
Nel XVII secolo vennero importati dei capi dalla Cina, poi quelli inglesi. L'allevamento intensivo ha fatto nel tempo sparire il nero di Cavour, quello di Fagagna o la chianina toscana. Ma resistono razze indigene come il suino sardo o la cinta senese, il primo Dop.Prosegue il nostro viaggio alla scoperta della migliore Italia suina. Maiale da sempre silenzioso compagno della vita dell'uomo, in particolare lungo la dorsale appenninica. Già al tempo degli Etruschi il suo allevamento era diventato prevalente su quello caprino e ovino, come testimoniano i numerosi reperti archeologici, grazie alla sua naturale predisposizione a vivere in un ambiente che garantiva il necessario per vivere: faggi, querce, castagni. Alla caduta dell'impero romano attitudine divenuta ancora più importante, con l'abbandono di molti insediamenti umani sostituiti da vegetazione e paludi. Maiali quindi in grande spolvero con gli occupanti Longobardi e, successivamente, in epoca medioevale, il valore di un terreno veniva suddiviso in silva sine fructu (boschi che non producevano frutta commestibile) oppure silva ad ingrassandum porcum, con relative gabelle e rendite a seguire per i relativi abitanti. Ad ogni territorio corrispondeva una variante autoctona, dal mantello prevalentemente nero o rossastro. Nel XVII secolo vennero importati dei capi dalla Cina, per «irrobustire» gli ungulati residenti. Per gli inglesi i nostri verri furono classificati genericamente come «napoletani» e, anni dopo, ne importarono generosamente per rinforzare la nascente suinicoltura intensiva Oltremanica. In questo nascente melting pot grufolante chi la fa l'aspetti. Ecco allora che gli yorkshire di sua maestà fecero trionfante ingresso nelle terre sabaude rimescolando ulteriormente le carte. Solo che, stavolta, non erano più i tempi romantici dei barbari che lasciavano i futuri insaccati cibarsi spensieratamente nel bosco. Stava prendendo piede anche da noi l'allevamento intensivo e, con esso, una progressiva sostituzione etnica che ha fatto nel tempo sparire il nero di Cavour, quello di Fagagna (nel Friuli) come pure la chianina toscana (omonima della vaccina ancora viva e ruminate). Si spiega così l'incredibile varietà di prodotti insaccati e relative ricette che possiamo incontrare in questo lento risalire la golosa penisola a declinazione suina. Con una puntatina in Sardegna, dove l'omonimo indigeno ha caratteristiche originali. La coda non è riccioluta come i cugini «del continente», ma penzola all'equina, e anche la criniera ricorda alla lontana quella di un qualsiasi Furia dei film western. Il tutto per essere poi immolato allo spiedo secondo il rito ancestrale della schidonatura, arte di pochi eletti, tanto da stupire una penna di lungo corso come Massimo Bontempelli che ebbe a confessare, dopo un soggiorno barbaricino, «di aver capito per la prima volta, nella vita, cosa possa essere il peccato di gola». Tentazioni suine cui dimostrò sensibilità e attenzione anche Gabriele d'Annunzio che, nel suo Terra vergine, ebbe ad esaltare le virtù della mora abruzzese, dalle intriganti orecchie che ricadono sugli occhi. Una per tutte la signora di Conca Casale, che non è una nobildonna di incertà virtù, ma l'omaggio più devoto che veniva riservato in ogni famiglia per i notabili del luogo. In sostanza si selezionavano le parti più magre che, tagliate all'ingrosso, venivano unite a peperoncino rosso, finocchietto selvatico e altre amenità speziate. Il tutto riposto con cura e con l'aiuto di un imbuto dentro un capace budello lavorato in precedenza con farina di mais, succo di arancia e limone. Segue lieve affumicatura e una stagionatura semestrale che porta ad un prodotto finito dall'aspetto di un alveare. I fortunati che l'hanno provato ne decantano meraviglie. Tanto è vero che vi è un mirato progetto di recupero con piccoli allevatori dedicati. Tra questi Peppino Tinari, mestolo stellato di Villa Maiella, che lo tiene regolarmente in carta. La cinta senese è stato il primo suino nazionale a fregiarsi del marchio Dop di garanzia, nel 2012. Nonostante un passato di araldico valore (la sua effige spesso adottata