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2022-06-11
La risalita dello spread smaschera tutte le bugie sulle «colpe italiane»
Christine Lagarde (Ansa)
Il presidente della Bce Christine Lagarde giovedì scorso ha sancito la fine dei programmi di acquisto dei titoli di Stato dell’Eurozona e annunciato un rialzo dei tassi di interesse nei prossimi mesi. La Lagarde non ha fatto cenno però al modo con cui la Banca centrale intende supportare i paesi periferici dell’Eurozona in futuro. Dunque, lo scudo anti spread, di cui si è favoleggiato su qualche giornale, al momento non esiste. I mercati hanno capito che alla Bce interessa più frenare l’inflazione che sostenere i Paesi più indebitati e si sono mossi immediatamente: borse in calo, tasso del Btp decennale a 3,83% (rendimento che non si vedeva dal 2014) e spread con il Bund tedesco a 213 punti base.
Da Cuneo, dove si trovava per un comizio, si è fatto sentire ieri Matteo Salvini: «È in corso un attacco all’Italia, oggi la Borsa perde il 4%, la Bce non compra più titoli di Stato da un giorno all’altro, lo spread torna ai massimi, c’è l’inflazione, vogliono svendere l’Italia come hanno fatto con la Grecia, è in corso un attentato da parte di Bruxelles alla vita e all’economia del nostro Paese». Salvini ha poi convocato per lunedì una riunione urgente della Lega, spiegando che è necessario «reagire subito per difendere il lavoro e i risparmi degli italiani».
Effettivamente, certo senza volerlo, madame Lagarde ha fatto ben più che chiudere l’era del denaro a costo zero: ha reso evidente una delle contraddizioni fondamentali che minano alla base la costruzione dell’euro. Negli ultimi dieci anni ci è stato detto che lo spread era limite e misura della nostra corretta esecuzione delle politiche economiche dell’Unione europea. Una deviazione dal sentiero segnato ci avrebbe classificato come non credibili e sarebbe stata punita dal mercato con un meritato waterboarding finanziario, lo spread. Nell’estate del 2011 ci venne detto che lo spread a 500 era la «Papi tax» che gli italiani dovevano pagare perché Silvio Berlusconi si sollazzava con Ruby Rubacuori e le Olgettine. Dovevamo fare qualcosa e soprattutto «Fare presto!». Ricevemmo una lettera da Francoforte (il cui mittente siede oggi a Palazzo Chigi) con cui veniva imposto all’Italia un programma di governo a base di sangue, sudore e lacrime. Incaricato di attuarlo fu Mario Monti, che non ci ha salvato da nulla ma in compenso ha provocato una recessione double dip (2012-2013 dopo quella del 2008-2009). Lo spread rimaneva alto, ma non era più così importante perché ci eravamo affidati a un tecnico credibile che stava facendo qualcosa e questo bastava a placare i mercati.
I successivi governi targati Pd furono grigi esecutori dei voleri di Bruxelles, ma ecco giungere le elezioni del 2018 e il governo Lega-5 stelle. In quei giorni, il solo elenco dei candidati al ruolo di ministro delle Finanze sembrava dovesse far scomparire l’intera civiltà occidentale, trascinata nel gorgo del bieco sovranismo populista. Indimenticabile la trattativa da cui, a leggere i giornali, sembravano dipendere i destini del mondo: quella tra Roma e Bruxelles sul rapporto deficit-Pil nella legge di stabilità 2019. Dal 2,4% si passò al 2,04% mentre lo spread, manovrato dagli animal spirits dell’inclemente mercato, frustava le schiene dei poveri italiani.
