2021-02-28
La Terra è un orologio nei parchi delle statue
Bosco sacro di Bomarzo (Ansa)
Fino a 30 anni fa, aree quali il giardino di Venaria erano abbandonate. E nel dopoguerra, nel Bosco sacro di Bomarzo, pascolavano le pecore. È in questi luoghi, oggi turistici, sospesi tra le rovine del passato e un futuro a noi inaccessibile, che s'impara cos'è il tempo.Ogni stagione offre una percezione distinta di quel labirinto di simboli e volumetrie che popola un giardino. Se l'estate, grazie alla luce estesa del sole, i cieli azzurri, le rondini in volo, le fioriture e le masse vegetali è il trionfo del piacere e della leggerezza, l'inverno suggerisce immobilità, accarezza la finta morte del ciclo naturale, apre spazi e ci conduce a una visione contemplativa. Curiosamente certi elementi s'impongono egualmente in entrambe le stagioni, sebbene così diverse: si tratta delle sculture e degli edifici che costellano gli spazi minimi o ampi di un giardino. Il poeta olandese Cees Noteboom ha scritto questi versi: «Ben pochi sanno che cos'è il mondo / ma in ogni caso è un orologio». Divertente no? Non stupisce visto che a scriverlo è un autore che ha immaginato, in un romanzo, addirittura l'esistenza di montagne nel proprio Paese. Le statue e le architetture neoclassiche che possiamo andare a visitare nei giardini sono testimoni della validità filosofica ed estetica di quest'intuizione poetica. Si pensi ad esempio ai nuovi giardini che circondano la Reggia Reale di Venaria a Torino, l'avete visitata? Due sono le opere presenti alle quali sto pensando: un enorme albero in bronzo firmato da Giuseppe Penone, presente nel suo Giardino delle Sculture Fluide (tre ettari di interventi a fianco dell'edificio principale), simbolo del tempo che scorre, e l'antica troneggiante statua di un Ercole, scolpita dall'artista Bernardo Falconi; essa apparteneva a una collezione a cielo aperto di 300 busti e colossi marmorei di cui ci rimangono raffigurazioni pittoriche. Osservandola potrebbe suggerirci di essere sempre stata qui, e lo era, molto tempo fa, l'unica statua sopravvissuta dell'antico impianto, quando la reggia era abitata dai Savoia e operava da manifesto di ricchezza e simulacro politico. Poi l'abbandono, due secoli di lontananza, prima a Villa del Capriglio, sulla collina del capoluogo piemontese, quindi nei magazzini di Palazzo Madama, dove la statua fermentava polveri mentre la fastosa Sala di Diana veniva invasa dai cavalli, dall'esercito, e infine dai ladri. Se mettessimo il nostro orologio mondiale indietro di 70 anni, agli inizi degli anni Cinquanta, al principio della nostra Repubblica, in Europa ci si risollevava dalle macerie e dai disastri della seconda guerra mondiale e negli Stati Uniti prendevano coraggio le rivendicazioni delle popolazioni cosiddette minoritarie e la contestazione alimentava la musica soul e il primo rock and roll; se potessimo andare in visita in quelli che sono in seguito diventati visitatissimi luoghi del cuore, Covid-19 a parte, ne ricaveremmo un'impressione molto diversa. Ad esempio a Venaria potremmo constatare sfacelo e abbandono. I primi giardini che visitai da bambino, con mio padre a fare da Cicerone, erano nelle città di Milano e Genova e la pulizia, negli anni Ottanta, non era ancora una primaria necessità turistica. Ancora resisteva un certo distacco da tutto quel che pareva vecchio e consumato dal tempo, e in qualche misura le contestazioni sociali, culturali e politiche degli anni Sessanta e Settanta imponevano di non dedicare grandi risorse per mantenere certe espressioni delle classi privilegiate che per secoli avevano regolato la vita comune od ordinaria dei popoli. Un discorso che ovviamente oggi può risultare ridicolo, fastidioso, addirittura irritante e osceno. Ma per anni, per decenni, i punti di vista sono stati ben diversi dagli attuali. L'abbandono di castelli e residenze appartenute e abitate dai Savoia, o dalle famiglie cadette, aveva radici profonde nelle disgrazie e nelle scelte tutt'altro che luminose fatte nell'arco del ventennio fascista. Quando è caduto il muro di Berlino abbiamo ricominciato a guardarci intorno senza filtri ideologici e abbiamo fatalmente scoperto che il paesaggio italiano era disseminato di bellezze in rovina, un reale, concreto patrimonio che abbiamo avuto modo e forza di recuperare. Quale lettore non ha mai visitato il famoso Bosco sacro o Parco dei mostri di Bomarzo, nel Lazio? Ogni volta che ci ritorno mi emoziona, ne parleremo in dettaglio in una delle prossime puntate. Al bookshop del parco potete acquistare una fotografia che ha fatto la storia, in bianco e nero, una cartolina decisamente datata e ingiallita. Vi si vede uno dei monumenti simbolo del luogo, la grande bocca spalancata dentro la quale quasi sicuramente anche voi siete entrati e sul cui margine vi sarete fatti immortalare. Al tempo in cui venne scattata questa fotografia, credo nei primi decenni del XX secolo, o al più tardi l'immediato dopoguerra, un pastorello in calzoncini corti controlla un gregge di pecore che brucano l'erba e strappano le radici dal terreno. Esiste forse immagine più efficace per dimostrare quanto sia vero che il mondo è un orologio? Lasceremmo mai oggi vagare greggi di bestiole nei giardini botanici delle nostre regge, ville storiche e musei cittadini? Eppure l'Italia, come la Grecia, l'Egitto e altri Paesi dalla lunga storia, per secoli sono stati emblema di decadenza e di un luminoso passato oramai in rovina.Lo storico dell'arte François Crouzet ha scritto: «Tutti i giardini sono costruiti da bambini. Sfortunatamente, i bambini crescono e si fanno adulti. Apprendono che tutto quel che pensavano fosse unico è nei fatti banale, e che tutto quel che reputavano eterno è transitorio. Scoprono che tutto quel che amano è fragile e mortale. Successivamente, e piacevolmente, faranno una nuova scoperta: sebbene la vita sia destinata a concludersi si rigenererà. Più del giardino sono importanti i suoi ricordi - i rimpianti, i sogni - e i fantasmi dei giardini che abbiamo visualizzato nell'occhio della mente mentre odoravamo un mazzo di fiori, o chiudevamo gli occhi pensando ai giardini visti in passato» (dall'introduzione al volume From folly to follies. Discovering the world of gardens, 1997, Evergreen, a cura di Michel Saudan e Sylvia Saudan-Skira). E così scrivevo in un saggio uscito qualche anno fa per i tipi di Laterza, L'Italia è un giardino: «Nei giardini il tempo non è soltanto l'ora a disposizione per la visita guidata, o le due ore che ci siamo concessi come svago dalla routine. Il tempo è il muro che si è sbriciolato e tinto di giallo. Il tempo è il rampicante che ha sfondato un pilastro. Il tempo è il volto di un padre della Chiesa che il sole e le muffe stanno definitivamente cancellando, sull'antica abside di una cattedrale. Il tempo è la vegetazione abbondante che pitta il fondo del fiume meglio di un quadro. Il tempo è un albero abbattuto da un fulmine e dentro il quale ora riposa, la notte, una famiglia di ghiri. Il tempo è materia, la corrode, la muta, la traveste. Fra un ano, fra cinque anni, fra 20 anni, quel “resto del mondo" sarà diverso. Noi (ci) saremo ancora?».