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2019-03-26
Prima ci fa la morale, poi Macron vende a Xi Jinping 300 Airbus
Ansa
Il viaggio di Xi Jinping in Italia e in Europa alza il velo su numerose ipocrisie. Prima su tutte una Unione piena di bachi, che nasconde la propria fragilità economica dietro l'impalcatura degli accordi, e non sembra disposta a comprendere il cambio di passo che arriva da Est e pure da Ovest. Per questo gli accordi con la Cina sono al tempo stesso opportunità e pericolo. Consentono al nostro Paese di uscire dagli schemi europei, ma ci espongono a eventuali rappresaglie americane. Non è un caso che, nel decreto che regola i rapporti con la Gran Bretagna in caso di Brexit firmato ieri dal presidente della Repubblica, sia spuntato lo scudo sulle attività del 5G.
In pratica, come anticipato dal Sole 24 Ore, il testo aggiorna la legge del 2012 e stabilisce che costituiscono «attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale i servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati sulla tecnologia 5G».
Il successivo comma spiega che il meccanismo di tutela dello Stato scatterà - ed è una novità rispetto alla vecchia normativa - anche nel caso di forniture di materiali e servizi, e non solo nei casi di acquisizioni di partecipazioni azionarie. Si tratta chiaramente della rassicurazione che Donald Trump ha chiesto più volte. Se però il nostro Paese sarà in grado da gestire questo particolare aspetto del futuro tecnologico dell'economia tricolore, potrà cogliere le altre opportunità e soprattutto uscire dal dualismo dell'asse francotedesco. Sul fatto che sia arrivato il momento di scardinare lo schema non dovrebbero esserci più dubbi. Ieri uno studio dell'istituto dei sindacati europei dell'Etuc ha dimostrato chiaramente che i salari reali in media sono più bassi oggi di dieci anni fa in Italia e in altri sette Paesi Ue. C'è invece stato un boom nei Paesi dell'Est, in Francia e in Germania.
In pratica seguendo uno schema simile all'andamento della produttività che vede l'Italia all'ultimo posto nella classifica dei Paesi euro. Nel periodo 2009-2019, gli stipendi aggiustati rispetto all'inflazione sono scesi del 23% in Grecia, dell'11% in Croazia, del 7% a Cipro, del 4% in Portogallo, del 3% in Spagna, del 2% in Italia e dell'1% in Gran Bretagna e Ungheria. In Germania invece sono aumentati dell'11% e in Francia del 7%. La Bulgaria spicca con un +87%, seguita a distanza dalla Romania (+34%), dalla Polonia (+30%), e dai Paesi baltici (Lettonia, Lituania ed Estonia, tra il +21% e il +20%). Al di là dei commenti dei sindacati che chiedono nuovi contratti nazionali (boicottando quelli aziendali che potrebbero essere una soluzione interessante), il dato da analizzare è l'andamento nel decennio. Man mano che l'Europa a motrice francotedesca si è allargata a Est, i tradizionali Paesi periferici hanno visto la concorrenza delle buste paghe dai neo membri. Le politiche inclusive di Francia e Germania hanno permesso di assorbire il trend dei costi orari. Cosa che non è avvenuta per il nostro Paese, e nemmeno per la Gran Bretagna. La discutibile scelta della Brexit nasce da questo handicap e gli analisti politici non possono non tenerne conto. L'Italia, che certamente resta gravata da un debito pubblico difficilmente sostenibile, non può restare ancorata a vincoli europei che non sono in grado di portare soluzioni concrete né al calo della produttività né al crollo dei salari. Quando Usa e Cina troveranno un accordo sui dazi - e accadrà perché Trump ha necessità di portare un risultato concreto ai propri elettori in vista della tornata di voto del 2020 - e i due colossi faranno pace, il Vecchio continente si troverà schiacciato come un vaso fragile.
A quel punto sperare in accordi bilaterali sarà una benedizione. Meno di due settimana fa Trump ha ribadito: «Se l'Ue non parla con gli Usa, imporremo dazi su molti dei loro prodotti». Parole che allungano un'ombra sull'imposizione di nuove tariffe doganali su auto e componentistica prodotte fuori dagli Usa e importate negli Stati Uniti.