Ma oggi? Oggi in Italia ci troviamo nella privilegiata condizione di avere Mario Draghi, colui che salvò l’euro da sé stesso, a capo del governo: abile, preparatissimo, determinato, credibile, europeista. Contando su una maggioranza amplissima, in una situazione di guerra, dunque al riparo da imboscate parlamentari a colpi di sfiducia, il super competente Draghi sta con risolutezza attuando il fondamentale Pnrr, con l’annesso corollario di importanti riforme che servono alla competitività del Paese. Dovremmo essere in una botte di ferro. E invece... Invece, guardando i numeri, vediamo che il tasso sui Btp decennali un anno fa era a 0,8%, mentre lo spread era intorno a 90 punti base quando l’attuale governo si insediò. Con i numeri di ieri, abbiamo tassi quadruplicati e spread più che raddoppiato: una performance allarmante, se adottassimo lo stesso metro di valutazione utilizzato per i governi precedenti. Forse c’è qualcosa che non torna, in questa storia. Forse, dopo il momento Lagarde del 9 giugno, qualcuno realizzerà, finalmente, di avere subito dieci anni di narrazione tossica. Lo spread nel 2012 non scese affatto per le politiche di presunto risanamento del governo Monti, ma scese perché Draghi, allora presidente della Bce, pronunciò l’ormai leggendario «Whatever it takes» cui seguirono le prime operazioni Omt (Outright monetary transaction).
Nei fatti, negli ultimi dieci anni, la Bce ha operato da prestatore di ultima istanza o quasi, comprando a mani basse le obbligazioni dei Paesi dell’Eurozona. Lo spread si muove in funzione di quanto e come la Bce interviene sul mercato: tutto il resto è un cumulo di chiacchiere. Oggi lo spread sale perché non c’è chiarezza sui futuri interventi di acquisto della Bce. La contraddizione di fondo dell’euro sta proprio nel fatto che senza il sostegno della Bce l’intera costruzione della moneta unica è a rischio. I mercati, che saranno anche inclementi ma certo stupidi non sono, lo sanno benissimo: vedono il rischio di frantumazione dell’Eurozona e pretendono una remunerazione maggiore per il rischio. Nessuna manovra finanziaria lacrime e sangue e nessun diktat di Bruxelles può cambiare questo dato di fatto. Solo la Bce può rassicurare i mercati, agendo esattamente come dovrebbe agire una Banca centrale.
Borse a picco: per Piazza Affari -5%
Anche ieri Piazza Affari si è mostrata in affanno dopo le decisioni della Bce. In una sola seduta la Borsa di Milano ha perso il 5,17%. A soffrire in particolar modo sono state le banche, con l’indice di settore che ha ceduto l’8,57%. Tutti i principali istituti italiani quotati hanno sofferto: Bper -13%, Banco Bpm -12%, Unicredit -9,10%, Intesa Sanpaolo -7,38%. In difficoltà anche i principali titoli del risparmio gestito: con il segno meno Azimut holding (-9,08%), Banca Generali (-8,3%), Banca Mediolanum (-6,81%) e Finecobank (-9,47%).
Male pure le società del comparto petrolifero: con il prezzo del greggio a New York sceso di nuovo sotto i 120 dollari al barile hanno sofferto Eni (-5,6%) e Saipem (-7,97%). Pesanti perdite anche per Technogym (-8,25%), Mutuionline (-7,34%) ed Erg (-7,21%).
Perdite ingenti per il mondo delle quattro ruote, a partire da Iveco -7,35%. Ferrari si è fermata a una perdita dell’1,61%. Secondo indiscrezioni diffuse da Bloomberg, il Cavallino rampante starebbe pianificando di aumentare notevolmente le dimensioni della fabbrica di Maranello come parte della strategia di elettrificazione.
Più in generale, per l’indice guida di Piazza Affari si tratta dei maggiori cali a un mese, con quotazioni che comunque sono ancora distanti dai minimi 2022 toccati il 7 marzo.
Oltre al Ftsemib, tutti gli altri indici italiani hanno chiuso in calo: il Ftse Italia all share ha terminato la seduta con un -5,07%. Giù anche il Ftse Italia mid cap (-4,62%) e il Ftse Italia star (-4,1%).
