltivavamo l’uva soffrivamo anche in termini economici, perché il pallino ce l’avevano gli imbottigliatori. Il mondo è radicalmente cambiato. Penso alla mia Toscana, che è passata dalle damigiane a vini che il mondo c’invidia. La sfida oggi non è spiantare la vigna, ma dare un’identità forte al vino, renderlo riconoscibile col valore territorio. Non produciamo troppo, è vero che dobbiamo produrre sempre meglio, ma senza l’uva buona non si fa qualità. Siamo tornati a dare centralità alla coltivazione e oggi abbiamo degli enologi che la sanno valorizzare nel vino finito».Gli Usa sono stati davvero la nostra America. È passata l’infatuazione per l’Italia?«Mi stupisco sempre nel constatare la valanga delle parole: si è cominciato a dire che negli Usa non si vende. E da lì una narrazione da tregenda. Non è così. È vero che si sono ridotti i consumi: ma noi italiani abbiamo fatto -3,3%, i francesi hanno perso il 10. L’America a noi l’ha aperta la ristorazione e la cucina italiana, che non è più quella della tovaglia a quadretti: è la più domandata e sicuramente la migliore. Basti pensare che oggi una pizza gourmet la pagano 50-60 dollari senza batter ciglio. Abbiamo conquistato gli Usa prima con la moda, poi con le auto, poi con i ristoranti e infine col vino. Sarà perché io sono toscano, ma gli americani adorano i nostri vini».Quindi non c’è un problema di export?«C’è sempre il problema di come conquistare e tenere i mercati. C’è in Russia dove vogliono metterci dazi del 200%, c’è in Cina, c’è in parte in Europa dove la flessione del potere d’acquisto e l’inflazione influiscono sui consumi, ma noi sappiamo resistere e abbiamo molte opportunità. Penso al Prosecco: il suo successo ci ha consolidato in mercati fondamentali come quello britannico, ci ha consentito di tenere in Germania e in Austria e si è riverberato su tutti gli spumanti italiani, anche i metodo classico, anche quelli da vitigno autoctono hanno avuto un trascinamento importante. Il successo degli spumanti italiani è significativo. No, non parlerei di una crisi».Ma la campagna anti alcol non influisce?«Sì, purtroppo. Il vino è responsabile solo del 20% del consumo di alcol. Abbiamo migliaia di studi che confermano che bere moderatamente aiuta la salute, ma temo che l’Oms sia su una posizione ideologica. Che forse fa comodo a qualcuno che ha molti soldi da spendere per vendere la sua merce. Come Unione italiana vini abbiamo fatto una bellissima ed efficace campagna di educazione al bere responsabile, all’approccio del vino come valore identitario e culturale. E la verità sta dalla nostra parte».Non la pensa così l’Europa: si è dato il via libera alle etichette dissuasive in Irlanda, ora ci si è messo il Belgio. Non vi sentite sotto tiro?«Sì, e aggiungo che l’Europa dando il via libera all’Irlanda ha tradito sé stessa. Ha smentito i suoi fondamenti. Ha dichiarato guerra al vino. L’Europa è nata perché avessimo un mercato comune: uguale per tutti nelle regole e nelle opportunità. Col via libera all’Irlanda la Commissione, che ha assunto acriticamente le posizioni dell’Oms, ha fatto crollare la ragione del mercato comune. Rischia di far naufragare quello spirito che ci ha uniti per smettere di farci le guerre, per vivere in comunità più ampia e in pace. Verso il vino l’Europa si è dimostrata nemica. Siamo riusciti a contrastare certe distorsioni, ma il vulnus rimane».Anche la Pac è sotto attacco, l’agricoltura ha ragione a lamentarsi?«La politica agricola comunitaria è servita, e molto, a chi fa le colture estensive. Va cambiata, certo. Va per esempio detto che aggredire l’agricoltura per eliminare la CO2 è sbagliato. Ero giorni fa ad un convegno dove ci si confrontava su chi genera più emissioni: ebbene il 70% viene dalle città. Il 59% dagli edifici, il 24% dalla mobilità, l’agricoltura pesa meno del 14%. Eppure si è impostata una politica agricola comunitaria sotto questo aspetto punitiva. Forse perché è più semplice aggredire i campi che non le città». L’Unione italiana vini ha posto il tema del vino dealcolato, non è un pericolo?«Un pericolo sarebbe lasciare questo mercato fuori dal perimetro dell’attività dei viticoltori. Certo che vini di qualità e dealcolati sono due mercati diversi. Ma non si può ignorare che c’è una richiesta in questo senso. Do solo un dato: il 30% della birra che si consuma è senza alcol. Va fatto un distinguo: è molto più semplice dealcolare uno spumante che non un vino fermo e certo nessuno pensa di snaturare i nostri grandi vini. Però dobbiamo essere consapevoli che o lo produciamo noi rispettando la qualità delle uve e il ciclo produttivo oppure lo faranno altri, magari i famosi bibitari delle multinazionali. Noi ci stiamo battendo perché anche i dealcolati restino nel perimetro normativo della produzione vitivinicola. E non è neppure così vero che solo i gruppi maggiori possono produrlo. Ci sono tecniche e macchine, consolidate da anni, che consentono anche realtà aziendali di minori dimensioni di approcciarsi a quel mercato».Ma non sarebbe un ulteriore elemento di confusione? Già ce n’è tanta attorno alle Doc. Forse abbiamo esagerato?«C’è bisogno di mettere a posto il sistema delle Doc, forse ce ne sono di eccessive, però il sistema delle denominazioni è fondamentale. Quando all’estero spiego che cosa è una Docg e qual è il livello di garanzia restano colpiti. Ricordo quando si è fatta l’Igt Toscana quale spinta qualitativa ha dato».Con la presunta crisi ci sta che la finanza venga a fare shopping?«La finanza di rapina ci ha provato e se ne è andata con le pive nel sacco. Noi viviamo sotto il cielo, viviamo vendemmia dopo vendemmia una sfida con mille elementi di alea. Un apporto positivo della finanza in termini di capitali sarebbe positivo. Se penso a gruppi come Kering, come Arnault, quando sono entrati nel vino lo hanno fatto con rispetto. Il fatto è che la finanza vuole tutto e subito, invece i grandi vini sfidano il tempo. Altra cosa è porre la necessità dell’efficienza delle aziende».È vero che non si trova personale, che i giovani non vengono in campagna?«Quando ero ragazzo gli studenti venivano, contenti di fare la vendemmia. La verità è che la campagna è fatica e sacrificio. E noi genitori non abbiamo più educato i ragazzi al senso dell’impegno e del sacrificio. Ai tempi miei se prendevi 3 a scuola ti mettevano in punizione, oggi vanno a protestare col professore. La colpa non è dei ragazzi, è di noi genitori. Però ci son squadre di vendemmiatori che si muovono nel mondo a seconda delle stagioni, ci sono i potatori che viaggiano in aereo da un continente all’altro. Se un ragazzo mi chiedesse perché devo venire in campagna, io gli risponderei: perché sei libero, perché la natura ti è compagna e perché fare il vino è la cosa più bella del mondo!».
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)