E la mossa sarà tanto più rigida quanto gli accordi con la Cina saranno equilibrati. Esattamente il contrario di quanto Jean-Claude Juncker ha sempre sbandierato. Senza contare che chi ha sperato dieci anni fa negli accordi quadro attorno al volano del Wto ha dovuto ammettere quanto l'idea sia stata un fallimento. Dopo Lehman Brothers, il mondo è cambiato, si è evoluto e ha portato a politiche protezionistiche. Queste non si combattono con accordi multilaterali ma bilaterali. L'Europa non lo capisce, perché dovrebbe ammettere la propria inutilità. Per tutti questi motivi la strada verso la Cina vale la pena essere percorsa anche se imporrà difficili equilibrismi. Alle nostre spalle c'è l'immagine di Juncker, Emmanuel Macron e di Angela Merkel che cercano di intestarsi una Via comune della seta. Meglio non guardarsi indietro.
«Senza la fiducia del Vaticano niente Via della seta»
C'è una «Via» parallela a quella della seta, forse ancora più importante rispetto a quella menzionata negli accordi commerciali, ed è quella che riguarda i rapporti tra il Vaticano e la cina. Eppure da giorni la narrazione dei media mainstream è rimasta avvitata sulle presunte divisioni nel governo gialloblù. Nessuna sorpresa per i lettori della Verità, i quali hanno potuto apprendere l'intenzione di visitare la Cappella Palatina da parte di Xi Jinping ben sette giorni prima che questi mettesse piedi in terra siciliana. Senza contare il fatto che già all'inizio della settimana scorsa rivelavamo i nomi dei veri registi dietro alla tappa italiana del presidente cinese: il presidente Sergio Mattarella e, soprattutto, papa Francesco. «È la Santa sede che da oltre un anno preme per l'accordo sulla Via della seta perché diventerebbe il perimetro dentro il quale il quale il potere temporale della Chiesa riuscirebbe a muoversi con più facilità», scrivevamo.
Se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi, a smentirlo arrivano le parole dell'uomo che muove i fili della comunicazione vaticana, padre Antonio Spadaro. Con un editoriale pubblicato ieri sulla Stampa, il direttore della Civiltà Cattolica benedice l'intesa firmata da Xi e dal nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Sempre ieri il premier, nel corso della presentazione del libro scritto dal gesuita, La Chiesa in Cina, ha dichiarato: «Seguiremo con grande interesse, come autorità di governo, gli sviluppi di questo dialogo».
Vista la vicinanza con il Pontefice, quello di Spadaro è molto più di un endorsement a titolo personale. «Firmato il memorandum con tutte le reazioni che esso ha suscitato», ha scritto, «dobbiamo adesso guardare avanti e considerare come l'iniziativa cinese non può essere valutata solamente per la sua rilevanza in campo economico e finanziario. Sarebbe miope». Servendosi di un'accorata analisi geopolitica (si va da «Non è immaginabile un Oriente che emerga e sommerga l'Occidente» a «La cultura europea, almeno fino all'Illuminismo, ha sempre guardato con attenzione a quella cinese»), Spadaro arriva a dire ciò che più gli preme.
Prima di tutto, l'accordo provvisorio sottoscritto il 22 settembre scorso tra Pechino e la Santa sede per la nomina dei vescovi deve essere collocato nel «cambio di panorama» voluto da Francesco e mirato al superamento del paradigma colonialista. Un accordo, per usare le parole dello stesso Pontefice, in grado di «contribuire a scrivere questa pagina nuova della Chiesa cattolica in Cina», ma che non ha mancato di destare polemiche in senso alla Curia. Non solo per il fatto che, secondo molti, condividere le nomine dei pastori con Pechino finisce per intaccare l'indipendenza del potere spirituale. Ma anche e soprattutto per il profondo malumore causato dalla decisione di affidare la guida di due diocesi a vescovi scomunicati e poi perdonati da Francesco.
Secondo quanto dichiarato a Tempi dal cardinale Zen-Ze Kiun, l'accordo tra Vaticano e Cina «proprio nel momento in cui tutto il mondo vede che la Cina sta intensificando la persecuzione di tutte le religioni, compreso l'islam, è sinceramente pazzesco. Io credo che il Vaticano non capisca la sofferenza di questi fedeli». Forse anche per vincere le sacche di resistenza all'intesa lo scorso mese il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin ha detto: «Ora è importante dare esecuzione all'accordo provvisorio sulle nomine dei vescovi in Cina, e cominciare a farlo funzionare nella pratica».