In tutta questa serie di segni meno ci sono anche società che sono andate controcorrente. Tra i migliori titoli a Piazza Affari, ci sono Pharmanutra (+2,11%) e B.F. (+1,14%).
Tra gli altri mercati del Vecchio continente difficoltà anche a Francoforte, che soffre un crollo del 3,08%, Londra, che registra un ribasso del 2,12% e Parigi, che lascia per strada una perdita del 2,69%. In discesa anche Amsterdam (-2,52%) e Zurigo (-2,4%), piazza dove il titolo Credit Suisse ha perso il 5,72% dopo che State street ha smentito di essere interessata all’acquisizione del numero due del settore bancario elvetico (il primo è Ubs).
Oltre alle recenti comunicazioni della Bce, a impensierire i mercati ci pensa l’inflazione. Proprio ieri, oltreoceano si è registrato il più alto livello di prezzi al consumo degli ultimi 41 anni, nonostante la Fed abbia già avviato il suo percorso di normalizzazione della politica monetaria. Strada che non pare dare i frutti sperati, motivo per cui ci si attende che la Fed la settimana prossima possa mettere a segno un’altra mossa per rallentare la corsa del costo della vita.
D’altronde gli investitori di Piazza Affari sono impensieriti anche dalle previsioni di Bankitalia, secondo cui la stima per il Pil è scesa al +2,6%, da +3,8% ipotizzato a gennaio, mentre l’inflazione prende l’ascensore al 6,2% (dal 3,5%). Ostacoli anche il prossimo anno: nel 2023 la stima sul carovita è +2,7% (da +1,6%). Solo nel 2024 vedremo un po’ di normalità al +2% (da +1,7%).
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Riduci
Il differenziale fra Btp e Bund è arrivato a 233 punti nonostante Draghi. È la prova che se sale non è colpa dei governi sgraditi a Bruxelles, ma delle politiche Bce. Salvini: «Attacco al Paese. Lunedì riunione urgente».Milano, maglia nera nell’Ue, brucia 39 miliardi in una giornata. Pesano i titoli legati a istituti di credito ed energia. Male anche Parigi (-2,69%) e Francoforte (-3,08%).Lo speciale contiene due articoli.Il presidente della Bce Christine Lagarde giovedì scorso ha sancito la fine dei programmi di acquisto dei titoli di Stato dell’Eurozona e annunciato un rialzo dei tassi di interesse nei prossimi mesi. La Lagarde non ha fatto cenno però al modo con cui la Banca centrale intende supportare i paesi periferici dell’Eurozona in futuro. Dunque, lo scudo anti spread, di cui si è favoleggiato su qualche giornale, al momento non esiste. I mercati hanno capito che alla Bce interessa più frenare l’inflazione che sostenere i Paesi più indebitati e si sono mossi immediatamente: borse in calo, tasso del Btp decennale a 3,83% (rendimento che non si vedeva dal 2014) e spread con il Bund tedesco a 213 punti base. Da Cuneo, dove si trovava per un comizio, si è fatto sentire ieri Matteo Salvini: «È in corso un attacco all’Italia, oggi la Borsa perde il 4%, la Bce non compra più titoli di Stato da un giorno all’altro, lo spread torna ai massimi, c’è l’inflazione, vogliono svendere l’Italia come hanno fatto con la Grecia, è in corso un attentato da parte di Bruxelles alla vita e all’economia del nostro Paese». Salvini ha poi convocato per lunedì una riunione urgente della Lega, spiegando che è necessario «reagire subito per difendere il lavoro e i risparmi degli italiani». Effettivamente, certo senza volerlo, madame Lagarde ha fatto ben più che chiudere l’era del denaro a costo zero: ha reso evidente una delle contraddizioni fondamentali che minano alla base la costruzione dell’euro. Negli ultimi dieci anni ci è stato detto che lo spread era limite e misura della nostra corretta esecuzione delle politiche economiche dell’Unione