2019-06-23
L’eterno braccio di ferro
tra Salvini e Di Maio si sposta nelle fabbriche
Una mozione al decreto Crescita chiede al governo di riconsiderare l'assegnazione ad ArcelorMittal della tutela legale che il Mise, invece, vuole togliere. Il tema dell'occupazione diventa un nuovo terreno di scontro. Matteo Salvini: «A luglio invito i sindacati al Viminale».La senatrice grillina Paola Nugnes è in polemica con la linea del Movimento: «Ho dei valori». La fedelissima di Roberto Fico pronta a dare l'addio.Lo speciale contiene due articoli.C'è da scommettere che la prossima settimana le tensioni tra Lega e 5 stelle si sposteranno sull'acciaio. Motivo del contendere è Arcelor Mittal che è subentrato all'Ilva nei siti siderurgici di Taranto (e non solo) e a cui il Movimento guidato da Luigi Di Maio vorrebbe togliere la tutela legale compresa nel contratto firmato dallo stesso ministro del Lavoro meno di un anno fa. La Lega la pensa diversamente. Ritiene che il patto debba essere mantenuto, per il semplice fatto che la copertura legale riguarda gli stabilimenti e la loro messa in sicurezza che non avverrà, nella sua totalità, prima del 2023. Lo scudo legale non significa lasciare che gli angloindiani facciano ciò che vogliono, ma evitare che da ottobre la Procura esamini emissioni, lavori sulle coperture o qualunque altro parametro e decida di mettere i sigilli. Lo scontro tra i due partiti di maggioranza non è solo dialettico, è esploso venerdì sera alla Camera durante la discussione del decreto Crescita, quando l'ordine del giorno a firma Giovanni Vianello (5 stelle) è stato intercettato dalla Lega e stoppato. Salvo poi essere sostituito con una mozione firmata da praticamente tutti gli esponenti del Carroccio con obiettivo opposto. L'articolo 46 del decreto prevede lo stop all'immunità e la mozione notturna chiede al governo di «verificare la coerenza del recente intervento normativo di modifica della disciplina inerente l'Ilva con gli accordi intervenuti in sede di cessione dei compensi aziendali». Non solo, la Lega chiede al governo, e soprattutto al Mise, di fornire «l'impatto degli interventi normativi sulle prospettive di crescita aziendale e di mantenimento dell'attuale livello occupazionale». Lo scontro è stato forte in Aula. Un po' come se i due partiti non partecipassero al medesimo governo. D'altronde le frizioni aumentano al calar del sole e tra i banchi del Parlamento, ma si vedono anche in pieno giorno. «Entro luglio inviterò i sindacati al Viminale, con altri rappresentanti del lavoro, del commercio, dell'impresa e dell'agricoltura per confrontarci e ragionare insieme sulla prossima manovra economica», ha dichiarato ieri alle agenzie Matteo Salvini rispondendo alle sigle sindacali che da Reggio Calabria lo hanno tirato in ballo per criticare il progetto di autonomia. «Manderò a Landini, che evidentemente non la conosce, una copia della proposta sull'autonomia che finalmente porterà merito e responsabilità anche ai politici del Sud», ha aggiunto Salvini consapevole di aver realizzato un raid nel campo dell'alleato grillino in vista dell'incontro di fuoco che si terrà in occasione del Cdm destinato a varare il primo budget anti infrazione. «Sono sicuro che in un anno questo governo abbia fatto di più rispetto ai governi di sinistra per lavoratori e precari», ha aggiunto il leader della Lega parlando a Landini perché Di Maio intenda, ma «con la flat tax per famiglie, lavoratori e imprese faremo ancora di più». Il messaggio cade a 24 ore di distanza dalle osservazione del capo grillino che aveva criticato l'insistenza leghista sulla tassa piatta senza le sottostanti coperture di spesa. La risposta di Di Maio è arrivata a stretto giro di posta. Durante un incontro territoriale a Terni, durante il quale ha sparato a zero su Alessandro Di Battista è tornato su Salvini. «In campagna elettorale i colleghi mi dicevano quello sta in ogni Comune e noi non ci siamo mai», ha esternato Di Maio additando a distanza Salvini. «Certo, poi abbiamo scoperto che usava gli aerei di Stato. Questa roba qua non può essere il nostro modello di riferimento. Se qualcuno pensa che dobbiamo cominciare a fare i voti con quella roba lì, uccidiamo il Movimento». Parole pesanti che preparano la scaletta per la seconda metà di luglio, quando i tempi tecnici non consentiranno più di andare alle elezioni a settembre. A quel punto la prima data utile per il voto sarebbe la prima settimana di marzo 2020 e i grillini sanno che nemmeno alla Lega converrebbe mettersi nelle mani del Colle che si muoverebbe per un governo tecnico. Lega e 5 stelle sarebbero costretti a convivere e Salvini perderebbe l'effetto propulsivo del voto europeo ancora caldo nelle urne e Di Maio potrebbe tornare a fare la voce grossa. Tutto è però scritto sulla sabbia perché i trabocchetti e le insidie sono dietro ogni angolo. Ad esempio, vedremo che effetto produrrà la mozione anti grillina a favore di Arcelor Mittal. In settimana il decreto Crescita approderà al Senato. La mozione non implica alcun automatismo. L'articolo che toglie la tutela legale ai nuovi proprietari di Ilva potrebbe rimanere, ma il Mise sarà tenuto a riferire e allora a quel punto lo scontro politico su Taranto è destinato a emergere e lasciare Palazzo Madama per arrivare fino a Palazzo Chigi. E su questo Di Maio avrebbe pochi elementi per difendersi. Sta violando un accordo che lui stesso ha firmato, rischia di far scappare un investitore e di azzerare migliaia di posti di lavoro: dall'altra parte la Lega inchioderebbe il Movimento alle proprie responsabilità.