2019-10-15
La politica è morta. Resta solo un derby tra tecnocrati e multiculturalisti
Nel mondo postmoderno lo Stato è ridotto a fare il poliziotto al servizio del libero mercato e dell'umanitarismo tollerante.Iniziamo con una domanda: cos'è propriamente la politica? La famosa risposta di Schmitt (una situazione sociale che implica l'opposizione tra amico e nemico), radicale come sembra, non è abbastanza radicale in quanto già posiziona l'inerente antagonismo costitutivo del politico nella relazione esterna tra Noi e Loro. Vale a dire, la vera politica è un fenomeno che ha fatto la sua apparizione per la prima volta nell'Antica Grecia quando i membri del demos (quelli privi di posizione all'interno dell'edificio sociale gerarchico) hanno richiesto parola, una voce: contro quelli al potere, al controllo sociale, hanno protestato affermando l'errore di fondo di cui erano vittime, ed hanno voluto che la loro voce venisse ascoltata, e venisse riconosciuta come inclusa nella sfera pubblica– loro, gli esclusi, quelli privi di un posto fisso nell'edificio sociale, paradossalmente hanno così presentato se stessi come rappresentanti per l'intera società, per la vera universalità («Noi – il niente, non incluso nell'ordine sociale – siamo il popolo; siamo tutti contro quelli che sono qui per il loro interesse particolare»). Così il conflitto politico implica la tensione tra lo strutturato corpo sociale, dove ogni componente ha il suo posto, e la controparte che sconvolge quest'ordine sulla base del vuoto principio dell'universalità, di ciò che Étienne Balibar chiama égaliberté, dell'uguaglianza di tutti gli uomini come esseri parlanti. La vera politica così implica sempre una sorta di cortocircuito tra l'Universale ed il Particolare: implica il paradosso di un singolare che appare come artefice dell'Universale, destabilizzando il naturale ordine funzionale delle relazioni nel corpo sociale. La vera lotta politica inoltre non è mai un dibattito razionale tra interessi molteplici ma, simultaneamente, la lotta affinché una voce venga ascoltata e riconosciuta come la voce di un socio/compagno: quando gli esclusi, dal demos greco ai lavoratori polacchi, hanno protestato contro l'élite dominante (l'aristocrazia o la nomenklatura) la vera posta in gioco non erano solo le loro esplicite richieste (per salari più alti, migliori condizioni di lavoro, e così via), ma il loro diritto reale di essere ascoltati e riconosciuti come una componente con pari diritti nel dibattito politico – in Polonia la nomenklatura perse l'attimo in cui avrebbe dovuto riconoscere Solidarnosc come tale... L'intera storia de pensiero politico definitivamente non è nient'altro che una serie di disconoscimenti di questo momento politico, della propria logica dell'antagonismo politico; esistono tre versioni differenti di tale disconoscimento: 1 arche-politica: il tentativo comunitario di definire uno spazio sociale omogeneo, vicino e organicamente strutturato che non permette alcun vuoto in cui possa emergere il momento-evento politico; 2 para-politica: il tentativo di depoliticizzare la politica – si accetta il conflitto politico, ma riformulato come competizione all'interno dello spazio di rappresentanza, trapartiti/agenti riconosciuti, per la (temporanea) occupazione dello spazio del potere esecutivo. Questa para-politica, ovviamente, ha avuto una serie di differenti versioni successive: la principale rottura è quella tra la sua formulazione hobbesiana classica e moderna, che si concentra sulla problematica del contratto sociale, l'alienazione di diritti individuali nel momento dell'emergere del potere sovrano. Le etiche habermasiana o rawlsiana sono forse le ultime vestigia di questa attitudine: il tentativo di de-antagonizzare la politica formulando le regole chiare da venir obbedite in modo che la procedura antagonistica del «litigio» non esploda propriamente nel politico; 3 meta-politica marxista (o socialista-utopica); il conflitto politico è completamente affermato, ma come un teatro delle ombre in cui gli eventi sono messi in atto in un'altra scena (i processi economici); il definitivo obiettivo della vera politica è così la sua auto-cancellazione, la trasformazione dell'amministrazione del popolo in amministrazione di cose all'interno di un totalmente trasparente ordine razionale della volontà collettiva (più precisamente, il marxismo è in questo senso ambiguo, in quanto il vero termine «politica economica» apre lo spazio anche all'azione opposta di introdurre la politica nel cuore pulsante dell'economia: di denunciare il carattere «apolitico» dei processi economici come la suprema illusione ideologica. La lotta di classe non esprime alcune oggettive contraddizioni economiche; è la forma di esistenza reale di questa contraddizione).Come si trova Schmitt rispetto a queste tre versioni di base del disconoscimento del politico? Ben lontano dall'asserire semplicemente la reale dimensione del politico, egli aggiunge la più maliziosa e radicale versione del disconoscimento, ciò che siamo tentati di chiamare ultra-politica: il tentativo di depoliticizzare il conflitto portandolo al suo estremo, per mezzo della diretta militarizzazione della politica. […] Oggi, tuttavia, ci stiamo confrontando con un'altra forma di negazione del politico: la postpolitica postmoderna, che non reprime più meramente il politico, cercando di contenerlo e di pacificare i «ritorni del represso», ma più effettivamente lo preclude, in modo tale che le forme postmoderne di violenza etica, con il loro eccessivo carattere irrazionale, non siano più semplicemente «ritorni del represso», ma, piuttosto, incarnino il caso del precluso (dal simbolico) che, come sappiamo grazie a Lacan, ritorna nel Reale. Nella postpolitica, il conflitto di visioni ideologiche globali incarnato in diversi partiti che competono per il potere, è rimpiazzato da illuminati tecnocrati (economisti, specialisti dell'opinione pubblica...) e multiculturalisti liberali; attraverso un processo di negoziazione degli interessi, un compromesso è raggiunto in guisa di un più o meno universale consenso. Il politico (lo spazio della disputa in cui gli esclusi possono contestare l'errore o l'ingiustizia subita) allora precluso dal simbolico ritorna nel Reale, come nuove forme di razzismo. È fondamentale percepire come il razzismo postmoderno emerga come la definitiva conseguenza della sospensione postpolitica del politico, della riduzione dello Stato a mero agente di polizia al servizio dei bisogni (consensualmente stabiliti) delle forze del mercato e dell'umanitarismo tollerante e multiculturalista: lo «straniero» il cui status non è mai propriamente regolarizzato è il resto indivisibile della trasformazione della lotta politica democratica nella procedura postpolitica di negoziazione e di azione multiculturalista. Al posto del soggetto politico, la classe operaia che rivendica i suoi diritti universali, abbiamo, da un lato, la molteplicità di particolari gruppi o strati sociali, ognuno con i suoi problemi (la diminuzione del bisogno di lavoratori manuali, ecc...) e, dall'altro lato, l'immigrato del quale si cerca di prevenire l'istinto a politicizzare la sua esclusione.
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