europea. Una deviazione dal sentiero segnato ci avrebbe classificato come non credibili e sarebbe stata punita dal mercato con un meritato waterboarding finanziario, lo spread. Nell’estate del 2011 ci venne detto che lo spread a 500 era la «Papi tax» che gli italiani dovevano pagare perché Silvio Berlusconi si sollazzava con Ruby Rubacuori e le Olgettine. Dovevamo fare qualcosa e soprattutto «Fare presto!». Ricevemmo una lettera da Francoforte (il cui mittente siede oggi a Palazzo Chigi) con cui veniva imposto all’Italia un programma di governo a base di sangue, sudore e lacrime. Incaricato di attuarlo fu Mario Monti, che non ci ha salvato da nulla ma in compenso ha provocato una recessione double dip (2012-2013 dopo quella del 2008-2009). Lo spread rimaneva alto, ma non era più così importante perché ci eravamo affidati a un tecnico credibile che stava facendo qualcosa e questo bastava a placare i mercati. I successivi governi targati Pd furono grigi esecutori dei voleri di Bruxelles, ma ecco giungere le elezioni del 2018 e il governo Lega-5 stelle. In quei giorni, il solo elenco dei candidati al ruolo di ministro delle Finanze sembrava dovesse far scomparire l’intera civiltà occidentale, trascinata nel gorgo del bieco sovranismo populista. Indimenticabile la trattativa da cui, a leggere i giornali, sembravano dipendere i destini del mondo: quella tra Roma e Bruxelles sul rapporto deficit-Pil nella legge di stabilità 2019. Dal 2,4% si passò al 2,04% mentre lo spread, manovrato dagli animal spirits dell’inclemente mercato, frustava le schiene dei poveri italiani. Ma oggi? Oggi in Italia ci troviamo nella privilegiata condizione di avere Mario Draghi, colui che salvò l’euro da sé stesso, a capo del governo: abile, preparatissimo, determinato, credibile, europeista. Contando su una maggioranza amplissima, in una situazione di guerra, dunque al riparo da imboscate parlamentari a colpi di sfiducia, il super competente Draghi sta con risolutezza attuando il fondamentale Pnrr, con l’annesso corollario di importanti riforme che servono alla competitività del Paese. Dovremmo essere in una botte di ferro. E invece... Invece, guardando i numeri, vediamo che il tasso sui Btp decennali un anno fa era a 0,8%, mentre lo spread era intorno a 90 punti base quando l’attuale governo si insediò. Con i numeri di ieri, abbiamo tassi quadruplicati e spread più che raddoppiato: una performance allarmante, se adottassimo lo stesso metro di valutazione utilizzato per i governi precedenti. Forse c’è qualcosa che non torna, in questa storia. Forse, dopo il momento Lagarde del 9 giugno, qualcuno realizzerà, finalmente, di avere subito dieci anni di narrazione tossica. Lo spread nel 2012 non scese affatto per le politiche di presunto risanamento del governo Monti, ma scese perché Draghi, allora presidente della Bce, pronunciò l’ormai leggendario «Whatever it takes» cui seguirono le prime operazioni Omt (Outright monetary transaction). Nei fatti, negli ultimi dieci anni, la Bce ha operato da prestatore di ultima istanza o quasi, comprando a mani basse le obbligazioni dei Paesi dell’Eurozona. Lo spread si muove in funzione di quanto e come la Bce interviene sul mercato: tutto il resto è un cumulo di chiacchiere. Oggi lo spread sale perché non c’è chiarezza sui futuri interventi di acquisto della Bce. La contraddizione di fondo dell’euro sta proprio nel fatto che senza il sostegno della Bce l’intera costruzione della moneta unica è a rischio. I mercati, che saranno anche inclementi ma certo stupidi non sono, lo sanno benissimo: vedono il rischio di frantumazione dell’Eurozona e pretendono una remunerazione maggiore per il rischio. Nessuna manovra finanziaria lacrime e sangue e nessun diktat di Bruxelles può cambiare questo dato di fatto. Solo la Bce può rassicurare i mercati, agendo esattamente come dovrebbe agire una Banca centrale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-risalita-dello-spread-smaschera-tutte-le-bugie-sulle-colpe-italiane-2657494370.