Secondo, il tanto discusso incontro tra Xi e Francesco sarebbe solo questione di tempo. Se per Spadaro «è anche vero che la fiducia va costruita in maniera solida», d'altro canto «la Via della seta, per il suo respiro e le sue ambizioni non potrà realizzarsi senza questa crescente fiducia tra Pechino e Roma intesa come la sede di Pietro, data la natura globale del cristianesimo».
E qui arriviamo al dunque. Come spiega poco più avanti il padre gesuita, «fu proprio sulla Via della seta che avvenne uno straordinario incontro tra tradizioni religiose incontro fra tradizioni religiose diverse: cristiani, musulmani, zoroastriani e buddisti si incontrarono e vissero fianco a fianco», e perciò «non è difficile comprendere che la pace nel mondo passa per Cina e islam, due grandi priorità del pontificato di Francesco». La grande domanda irrisolta, al netto di questa ambiziosa missione, rimane quella sull'identità futura della Chiesa.
Nuovi accordi con Parigi Pechino compra 300 Airbus
Arrivato domenica in Francia dopo i tre giorni in Italia, ieri il presidente cinese Xi Jinping è stato accolto dall'omologo francese Emmanuel Macron all'Eliseo. In totale, sono 15 i contratti firmati ieri tra i due Paesi, in settori che spaziano dal nucleare all'aeronautico, dall'ambiente all'energia, dalla ricerca spaziale all'artistico. In particolare la Cina, attraverso China aviation supplies holding company, ha firmato un maxi ordine di 290 Airbus A320 e dieci A350. Secondo indiscrezioni, il contratto varrebbe circa 30 miliardi di euro. «Questa visita», ha scritto il presidente Macron su Twitter, «rafforzerà la nostra partnership strategica e affermerà il ruolo della Francia, dell'Europa e della Cina a favore di un multilateralismo forte».
Come analizza il quotidiano francese Les Echos, la Cina rappresenta per l'Eliseo un partner ma anche un rivale: da una parte gli interessi commerciali, dall'altra la minaccia tecnologica. «La Cina per noi rappresenta una sfida e, al tempo stesso, un partner», ha detto il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, sottolineando la necessità di rimanere «vigili sulle azioni che può intraprendere la Cina per arrivare alle nostre tecnologie». Pechino punta su Parigi per temi internazionali come le questioni alle Nazioni unite, la riforma dell'Organizzazione mondiale del commercio e il cambiamento climatico, come ha ricordato il leader cinese. Parigi, invece, guarda con interesse alla Via della seta. Ma la sua posizione, dopo l'intesa raggiunta a Roma tra Italia e Cina, si è irrigidita: «Se dobbiamo parlare di una nuova Via della seta, deve andare in entrambe le direzioni», ha avvertito il ministro Le Drian la scorsa settimana.
Ma l'attenzione è tutta rivolta alla giornata di oggi. Il presidente Macron, deciso a creare un fronte europeo per contrastare le ambizioni cinesi in Europa, come spiega il Figaro, ha infatti convocato per oggi all'Eliseo anche il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Questo incontro a quattro con il presidente Xi Jinping, organizzato in preparazione del vertice Ue-Cina previsto per il 9 aprile a Bruxelles, dimostra l'intenzione dell'asse Parigi-Berlino di mettere il sigillo sui rapporti con il Dragone e «punire» quei Paesi che, come l'Italia, decidono di muoversi in maniera autonoma. Dietro la promessa dell'Eliseo di una riunione per individuare punti di convergenza tra Europa e Cina su materie quali il commercio e il clima si nasconde infatti ben altro che l'«approccio coordinato» che il presidente Macron auspicava che l'Ue tenesse sulla questione. Ma l'Italia non è isolata, pur essendo il primo Paese del G7 a firmare un memorandum d'intesa con la Cina: prima di noi, l'avevano fatto altri, tra cui Croazia, Ungheria, Grecia, Polonia e Portogallo.
