2019-11-22
La Lamorgese vuole riaprire i porti. Così darà il via libera al caos in Libia
Se il governo consentirà alle Ong di operare liberamente, guardie costiere e forze di sicurezza affronteranno una nuova ondata di criminalità con il traffico di migranti. Abu Bakir, capo tribù: «Ormai ci ammazziamo tra noi».L'obbiettivo del nuovo governo giallorosso è riaprire i porti. La ministra dell'Interno Luciana Lamorgese ha annunciato un nuovo decreto sicurezza in cui verranno tolte le multe fino a un milione di euro e le confische delle navi delle Ong che trasportano i richiedenti d'asilo dalla Libia all'Italia. Intanto, il ruolo italiano in Libia continua a essere sotto attacco. Il 21 novembre le forze armate del generale Khalifa Haftar hanno abbattuto un drone italiano che si trovava nella Libia occidentale per salvaguardare delle piattaforme petrolifere. Proprio a settembre, era stata colpita la sede della compagnia petrolifera nazionale della Libia (Noc), da un comando di ribelli. Se il governo italiano deciderà di lasciare il via libera alle Ong di operare liberamente, le guardie costiere e le forze di sicurezza libiche si ritroveranno a combattere un'altra ondata di criminalità con il traffico di migranti. È uno stato di guerra costante quello in cui si trova la Libia dalla caduta del colonnello Muammar Gheddafi, avvenuta nell'ottobre del 2011. Data la mancanza di sicurezza, il Paese è diventato una rotta per il traffico di migranti che sperano di potere rifarsi una vita migliore in Europa. Ma il fenomeno dell'immigrazione, oltre che essere drammatico per le persone che fuggono, spesso in condizioni disastrose e pagando cifre altissime ai trafficanti, ha conseguenze molto critiche anche per il Paese nordafricano. E se l'Italia decidesse di riaprire i porti, questi problemi rischierebbero di aggravarsi notevolmente. «Non mi piaceva Gheddafi, ma se si guarda a cosa è diventata oggi la Libia, è veramente scioccante come si è evoluta in peggio la situazione», dichiara a La Verità Abu Bakir, figlio del capo di una delle più grandi tribù nel Sud della Libia, i Tebu. «Siamo arrivati al punto di ammazzarci fra di noi: le città combattono contro altre città, le tribù contro altre tribù, e così via». Lo stato quasi anarchico in cui si trova la Libia ha fatto in modo che i trafficanti operino liberamente, aumentando notevolmente la criminalità e rendendo il Paese sempre più instabile. Un aspetto, quest'ultimo, che non viene preso in considerazione da una parte dei politici italiani, che invece è a favore dell'accoglienza. «Nessuno lascerebbe le porte di casa propria spalancate», spiega a La Verità l'Organizzazione di Fezzan in difesa dei diritti civili, che opera nel sud della Libia. «Anche noi vogliamo proteggere i nostri confini dal traffico di armi, di droga e dagli estremisti islamici, che entrano sempre più numerosi nel nostro Paese». L'Italia appoggia il governo di Tripoli, che tuttavia riesce a malapena ad avere il controllo sulla città e che dipende dai finanziamenti del nostro Paese per pagare le milizie, sperando così di ottenere la loro lealtà. Non solo: dall'Italia arriva anche l'addestramento delle guardie costiere libiche, che spesso si scontrano con le organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo, accusate di lavorare con i trafficanti per fare salire i migranti sulle loro navi o di alimentare il business dell'immigrazione. Di conseguenza, se l'Italia riaprisse i porti, ci sarebbe contrasto con le stesse guardie costiere con cui si lavora per fermare le navi e rimpatriare i migranti. Allo stesso tempo, però, sono note le drammatiche condizioni dei migranti una volta che sono rimpatriati nei campi libici, dove vengono torturati e maltrattati. E se il loro numero dovesse aumentare, la Libia diventerebbe una bomba a orologeria. «L'Italia dovrebbe lavorare nel sud della Libia per proteggere i confini libici e fare accordi con gli Stati confinanti affinché i migranti non entrino nel nostro Paese», continua Abu Bakir. «Oltre a questo, si dovrebbe investire nei Paesi da cui provengono per fare in modo che non sentano la necessità di partire». Ma per l'Italia intervenire nel sud del Paese è tutt'altro che facile, essendo questa zona sotto il controllo del governo rivale nell'Est, sotto il controllo dell'esercito di Khalifa Haftar. Questo esercito viene appoggiato dalla Francia, che spera di mantenere i suoi interessi petroliferi nel Paese e che è contraria alla presenza italiana in Libia. «Siamo molto interessati all'aiuto dell'Italia, indipendentemente dalle frizioni con la Francia. Vogliamo solo arrivare a una soluzione di questo grave problema,» dice Bakir. Il business dell'immigrazione è inoltre un danno per molti dei migranti stessi a cui viene venduto un falso sogno dell'Europa dai trafficanti che lucrano sulle loro speranze. Di questo è convinto Mac K. B. Simpson, esperto di immigrazione dal Ghana, nonché migrante egli stesso, autore di tre libri sul tema. «Contrariamente a quello che possiamo pensare in Europa, in molti casi gli africani dell'area subsahariana che decidono di partire non sono poverissimi, ma appartengono alla classe media e possono pagare un viaggio verso l'Europa che ha un costo minimo fra i 1.500 e i 2.000 euro», spiega a La Verità. «È molto triste sapere che tutti quei soldi potrebbero spenderli per migliorare la propria condizione in Africa, e invece vengono impiegati per pagare trafficanti, finendo nei campi libici o italiani,» continua Simpson. Una proposta diversa dall'immigrazione di massa arriva da altri cittadini libici: proteggere i loro confini contro un business che danneggia il loro Paese aumentandone la criminalità e che truffa i migranti stessi a cui vengono date false speranze in Europa. Ma a loro l'establishment mediatico non dà voce.
Beatrice Venezi (Imagoeconomica)