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="borse-a-picco-per-piazza-affari-5" data-post-id="2657494370" data-published-at="1654927566" data-use-pagination="False"> Borse a picco: per Piazza Affari -5% Anche ieri Piazza Affari si è mostrata in affanno dopo le decisioni della Bce. In una sola seduta la Borsa di Milano ha perso il 5,17%. A soffrire in particolar modo sono state le banche, con l’indice di settore che ha ceduto l’8,57%. Tutti i principali istituti italiani quotati hanno sofferto: Bper -13%, Banco Bpm -12%, Unicredit -9,10%, Intesa Sanpaolo -7,38%. In difficoltà anche i principali titoli del risparmio gestito: con il segno meno Azimut holding (-9,08%), Banca Generali (-8,3%), Banca Mediolanum (-6,81%) e Finecobank (-9,47%). Male pure le società del comparto petrolifero: con il prezzo del greggio a New York sceso di nuovo sotto i 120 dollari al barile hanno sofferto Eni (-5,6%) e Saipem (-7,97%). Pesanti perdite anche per Technogym (-8,25%), Mutuionline (-7,34%) ed Erg (-7,21%). Perdite ingenti per il mondo delle quattro ruote, a partire da Iveco -7,35%. Ferrari si è fermata a una perdita dell’1,61%. Secondo indiscrezioni diffuse da Bloomberg, il Cavallino rampante starebbe pianificando di aumentare notevolmente le dimensioni della fabbrica di Maranello come parte della strategia di elettrificazione. Più in generale, per l’indice guida di Piazza Affari si tratta dei maggiori cali a un mese, con quotazioni che comunque sono ancora distanti dai minimi 2022 toccati il 7 marzo. Oltre al Ftsemib, tutti gli altri indici italiani hanno chiuso in calo: il Ftse Italia all share ha terminato la seduta con un -5,07%. Giù anche il Ftse Italia mid cap (-4,62%) e il Ftse Italia star (-4,1%). In tutta questa serie di segni meno ci sono anche società che sono andate controcorrente. Tra i migliori titoli a Piazza Affari, ci sono Pharmanutra (+2,11%) e B.F. (+1,14%). Tra gli altri mercati del Vecchio continente difficoltà anche a Francoforte, che soffre un crollo del 3,08%, Londra, che registra un ribasso del 2,12% e Parigi, che lascia per strada una perdita del 2,69%. In discesa anche Amsterdam (-2,52%) e Zurigo (-2,4%), piazza dove il titolo Credit Suisse ha perso il 5,72% dopo che State street ha smentito di essere interessata all’acquisizione del numero due del settore bancario elvetico (il primo è Ubs). Oltre alle recenti comunicazioni della Bce, a impensierire i mercati ci pensa l’inflazione. Proprio ieri, oltreoceano si è registrato il più alto livello di prezzi al consumo degli ultimi 41 anni, nonostante la Fed abbia già avviato il suo percorso di normalizzazione della politica monetaria. Strada che non pare dare i frutti sperati, motivo per cui ci si attende che la Fed la settimana prossima possa mettere a segno un’altra mossa per rallentare la corsa del costo della vita. D’altronde gli investitori di Piazza Affari sono impensieriti anche dalle previsioni di Bankitalia, secondo cui la stima per il Pil è scesa al +2,6%, da +3,8% ipotizzato a gennaio, mentre l’inflazione prende l’ascensore al 6,2% (dal 3,5%). Ostacoli anche il prossimo anno: nel 2023 la stima sul carovita è +2,7% (da +1,6%). Solo nel 2024 vedremo un po’ di normalità al +2% (da +1,7%).