quale simbolo dalla migliore aristocrazia del tempo) anche questa stava varcando le colonne d'Ercole del non ritorno. Adesso sono in molti ad allevarla, anche fuori dai confini regionali. Innumerevoli le preparazioni che le rendono il giusto onore ma, tra queste, una citazione particolare meritano quelle con il sanguinaccio protagonista. Una triade che lascia il segno sul palato, a futura memoria. Come ad esempio il mallegato di San Miniato, un salsiccione che può includere o meno l'uvetta, in uso sin dal medio evo. Oppure il biroldo, che in Garfagnana ha sfamato generazioni sin dall'epoca longobarda. Testa, cuore e lingua assemblati a suon di sanguinaccio. Una forma a palla schiacciata che, tagliata a fette, ben si abbina con il pan di castagne, altra millenaria risorsa locale. Tuttavia è il buristo quello che merita si accendano i riflettori di una narrazione mirata. Viene disossata pazientemente la testa porcella e la si mette a bollire con limoni, buccia d'arancia, salvia e aromi. Si carbura il tutto con lardelli di grasso, sanguinaccio d'ordinanza e si fa ben custodire cotale tesoretto, per il tempo necessario, dallo stomaco del suino, oramai depotenziato da impulsi digestivi. Nella variante senese c'è chi vi aggiunge gli stessi ingredienti del panforte, giusto per simmetria golosa: cannella, noce moscata, chiodi di garofano. Ma è un biroldo a tutto pasto, come ben sapevano i butteri immortalati da Giovanni Fattori. Ingrediente fondamentale dell'omonimo risotto come vi è anche chi lo declina in versione «dolce»: le grosse fette spadellate e cosparse di zucchero, le immancabili cannella e noce moscata, unendo quali compagni di peccati di gola un po' di uovo sbattuto e focaccetta dolce. Molte di queste preparazioni, un tempo, vedevano il contributo della macchiaiola maremmana, giunta ai limiti dell'estinzione, come molte lungo lo stivale. Per lei, come per altre, ad esempio la cinghiata di Norcia, sono in atto progetti di recupero che vedono allevatori e ricerca universitaria in suina alleanza, posto che sono proprio queste realtà ad alimentare un mercato di nicchia, contribuendo alla valorizzazione economica locale. A conferma che aveva visto lungo tale Cristin il quale, nel 1861, notando come le razze foreste, più precoci e produttive, stavano scalzando lo storico patrimonio suinicolo nazionale ebbe a scrivere a futura memoria «valgono meglio le razze nostre perché danno carne più saporita e lardo più duro, forte e possono stare dove è molta copia di pascoli naturali». Infine non poteva mancare il tocco di colore un po' guascone e chi, se non Dario Cecchini, il leggendario beccaio che esercita in quel di Panzano in Chianti, con tanto di regolare Divina Commedia aperta sul banco del dettaglio quotidiano. Sua la proposta di un'antica lavorazione, ribattezzata «tonno del Chianti». La storia nasce da quanto, allo stesso Cecchini, aveva raccontato anni fa un suo vecchio cliente dicendo che, in famiglia, una volta si usava trattare in un certo modo i piccoli maialini che venivano a mancare o perché la nidiata era troppo numerosa e mamma scrofa non aveva latte per tutti o per quelle malattie che, un tempo, non erano trattabili con la moderna farmacologia. Si prendeva il maialino e lo si disossava. Le carni, una volta cotte, venivano messe sott'olio e conservate con aromi vari, tra cui l'alloro. Cecchini ne fu folgorato e ci costruì sopra una leggenda che ha sfondato l'immaginario collettivo. Lavorò con cura le parti più pregiate: spalla, coscia, lonza. Il Chianti si trova al centro della Toscana e, lungo i suoi corsi d'acqua, si può trovare al massimo qualche trota, non certo un tonno. Lo si può gustare in diversi modi. Su di una bruschetta, come su di un letto di fagioli cannellini. C'è chi si è inventato la versione gourmet con capperi fritti, pomodori confit e maionese alla paprika. Oppure, come suggerisce lo stesso Cecchini, «semplicemente nudo, a morsi». Più chiaro di così…
Sigfrido Ranucci (Ansa)
Ennesimo scontro tra la trasmissione Rai e l’Autorità, che dice: «Inchiesta errata sugli Smart glasses, il servizio non vada in onda». La replica: «È danno erariale».