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-lega-sgambetta-il-m5s-su-ilva-e-lavoro-2638952975.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-addio-pesante-tra-le-fila-grilline-la-nugnes-vicina-a-fico-al-misto" data-post-id="2638952975" data-published-at="1758064039" data-use-pagination="False"> Un addio pesante tra le fila grilline. La Nugnes (vicina a Fico) al Misto Paola Nugnes saluta e se ne va. La senatrice dissidente del M5s non ne può più: dopo un anno passato a criticare dall'interno la stragrande maggioranza delle scelte del governo e del suo stesso partito, è arrivato il momento della separazione. Una separazione che la Nugnes si augura possa essere consensuale, considerato che il M5s ha una regola che prevede, in caso di passaggio a un diverso gruppo parlamentare (nel caso della Nugnes sarebbe il Misto) il pagamento di una penale di 100.000 euro. Una regola, però, in conflitto con la Costituzione, che non prevede il vincolo di mandato, e che quindi la Nugnes sarebbe pronta a impugnare in tutte le sedi, se il M5s decidesse di tentare di trattenerla «con la forza»; del resto, quando lo scorso dicembre il deputato Matteo Dall'Osso è passato dal M5s a Forza Italia, per protestare contro la bocciatura di un suo emendamento sulla disabilità, eminenti costituzionalisti hanno escluso che il parlamentare dovesse pagare la penale. Penale che non è mai stata versata neanche da Marco Affronte, ex europarlamentare che nel 2017 abbandonò il gruppo pentastellato. Ma torniamo alla Nugnes. Ieri mattina, sul suo profilo Facebook, la senatrice napoletana, storicamente vicinissima al presidente della Camera, Roberto Fico, leader dell'ala più ortodossa e di sinistra del M5s, ha scritto: «Se non riuscite a stare insieme, meglio dividervi subito». Segnali troppo chiari per non chiedere alla Nugnes se il momento dell'addio al M5s sia arrivato: «Quando cambiano troppe cose», risponde la Nugnes alla Verità, «è il caso di separarsi, e la separazione consensuale è la strada migliore. Meglio non arrivare alla guerra dei Roses». Non aggiunge altro, la senatrice, ma basta qualche telefonata al suo entourage per capire che l'addio è cosa fatta. «Non si può restare insieme», ha spiegato la Nugnes a chi le ha chiesto cosa stesse accadendo, «quando si è così diversi. Altri possono sperare, come speravo io, che si possa cambiare la situazione. Io perderò di visibilità», ha aggiunto la senatrice, «perché finché faccio una opposizione interna vengo notata, uscendo mi si darà meno attenzione, ma l'opposizione dall'interno va bene finché si fa una volta, due volte, tre volte, poi non funziona più, diventa stucchevole, non me la sento più. Il gruppo Misto? Meglio chiamarli indipendenti, come negli altri Paesi». La Nugnes, già lo scorso novembre, insieme ad altri senatori dissidenti (Elena Fattori, Matteo Mantero e Gregorio De Falco, quest'ultimo poi espulso dal M5s come un altro senatore, Saverio De Bonis) non aveva partecipato al voto di fiducia sul primo decreto Sicurezza. La senatrice partenopea, riferisce chi ha avuto modo di parlarle nelle ultime ore, ha argomentato la sua decisione e ha fornito la sua spiegazione sul perché siano così pochi i dissidenti: «Quelli che più si sono adeguati», ha detto la Nugnes, «al di là del secondo mandato, hanno la speranza concreta di poter restare sempre e comunque in un sistema di potere che assicurerà una collocazione. Poi ci sono quelle come me, che hanno un sistema di valori, che non sono disposte a scendere a patti su concetti come il bene comune, la coerenza, la trasparenza. Il decreto Sicurezza era disgustoso, il decreto Sicurezza due lo è due volte. Abbiamo ottenuto il reddito di cittadinanza? Ok, ma non si può camminare sulla testa delle persone. Facciano il loro lavoro, io voglio fare il mio: è il mio significa anche fare opposizione politica». Con il passaggio all'opposizione di Paola Nugnes, la maggioranza al Senato perde un voto. Il 5 giugno 2018, al primo voto di fiducia, il governo guidato da Giuseppe Conte ottenne 171 voti a favore: 107 del M5s, 58 della Lega e 6 del gruppo misto. La maggioranza assoluta è di 161 senatori.