A dirlo è l’Unctad (United nations conference on trade and development), l’organismo dell’Onu che si occupa di commercio e sviluppo, secondo cui le misure tariffarie e le politiche industriali stanno cambiando la geografia degli scambi più di quanto ne stiano riducendo l’ammontare complessivo.
Il 2024 ha rappresentato, infatti, un punto di svolta dopo la debolezza del 2023. L’organizzazione della Nazioni Unite ha registrato per il 2024 un valore record di circa 33 trilioni di dollari di scambi globali di beni e servizi, con una crescita intorno al 3,7% (circa +1,2 trilioni). La componente servizi ha guidato l’espansione: +9% nell’anno, con un contributo di circa 700 miliardi, pari a quasi il 60% della crescita totale; i beni sono saliti di circa il 2% (+500 miliardi).
Il 2025, inoltre, consolida il quadro. Nell’aggiornamento di dicembre, Unctad stima che il commercio mondiale supererà per la prima volta i 35 trilioni di dollari, con un aumento di circa 2,2 trilioni, ossia circa il 7% in più rispetto al 2024. Di questa crescita, circa 1,5 trilioni verrebbero dai beni e circa 750 miliardi dai servizi, attesi in aumento vicino al 9%. Per il quarto trimestre 2025, la crescita rimane positiva ma più moderata: circa lo 0,5% in più per i beni e il 2% per i servizi. Nel 2026, invece, la stima è di un rallentamento causato da tensioni geopolitiche, conflitti e costi crescenti (tra cui i dazi).
Ma come i dazi hanno allora influenzato i commerci mondiali? Unctad osserva che la frammentazione geopolitica sta rimodellando i flussi e che friendshoring (delocalizzazione verso Paesi considerati amici) e nearshoring (spostamento verso Stati vicini a quello di origine) stanno rafforzandosi.
In parallelo, la crescita dei servizi rende il sistema meno vulnerabile alle tariffe sui beni. I servizi digitali, professionali e legati alle catene manifatturiere avanzate sono più scalabili, spesso regolati da standard e da norme di mercato più che da dazi doganali, e trovano domanda in fasi del ciclo economico diverse rispetto alle merci tradizionali. L’aumento più rapido dei servizi nel 2024 e nel 2025 è coerente con questa trasformazione del mix commerciale.
Unctad segnala anche un passaggio dalla crescita «di prezzo» a una crescita più «di volume» verso fine 2025: dopo due trimestri sostenuti anche da prezzi più alti, le quotazioni dei beni scambiati dovrebbero calare, e l’espansione sarà trainata maggiormente dalle quantità effettivamente commerciate.
Un ulteriore elemento di tenuta è il protagonismo delle economie in via di sviluppo. Unctad evidenzia che nel 2024 le economie emergenti hanno sostenuto gran parte della dinamica e che gli scambi Sud-Sud hanno continuato a crescere. Nel 2025 questa tendenza si è rafforzata: Asia orientale e Africa risultano tra le principali aree commerciali, mentre gli scambi tra Paesi in via di sviluppo hanno mostrato un’espansione più rapida della media globale.
I dati Unctad, insomma, non raccontano la fine della globalizzazione, ma la sua ricalibrazione. La crescita degli scambi convive con dazi più alti perché il commercio si sta spostando a Oriente, incorporando una quota crescente di servizi.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Per quanto riguarda, invece, la direttiva sulla rendicontazione della sostenibilità aziendale (Csrd), che impone alle aziende di comunicare il proprio impatto ambientale e sociale, l’accordo prevede si applichi solo alle aziende con più di 1.000 dipendenti e un fatturato netto annuo di 450 milioni di euro.
