2021-11-26
La liceità penale dell’aiuto al suicidio non significa avere il diritto di ottenerlo
Ci devono essere determinate condizioni la cui sussistenza va verificata. Rimane la libera scelta del medico di prestarsi o no.Presidente di sezione a riposodella Corte di cassazioneC'è un grave equivoco di fondo nella maggior parte dei commenti relativi alla vicenda di «Mario» (nome di fantasia) che chiede l'assistenza del Servizio sanitario nazionale per poter porre fine volontariamente alla sua esistenza di malato portatore, da oltre dieci anni, di una patologia irreversibile e totalmente invalidante prodottasi in conseguenza di un incidente stradale. L'equivoco (strumentalmente alimentato dal mainstream del pensiero asseritamente «progressista») è quello che, con la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, dichiarativa della parziale illegittimità costituzionale dell'articolo 580 del codice penale, nella parte in cui prevede come reato la condotta di «aiuto al suicidio», sia stato introdotto nell'ordinamento giuridico il «diritto» dell'aspirante suicida ad ottenere che quell'«aiuto» gli venga effettivamente fornito, se non da un medico o da una struttura sanitaria di sua scelta, quanto meno dal Servizio sanitario nazionale. Nulla di più sbagliato. La Corte costituzionale, infatti, con suddetta sentenza, si è limitata ad escludere la punibilità dell'aiuto al suicidio quando, trattandosi di «persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli», la sussistenza di tali condizioni, come pure le modalità di esecuzione del proposito suicidario, «siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». Alla struttura pubblica, quindi, null'altro può chiedersi se non l'effettuazione di tale verifica, compiuta la quale, sia pure con esito positivo, il suo compito deve ritenersi totalmente esaurito, rimanendo alla libera ed incoercibile scelta di ciascun esercente la professione sanitaria, indipendentemente dal rapporto che egli abbia con la struttura pubblica, di prestarsi o meno a fornire l'«aiuto» richiesto. Chiarissimo, al riguardo, è quanto si legge nella stessa sentenza della Corte costituzionale, ove si afferma: «La presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell'aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato». Nel caso in questione era avvenuto che «Mario» si era rivolto al competente Tribunale civile di Ancona chiedendo che venisse ordinato alla competente Azienda sanitaria della Regione Marche non solo di provvedere a verificare la oggettiva sussistenza delle condizioni indicate nella sentenza della Corte costituzionale per la non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, ma anche di disporre la «prescrizione/ricettazione» di uno specifico farmaco («Tiopentone sodico») da utilizzare, previo acquisto a spese dell'interessato, per produrre la morte. In piena conformità, quindi, a quanto stabilito dalla Corte, il Tribunale ha accolto la prima di tali richiesta mentre ha respinto la seconda, giustamente osservando che, sempre in adesione al «dictum» della Consulta, è da escludere la possibilità di «riconoscere un vero e proprio diritto soggettivo (azionabile in giudizio) a essere assistiti nel suicidio (attraverso la prescrizione/somministrazione di un “farmaco letale") a cui corrisponda, da lato passivo, un obbligo del personale sanitario». A seguito di tale pronuncia, nei giorni scorsi, come ampiamente riferito dai mezzi d'informazione, il comitato etico ha espresso parere favorevole alla riconoscibilità delle condizioni legittimanti l'aiuto al suicidio. Di qui è nato il clamore mediatico. Esso, però, al di là dell'interesse dovuto al fatto che si tratta, in effetti, del primo caso (noto) nel quale un comitato etico sia stato chiamato a pronunciarsi sull'applicabilità, in concreto, della sentenza della Corte costituzionale, non appare oggettivamente giustificato. Da una parte, infatti, non può dirsi che, con l'espressione del parere favorevole del comitato etico, si sia fatto un passo in più sulla via del suicidio assistito rispetto a quanto già previsto e, per così dire, codificato in detta sentenza. Dall'altra non può neppure dirsi che, in presenza di quel parere, sia inaccettabile (come invece si sostiene a gran voce da parte del fronte «progressista») il fatto che «Mario» non abbia finora potuto effettivamente ottenere quell' «aiuto» al quale, erroneamente o fraudolentemente, si cerca di far credere che egli avrebbe avuto diritto. Anzi, a quest'ultimo proposito, deve aggiungersi che anche nel caso in cui la struttura pubblica del Ssn, come previsto dalla Corte costituzionale, desse per verificata, sulla scorta del parere del comitato etico, la sussistenza delle condizioni che, secondo la stessa Corte, renderebbero non punibile l'aiuto al suicidio, non per questo l'esercente la professione sanitaria che effettivamente prestasse un tale aiuto sarebbe automaticamente al riparo dal pericolo di essere ugualmente sottoposto a procedimento penale e, magari, condannato. Il reato di aiuto al suicidio, infatti, come si è visto, non è stato cancellato del tutto dall'ordinamento giuridico ma è stato soltanto reso non punibile quando ricorrano le suddette condizioni. Ne deriva che, dovendo queste ultime equipararsi a una qualsiasi delle altre cause di giustificazione previste dalla legge per ogni tipo di reato, spetta soltanto all'autorità giudiziaria, in ultima analisi, secondo le regole generali, stabilire se esse siano o meno effettivamente sussistenti, senza essere in alcun modo vincolata dalla eventuale, diversa valutazione che, al riguardo, sia stata compiuta dall'autorità sanitaria; ipotesi, quest'ultima, nella quale può tutt'al più (ma non necessariamente) darsi luogo ad assoluzione dell'imputato per mancanza del c.d. «elemento soggettivo» del reato, se e in quanto si ritenga, da parte del giudice penale, che egli non fosse in grado di rendersi conto delle ragioni per le quali, secondo lo stesso giudice, quella stessa valutazione sarebbe da considerare erronea.
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