La mancanza di una posizione condivisa da tutti i Paesi membri dell'Unione europea fa gioco a Pechino. La Cina spera infatti di evitare l'elaborazione di una politica comune nei suoi confronti. Intanto, con un passaggio domenica nel Principato di Monaco, il presidente Xi Jinping, primo presidente cinese a visitare la Rocca, ha discusso con il principe Alberto dell'accordo che renderà Montecarlo il primo Paese al di fuori della Cina dotato della nuova tecnologia di telefonia mobile 5G, grazie a una partnership tra il contestato gigante delle telecomunicazioni cinese Huawei e Monaco Telecom.
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Il memorandum sulla Via della seta riduce l'influenza degli Usa e ci permette di smarcarci dai vincoli europei, che rendono la ripresa impossibile. Ma per assecondare Donald Trump il governo vara lo scudo sul 5G: si applicherà anche alle forniture di beni e servizi.«Senza la fiducia del Vaticano niente Via della seta». Antonio Spadaro, direttore della «Civiltà Cattolica», rivendica il ruolo della Chiesa. Giuseppe Conte: «Seguo il dialogo fra Pechino e Santa sede» .Nuovi accordi con Parigi Pechino compra 300 Airbus. Oggi pure Angela Merkel e Jean-Claude Juncker all'incontro fra Emmanuel Macron e il leader del Dragone.Lo speciale comprende tre articoli.Il viaggio di Xi Jinping in Italia e in Europa alza il velo su numerose ipocrisie. Prima su tutte una Unione piena di bachi, che nasconde la propria fragilità economica dietro l'impalcatura degli accordi, e non sembra disposta a comprendere il cambio di passo che arriva da Est e pure da Ovest. Per questo gli accordi con la Cina sono al tempo stesso opportunità e pericolo. Consentono al nostro Paese di uscire dagli schemi europei, ma ci espongono a eventuali rappresaglie americane. Non è un caso che, nel decreto che regola i rapporti con la Gran Bretagna in caso di Brexit firmato ieri dal presidente della Repubblica, sia spuntato lo scudo sulle attività del 5G.In pratica, come anticipato dal Sole 24 Ore, il testo aggiorna la legge del 2012 e stabilisce che costituiscono «attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale i servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati sulla tecnologia 5G».Il successivo comma spiega che il meccanismo di tutela dello Stato scatterà - ed è una novità rispetto alla vecchia normativa - anche nel caso di forniture di materiali e servizi, e non solo nei casi di acquisizioni di partecipazioni azionarie. Si tratta chiaramente della rassicurazione che Donald Trump ha chiesto più volte. Se però il nostro Paese sarà in grado da gestire questo particolare aspetto del futuro tecnologico dell'economia tricolore, potrà cogliere le altre opportunità e soprattutto uscire dal dualismo dell'asse francotedesco. Sul fatto che sia arrivato il momento di scardinare lo schema non dovrebbero esserci più dubbi. Ieri uno studio dell'istituto dei sindacati europei dell'Etuc ha dimostrato chiaramente che i salari reali in media sono più bassi oggi di dieci anni fa in Italia e in altri sette Paesi Ue. C'è invece stato un boom nei Paesi dell'Est, in Francia e in Germania.In pratica seguendo uno schema simile all'andamento della produttività che vede l'Italia all'ultimo posto nella classifica dei Paesi euro. Nel periodo 2009-2019, gli stipendi aggiustati rispetto all'inflazione sono scesi del 23% in Grecia, dell'11% in Croazia, del 7% a Cipro, del 4% in Portogallo, del 3% in Spagna, del 2% in Italia e dell'1% in Gran Bretagna e Ungheria. In Germania invece sono aumentati dell'11% e in Francia del 7%. La Bulgaria spicca con un +87%, seguita a distanza dalla Romania (+34%), dalla Polonia (+30%), e dai Paesi baltici (Lettonia, Lituania ed Estonia, tra il +21% e il +20%). Al di là dei commenti dei sindacati che chiedono nuovi contratti nazionali (boicottando quelli aziendali che potrebbero essere una soluzione interessante), il dato da analizzare è l'andamento nel decennio. Man mano che l'Europa a motrice francotedesca si è allargata a Est, i tradizionali Paesi periferici hanno visto la concorrenza delle buste paghe dai neo membri. Le politiche inclusive di Francia e Germania hanno permesso di assorbire il trend dei costi orari. Cosa che non è avvenuta per il nostro Paese, e nemmeno per la Gran Bretagna. La discutibile scelta della Brexit nasce da questo handicap e gli