Con le modifiche decise due giorni fa, l’80% delle aziende che sarebbero state soggette alla norma saranno ora liberate dagli obblighi. Festeggia Ursula von der Leyen: «Accolgo con favore l’accordo politico sul pacchetto di semplificazione Omnibus I. Con un risparmio fino a 4,5 miliardi di euro ridurrà i costi amministrativi, taglierà la burocrazia e renderà più semplice il rispetto delle norme di sostenibilità», ha detto il presidente della Commissione.
In un comunicato stampa, la Commissione dice: «Le misure proposte per ridurre l’ambito di applicazione della Csrd genereranno notevoli risparmi sui costi per le aziende. Le modifiche alla Csddd eliminano inutili complessità e, in ultima analisi, riducono gli oneri di conformità, preservando al contempo gli obiettivi della direttiva».
Dunque, ricapitolando, la revisione libera dall’obbligo di conformità l’80% dei soggetti obbligati dalla vecchia norma, il che significa evidentemente che per l’80% dei casi quella norma era inutile, anzi dannosa, visto che comportava costi ingenti per il suo rispetto e nessuna utilità pratica. Se vi fosse stata una qualche utilità la norma sarebbe rimasta anche per questi, è chiaro.
Non solo. Von der Leyen si rallegra di avere fatto risparmiare 4,5 miliardi di euro, come se a scaricare quella montagna di costi sulle aziende fosse stato qualcun altro o il destino cinico e baro, e non la norma che lei stessa e la sua maggioranza hanno voluto. La Commissione si rallegra di aver semplificato cose che essa stessa ha complicato, di avere tolto burocrazia dopo averla messa.
In questa commedia si potrebbe sospettare una regia di Eugène Ionesco, se fosse ancora vivo. La verità è che già la scorsa primavera, Germania e Francia avevano chiesto l’abrogazione completa delle norme. Nelle dichiarazioni a seguito dell’accordo tra Consiglio Ue e Parlamento, con la benedizione della Commissione, non è da meno il sagace ministro danese dell’Industria, Morten Bodskov (la Danimarca ha la presidenza di turno del Consiglio Ue): «Non stiamo rimuovendo gli obiettivi green, stiamo rendendo più semplice raggiungerli. Pensavamo che legislazione verde più complessa avrebbe creato più posti di lavoro green, ma non è così: anzi, ha generato lavoro per la contabilità». C’è da chiedersi se da quelle parti siano davvero sorpresi dell’effetto negativo generato dall’imposizione di inutile burocrazia sulle aziende. Sul serio a Bruxelles qualcuno pensa che complicare la vita alle imprese generi posti di lavoro? Sono dichiarazioni ben più che preoccupanti.
Fine di un incubo per migliaia di aziende europee, dunque, ma i problemi restano, essendo la norma di difficile applicazione pratica anche per le multinazionali. Sulla revisione delle due direttive hanno giocato certamente un ruolo le pressioni degli Stati Uniti, dopo che Donald Trump a più riprese ha sottolineato come vi siano barriere non di prezzo all’ingresso nel mercato europeo che devono essere eliminate. Due di queste barriere sono proprio le direttive Csrd e Csddd, che restano in vigore per le grandi aziende. Non a caso, il portavoce dell’azienda americana del petrolio Exxon Mobil ha fatto notare che si tratta di norme extraterritoriali, definendole «inaccettabili», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder ha detto che le norme rendono difficile la fornitura all’Europa dell’energia di cui ha bisogno.
La sensazione è che si vada verso un regime di esenzioni ad hoc, si vedrà. Ma i lamenti arrivano anche dalla parte opposta. La finanza green brontola perché teme un aumento dei rischi, senza i piani climatici delle aziende, che però nessuno sinora ha mai visto. Misteri degli algoritmi Esg.