Non si ferma lo scontro tra Report, la trasmissione di Rai 3 condotta da Sigfrido Ranucci e il Garante della privacy. Anche questa settimana, alla vigilia della puntata di stasera, l’Autorità di controllo ha chiesto alla Rai lo stop alla messa in onda di un servizio sulle attività del Garante. Report ha infatti pubblicato sui social una clip con l’anticipazione di un’inchiesta sull’istruttoria portata avanti dal Garante della privacy nei confronti di Meta, relativa agli Smart glass, gli occhiali da sole che incorporano due obiettivi in grado di scattare foto e registrare filmati. Il servizio di Report punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio dell’Autorità Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia, «prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni».
Diego Moretti (Ansa)
I dem che hanno sempre criticato l’ex sindaco Anna Maria Cisint firmano una mozione sul lavoro nei cantieri navali. Ora vogliono superare il modello di immigrazione a basso costo.
«Nella sua campagna permanente contro gli stranieri che a Monfalcone regolarmente lavorano, la Cisint aggiunge un nuovo tema: ora mette in discussione anche le rimesse economiche, annunciando misure per vietarle o limitarle. Una delle tante dichiarazioni che si aggiungono a quelle del passato, sicuramente buone per costruire narrazioni false e per alimentare odio nei confronti dello straniero».
Elly Schlein (Ansa)
La leader Pd dice che la manovra «favorisce solo i ricchi», come se avere un reddito da 50.000 euro lordi l’anno fosse da nababbi. In realtà sono fra i pochi che pagano tasse dato che un contribuente su due versa zero Irpef. Maurizio Landini & C. insistono con la patrimoniale. Giorgia Meloni: «Con me mai». Pure Giuseppe Conte non ci sta.
Di 50.000 euro lordi l’anno quanti ne finiscono in tasca a un italiano al netto di tasse e contributi? Per rispondere è necessario sapere se il contribuente ha moglie e figli a carico, in quale regione viva (per calcolare l’addizionale Irpef), se sia un dipendente o un lavoratore autonomo. Insomma, ci sono molte variabili da tener presente. Ma per fare un calcolo indicativo, computando i contributi Inps al 9,9 per cento, l’imposta sui redditi delle persone fisiche secondo i vari scaglioni di reddito (al 23 per cento fino a 28.000 euro, al 35 per la restante parte di retribuzione), possiamo stimare un netto di circa 35.000 euro, che spalmato su tre dici mensilità dà un risultato di circa 2.600 euro e forse anche meno. Rice vendo un assegno appena superiore ai 2.500 euro al mese si può essere iscritti d’ufficio alla categoria dei ricchi? Secondo Elly Schlein e compagni sì.
Elly Schlein e Vincenzo De Luca (Ansa)
Dopo aver sfidato lo «sceriffo di Salerno» il segretario dem si rimangia tutto. E per Roberto Fico conta sui voti portati dal governatore, che impone ricompense per il figlio. Sulla partita veneta, Ignazio La Russa apre a Luca Zaia nel governo.
«Vinciamo»: il coordinatore regionale di Forza Italia in Campania, Fulvio Martusciello, capodelegazione azzurro al Parlamento europeo, lo dice alla Verità e sembra convinto. L’ennesima manifestazione elettorale di Fi al centro di Napoli è un successo clamoroso: centinaia di persone, il ritratto di Silvio Berlusconi troneggia nella sala. Allora crede ai sondaggi più ottimisti? «No», aggiunge Martusciello, «credo a quello che vedo. Siamo riusciti a entrare in tutte le case, abbiamo inventato il coordinatore di citofono, che si occupa di curare non più di due condomini. Parcellizzando la campagna, riusciremo a mandare a casa una sinistra mai così disastrata». Alla remuntada in Campania credono tutti: da Giorgia Meloni in giù. Il candidato presidente del centrodestra, Edmondo Cirielli, sente aria di sorpasso e spinge sull’acceleratore.