analisti politici non possono non tenerne conto. L'Italia, che certamente resta gravata da un debito pubblico difficilmente sostenibile, non può restare ancorata a vincoli europei che non sono in grado di portare soluzioni concrete né al calo della produttività né al crollo dei salari. Quando Usa e Cina troveranno un accordo sui dazi - e accadrà perché Trump ha necessità di portare un risultato concreto ai propri elettori in vista della tornata di voto del 2020 - e i due colossi faranno pace, il Vecchio continente si troverà schiacciato come un vaso fragile.A quel punto sperare in accordi bilaterali sarà una benedizione. Meno di due settimana fa Trump ha ribadito: «Se l'Ue non parla con gli Usa, imporremo dazi su molti dei loro prodotti». Parole che allungano un'ombra sull'imposizione di nuove tariffe doganali su auto e componentistica prodotte fuori dagli Usa e importate negli Stati Uniti. E la mossa sarà tanto più rigida quanto gli accordi con la Cina saranno equilibrati. Esattamente il contrario di quanto Jean-Claude Juncker ha sempre sbandierato. Senza contare che chi ha sperato dieci anni fa negli accordi quadro attorno al volano del Wto ha dovuto ammettere quanto l'idea sia stata un fallimento. Dopo Lehman Brothers, il mondo è cambiato, si è evoluto e ha portato a politiche protezionistiche. Queste non si combattono con accordi multilaterali ma bilaterali. L'Europa non lo capisce, perché dovrebbe ammettere la propria inutilità. Per tutti questi motivi la strada verso la Cina vale la pena essere percorsa anche se imporrà difficili equilibrismi. Alle nostre spalle c'è l'immagine di Juncker, Emmanuel Macron e di Angela Merkel che cercano di intestarsi una Via comune della seta. 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Senza contare il fatto che già all'inizio della settimana scorsa rivelavamo i nomi dei veri registi dietro alla tappa italiana del presidente cinese: il presidente Sergio Mattarella e, soprattutto, papa Francesco. «È la Santa sede che da oltre un anno preme per l'accordo sulla Via della seta perché diventerebbe il perimetro dentro il quale il quale il potere temporale della Chiesa riuscirebbe a muoversi con più facilità», scrivevamo. Se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi, a smentirlo arrivano le parole dell'uomo che muove i fili della comunicazione vaticana, padre Antonio Spadaro. Con un editoriale pubblicato ieri sulla Stampa, il direttore della Civiltà Cattolica benedice l'intesa firmata da Xi e dal nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Sempre ieri il premier, nel corso della presentazione del libro scritto dal gesuita, La Chiesa in Cina, ha dichiarato: «Seguiremo con grande interesse, come autorità di governo, gli sviluppi di questo dialogo». Vista la vicinanza con il Pontefice, quello di Spadaro è molto più di un endorsement a titolo personale. «Firmato il memorandum con tutte le reazioni che esso ha suscitato», ha scritto, «dobbiamo adesso guardare avanti e considerare come l'iniziativa cinese non può essere valutata solamente per la sua rilevanza in campo economico e finanziario. Sarebbe miope». Servendosi di un'accorata analisi geopolitica (si va da «Non è immaginabile un Oriente che emerga e sommerga l'Occidente» a «La cultura europea, almeno fino all'Illuminismo, ha sempre guardato con attenzione a quella cinese»), Spadaro arriva a dire ciò che più gli preme. Prima di tutto, l'accordo provvisorio sottoscritto il 22 settembre scorso tra Pechino e la Santa sede per la nomina dei vescovi deve essere collocato nel «cambio di panorama» voluto da Francesco e mirato al superamento del paradigma colonialista. Un accordo, per usare le parole dello stesso Pontefice, in grado di «contribuire a scrivere questa pagina nuova della Chiesa cattolica in Cina», ma che non ha mancato di destare polemiche in senso alla Curia. Non solo per il fatto che, secondo molti, condividere le nomine dei pastori con Pechino finisce per intaccare l'indipendenza del potere spirituale. Ma anche e soprattutto per il profondo malumore causato dalla decisione di affidare la guida di due diocesi a vescovi scomunicati e poi perdonati da Francesco. Secondo quanto dichiarato a Tempi dal cardinale Zen-Ze Kiun, l'accordo tra Vaticano e Cina «proprio nel momento in cui tutto il mondo vede che la Cina sta intensificando la persecuzione di tutte le