Ora le modifiche, che fanno parte del pacchetto Omnibus I presentato lo scorso febbraio dalla Commissione, dovranno essere approvate dal Consiglio Ue, dove votano i ministri e dove non dovrebbe incontrare ostacoli, e dal Parlamento europeo, dove invece è possibile qualche sorpresa nel voto. La posizione del Parlamento che ha portato all’accordo di martedì è frutto di una intesa tra i popolari del Ppe e la destra dei Patrioti e di Ecr. Il gruppo dei Patrioti esulta, sottolineando come l’accordo sia frutto di una nuova maggioranza di centrodestra che rende superata la maggioranza attuale tra Ppe, Renew e Socialisti.
Il risvolto politico della vicenda è che si è rotto definitivamente il «cordone sanitario» steso a Bruxelles attorno al gruppo che comprende il Rassemblement national francese di Marine Le Pen, il partito ungherese Fidesz e la Lega di Matteo Salvini.
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
La Bce, pur riconoscendo «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi», continua ad avere «dubbi sulla finalità della norma». Con la lettera, Giorgetti rassicura che l’emendamento non mira a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori del bilancio di Bankitalia e non contiene nessun escamotage per aggirare il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il ministro potrebbe inoltre fornire un ulteriore chiarimento direttamente alla presidente Lagarde, oggi, quando i due si incontreranno per i lavori dell’Eurogruppo. Se la Bce si riterrà soddisfatta delle precisazioni, il ministero dell’Economia darà indicazioni per riformulare l’emendamento.
Una nota informativa di Fdi, smonta i pregiudizi ideologici e le perplessità che sono dietro alla nota della Bce. «L’emendamento proposto da Fratelli d’Italia è volto a specificare un concetto che dovrebbe essere condiviso da tutti: ovvero che le riserve auree sono di proprietà dei popoli che le hanno accumulate negli anni, e quindi», si legge, «si tratta di una previsione che tutti danno per scontata. Eppure non è mai stata codificata nell’ordinamento italiano, a differenza di quanto è avvenuto in altri Stati, anche membri dell’Ue. Affermare che la proprietà delle riserve auree appartenga al popolo non confligge, infatti, in alcun modo con i trattati e i regolamenti europei». Quindi ribadire un principio scontato, e cioè che le riserve auree sono di proprietà del popolo italiano, non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. «Già nel 2019 la Bce, allora guidata da Mario Draghi, aveva chiarito che la questione della proprietà legale e delle competenze del Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), con riferimento alle riserve auree degli Stati membri, è definita in ultima istanza dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue)». La nota ricorda che «il parere della Bce del 2019, analogamente a quello redatto lo scorso 2 dicembre, evidenziava che il Trattato non determina le competenze del Sebc e della Bce rispetto alle riserve ufficiali, usando il concetto di proprietà. Piuttosto, il Trattato interviene solo sulla dimensione della detenzione e gestione esclusiva delle riserve. Pertanto, dire che la proprietà delle riserve auree sia del popolo italiano non lede in alcun modo la prerogativa della Banca d’Italia di detenere e gestire le riserve».
Altro punto: Fdi spiega che «nel Tfue (Trattato sul funzionamento dell’Ue) si parla di “riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri”, quindi si prevede implicitamente che la proprietà delle riserve sia in capo agli Stati. L’emendamento di Fdi vuole esplicitare nell’ordinamento italiano questa previsione». C’è chi sostiene che affermare che la proprietà delle riserve auree di Bankitalia è del popolo italiano non serva a nulla. Ma Fdi dice che «l’Italia non può correre il rischio che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani. Per questo c’è bisogno di una norma che faccia chiarezza sulla proprietà».
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Con Giuseppe Trizzino fondatore e Amministratore Unico di Praesidium International, società italiana di riferimento nella sicurezza marittima e nella gestione dei rischi in aree ad alta criticità e Stefano Rákos Manager del dipartimento di intelligence di Praesidium International e del progetto M.A.R.E.™.