religioni, compreso l'islam, è sinceramente pazzesco. Io credo che il Vaticano non capisca la sofferenza di questi fedeli». Forse anche per vincere le sacche di resistenza all'intesa lo scorso mese il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin ha detto: «Ora è importante dare esecuzione all'accordo provvisorio sulle nomine dei vescovi in Cina, e cominciare a farlo funzionare nella pratica». Secondo, il tanto discusso incontro tra Xi e Francesco sarebbe solo questione di tempo. Se per Spadaro «è anche vero che la fiducia va costruita in maniera solida», d'altro canto «la Via della seta, per il suo respiro e le sue ambizioni non potrà realizzarsi senza questa crescente fiducia tra Pechino e Roma intesa come la sede di Pietro, data la natura globale del cristianesimo». E qui arriviamo al dunque. Come spiega poco più avanti il padre gesuita, «fu proprio sulla Via della seta che avvenne uno straordinario incontro tra tradizioni religiose incontro fra tradizioni religiose diverse: cristiani, musulmani, zoroastriani e buddisti si incontrarono e vissero fianco a fianco», e perciò «non è difficile comprendere che la pace nel mondo passa per Cina e islam, due grandi priorità del pontificato di Francesco». 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In particolare la Cina, attraverso China aviation supplies holding company, ha firmato un maxi ordine di 290 Airbus A320 e dieci A350. Secondo indiscrezioni, il contratto varrebbe circa 30 miliardi di euro. «Questa visita», ha scritto il presidente Macron su Twitter, «rafforzerà la nostra partnership strategica e affermerà il ruolo della Francia, dell'Europa e della Cina a favore di un multilateralismo forte». Come analizza il quotidiano francese Les Echos, la Cina rappresenta per l'Eliseo un partner ma anche un rivale: da una parte gli interessi commerciali, dall'altra la minaccia tecnologica. «La Cina per noi rappresenta una sfida e, al tempo stesso, un partner», ha detto il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, sottolineando la necessità di rimanere «vigili sulle azioni che può intraprendere la Cina per arrivare alle nostre tecnologie». Pechino punta su Parigi per temi internazionali come le questioni alle Nazioni unite, la riforma dell'Organizzazione mondiale del commercio e il cambiamento climatico, come ha ricordato il leader cinese. Parigi, invece, guarda con interesse alla Via della seta. Ma la sua posizione, dopo l'intesa raggiunta a Roma tra Italia e Cina, si è irrigidita: «Se dobbiamo parlare di una nuova Via della seta, deve andare in entrambe le direzioni», ha avvertito il ministro Le Drian la scorsa settimana. Ma l'attenzione è tutta rivolta alla giornata di oggi. Il presidente Macron, deciso a creare un fronte europeo per contrastare le ambizioni cinesi in Europa, come spiega il Figaro, ha infatti convocato per oggi all'Eliseo anche il cancelliere tedesco Angela Merkel e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Questo incontro a quattro con il presidente Xi Jinping, organizzato in preparazione del vertice Ue-Cina previsto per il 9 aprile a Bruxelles, dimostra l'intenzione dell'asse Parigi-Berlino di mettere il sigillo sui rapporti con il Dragone e «punire» quei Paesi che, come l'Italia, decidono di muoversi in maniera autonoma. Dietro la promessa dell'Eliseo di una riunione per individuare punti di convergenza tra Europa e Cina su materie quali il commercio e il clima si nasconde infatti ben altro che l'«approccio coordinato» che il presidente Macron auspicava che l'Ue tenesse sulla questione. Ma l'Italia non è isolata, pur essendo il primo Paese del G7 a firmare un memorandum d'intesa con la Cina: prima di noi, l'avevano fatto altri, tra cui Croazia, Ungheria, Grecia, Polonia e Portogallo. La mancanza di una posizione condivisa da tutti i Paesi membri dell'Unione europea fa gioco a Pechino. La Cina spera infatti di evitare l'elaborazione di una politica comune nei suoi confronti. Intanto, con un passaggio domenica nel Principato di Monaco, il presidente Xi Jinping, primo presidente cinese a visitare la Rocca, ha discusso con il principe Alberto dell'accordo che renderà Montecarlo il primo Paese al di fuori della Cina dotato della nuova tecnologia di telefonia mobile 5G, grazie a una partnership tra il contestato gigante delle telecomunicazioni cinese Huawei e Monaco Telecom.
Ansa
Suo figlio, Naveed Akram, 24 anni, è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza della polizia. Le piste investigative principali restano due. Da un lato, la cosiddetta pista iraniana, ritenuta plausibile da ambienti israeliani; dall’altro, l’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato islamico, avanzata da alcuni media, anche se l’organizzazione jihadista - che solitamente rivendica con rapidità le proprie azioni - non ha diffuso alcun messaggio di rivendicazione. Un elemento rilevante emerso dalle indagini è il ritrovamento, nell’auto di Naveed Akram, di una bandiera nera del califfato e di ordigni poi disinnescati dagli artificieri.
In attesa di chiarire chi vi sia realmente dietro la strage di Hanukkah, quanto accaduto domenica in Australia non appare come un evento isolato o imprevedibile. Al contrario, si inserisce in una lunga scia di attacchi e intimidazioni antisemite contro la comunità ebraica e le sue istituzioni. Più in generale, rappresenta l’esito di almeno vent’anni di progressiva penetrazione jihadista nel Paese. A dimostrarlo sono anche i numeri dei foreign fighter australiani: circa 200 cittadini avrebbero raggiunto, tra il 2011 e il 2019, la Siria e l’Iraq per unirsi a organizzazioni jihadiste come lo Stato islamico e il Fronte Al Nusra. In Australia, per motivi incomprensibili le autorità non monitorano da anni ambienti di culto radicalizzati dove si inneggia ad Al Qaeda, Isis, Hamas, Hezbollah e Iran, alimentando un clima di radicalizzazione che ha prodotto gravi conseguenze.
Tra i principali predicatori radicali figura Wisam Haddad, noto anche come Abu Ousayd, leader spirituale di una rete pro Isis, individuata da un’inchiesta della Abc. Nonostante fosse sotto osservazione da decenni, non è mai stato formalmente accusato di terrorismo, un’anomalia che evidenzia l’inerzia dello Stato. Haddad feroce antisemita, predica una visione intransigente della Sharia, rifiutando il concetto di Stato e nazionalismo, attirando giovani radicalizzati e facilmente manipolabili. La sua rete ha contribuito al passaggio dalla radicalizzazione verbale al reclutamento operativo. Uno degli attori chiave di questa rete è Youssef Uweinat, ex reclutatore dell’Isis. Conosciuto come Abu Musa Al Maqdisi, ha adescato minorenni australiani, spingendoli alla violenza tramite chat criptate e propaganda jihadista, con messaggi espliciti, immagini di decapitazioni e video di bambini addestrati all’uso delle armi. Condannato nel 2019, Uweinat è stato rilasciato nel 2023 senza misure di sorveglianza severe e ha riallacciato i contatti con Haddad. Inoltre, Uweinat faceva parte di una cellula Isis infiltrata da una fonte dell’Asio, l’intelligence australiana, che ha documentato i piani di attacco e i legami con jihadisti all’estero.
Anche Joseph Saadieh, ex leader giovanile dell’ Al Madina Dawah Centre, ha fatto parte della rete. Arrestato nel 2021 con prove di supporto all’Isis, è stato rilasciato dopo un patteggiamento per un reato minore. L’inchiesta Abc riporta inoltre il ritorno di figure storiche del jihadismo australiano, come Abdul Nacer Benbrika, condannato per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, presunto leader di una cellula Isis a Sydney. Questi ritorni indicano un tentativo di rilancio della rete jihadista. Secondo l’Asio, l’Isis ha recuperato capacità operative, aumentando il rischio di attentati in Australia. Tuttavia, nonostante l’allarme lanciato dalle agenzie, lo Stato australiano non sembra in grado di fermare le figure chiave del jihadismo domestico. Haddad continua a predicare liberamente, nonostante accuse di incitamento all’odio antisemita, e i suoi interlocutori principali sono ex detenuti per terrorismo senza misure di sorveglianza. Questo scenario solleva molti interrogativi sulla sostenibilità di una strategia che si limita a monitorare senza intervenire sui nodi ideologici e relazionali del jihadismo interno. La storia di Uweinat, Saadieh e altre figure simili suggerisce che la minaccia jihadista non emerge dal nulla, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza e sulla capacità dello Stato di affrontare la radicalizzazione interna in modo efficace. Tutto questo ridimensiona la retorica dell’Australia come Paese blindato, dove entrano solo «i migliori» e solo a determinate condizioni. La realtà racconta ben altro: reti jihadiste attive, predicatori radicali liberi di operare e militanti già condannati che tornano a muoversi senza alcun argine. Non si tratta di una falla nei controlli di frontiera, ma di una resa dello Stato sul fronte interno. La radicalizzazione è stata lasciata prosperare come testimoniano le recenti manifestazioni in cui simboli dell’Isis e di Al Qaeda sono stati mostrati senza conseguenze, rendendo il contesto ancora più esplosivo.
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Ansa
La polizia ha chiarito che gli attentatori erano padre e figlio. Si tratta di Sajid Akram, 50 anni, di origine pakistana, residente in Australia da molti anni, e di Naveed Akram, 24 anni, nato in Australia e residente nel sobborgo di Bonnyrigg, nella zona occidentale di Sydney. Secondo quanto riferito dagli investigatori, entrambi risultavano ideologicamente affiliati all’Isis e radicalizzati da tempo. Almeno uno dei due era noto ai servizi di sicurezza australiani, pur non essendo stato classificato come una minaccia imminente. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento delle forze dell’ordine, mentre il figlio Naveed è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza: verrà formalmente interrogato non appena le sue condizioni cliniche lo consentiranno. Le autorità stanno cercando di chiarire il ruolo di ciascuno dei due nella pianificazione dell’attacco e se vi siano stati fiancheggiatori o complici. Nel corso delle perquisizioni effettuate ieri in diversi quartieri di Sydney, in particolare a Bonnyrigg e Campsie, la polizia ha rinvenuto armi ed esplosivi all’interno dei veicoli utilizzati dagli attentatori. Gli ordigni sono stati neutralizzati dagli artificieri e non risulta che siano stati attivati. Un elemento che, secondo gli inquirenti, conferma come il piano fosse più articolato e mirasse a provocare un numero ancora maggiore di vittime. Restano sotto la lente d’ingrandimento anche le misure di sicurezza adottate per l’evento: si parla, infatti, di una sparatoria durata diversi minuti prima che la situazione venisse definitivamente messa sotto controllo. Il che non può che sollevare numerosi interrogativi sulla tempestività dell’intervento e sull’adeguatezza dei controlli preventivi.
La strage, non a caso, ha fatto piovere parecchie critiche addosso al governo laburista guidato da Anthony Albanese, accusato dalle opposizioni e da parte della comunità ebraica di non aver rafforzato la protezione di un evento sensibile malgrado l’aumento degli episodi di antisemitismo registrati negli ultimi mesi in Australia. L’esecutivo ha espresso cordoglio e solidarietà, ma si trova ora a dover rispondere all’accusa di aver sottovalutato il pericolo. Albanese, intanto, ha annunciato una riunione straordinaria del National cabinet per discutere misure urgenti in materia di sicurezza e di controllo delle armi, mentre il governo del Nuovo Galles del Sud ha disposto un rafforzamento immediato della vigilanza attorno a sinagoghe, scuole e centri ebraici.
Numerose le reazioni anche dall’estero. Il premier italiano, Giorgia Meloni, ha condannato l’attentato parlando di «un atto vile e barbaro di terrorismo antisemita» e ribadendo che «l’Italia è al fianco della comunità ebraica e dell’Australia nella lotta contro ogni forma di odio e fanatismo». Parole di ferma condanna sono arrivate anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in un messaggio ufficiale ha espresso «profondo cordoglio per le vittime innocenti» e ha sottolineato come «la violenza terroristica, alimentata dall’odio antisemita, rappresenti una minaccia per i valori fondamentali delle nostre democrazie».
Intanto, a Bondi Beach e in altre città australiane, si moltiplicano veglie e momenti di raccoglimento in memoria delle vittime. Molte iniziative pubbliche legate alla festività di Hanukkah sono state annullate o trasformate in cerimonie di lutto, mentre resta alta l’allerta delle forze di sicurezza in vista dei prossimi giorni.
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