2019-07-15
La grande diaspora dei camici bianchi. Partono per l’estero in 1.000 ogni anno
Sono soprattutto ortopedici, pediatri, ginecologi, anestesisti. Trovano stipendi più elevati e condizioni di lavoro migliori.Tra i medici dell'Unione europea che lasciano il loro Paese per lavorare altrove, gli italiani costituiscono la percentuale più alta: il 52%. Secondo gli ultimi dati della Commissione europea e del Rapporto Eurispes-Enpam, in dieci anni (dal 2005 al 2015), 10.104 dei nostri camici bianchi sono espatriati. Scelgono di farlo in un'età che va dai 28 ai 39 anni, per la maggior parte sono ortopedici, pediatri, ginecologi, anestesisti. Terminata la specializzazione, preferiscono optare per strutture ospedaliere nel Regno Unito (il 33%), Svizzera (26%), Germania, Francia, Belgio, Olanda. Molti scelgono anche gli Emirati Arabi, dove l'offerta lavorativa comprende una retribuzione variabile tra 14.000 e 20.000 euro mensili, includendo abitazione, scuola, assistenza, auto e interprete. L'Anaao, il sindacato dei medici, già lo scorso anno aveva commentato che se «dopo aver passato il test di ingresso al corso di laurea, fatto una sessantina d'esami e l'esame di Stato, arrivi alla specializzazione e ti dicono: “C'è posto solo per la metà di voi"», diventa difficile frenare l'emorragia di medici specializzati. Chi sceglie di andarsene ha creato anche Doctors in fuga, gruppo chiuso su Facebook con quasi 40.000 iscritti. Si scambiano consigli ed esperienze. La decisione di lasciare l'Italia è dettata da motivazioni professionali (prospettive di carriera migliori che in Italia e basate soprattutto sul merito) ed economiche: in molti Paesi esteri la retribuzione è più alta. Se i medici ospedalieri qui prendono da un minimo di 50.000 euro lordi l'anno a un massimo di 65.000 (dati Anaao), nel Regno Unito uno specialista guadagna da 85.000 a 115.000 euro. In Olanda lo stipendio medio è di 75.000 euro. In Germania i dottori guadagnano poco più di 148.000 euro (dati Ocse), ma uno specialista può arrivare a prenderne 200.000. Poi ci sono i laureati che dopo essere costati allo Stato 225 milioni di euro per la formazione, vanno a specializzarsi all'estero e lì rimangono trovando sul posto un impiego a condizioni retributive e organizzative migliori delle nostre. Sono 1.500 ogni anno, per tentare di fermarli la Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo) aveva avviato a maggio una campagna di comunicazione dal titolo «Laureata a Milano, medico a Berlino. Offre l'Italia». Come testimonial due medici che, oltre agli slogan, chiedevano più contratti di formazione. «Oggi abbiamo almeno 10.000 laureati che non chiedono altro che poter essere specializzati», affermava Filippo Anelli, presidente Fnomceo, che invoca più borse di studio e denuncia come «i fondi delle borse abbandonate oggi vanno persi». Andrebbero recuperati. Una clinica a Hagen, in Renania Settentrionale Vestfalia, ha offerto un contratto di 5 anni per diventare specialista con uno stipendio base da minimo 4.402,38 euro. Davide La Regina, direttore del dipartimento di chirurgia all'ospedale di Bellinzona, in Svizzera, lo scorso mese raccontava al Corriere Adriatico di «aver sempre e solo lavorato all'estero», dopo la laurea alla Sapienza di Roma, scegliendo di fare la formazione a Londra. Aggiungeva: «Nel mio reparto lavorano altri 9 medici italiani. E, in media, ricevo 250 richieste di colloquio ogni anno provenienti da colleghi italiani». Da noi, la professione del chirurgo è diventata «pericolosa», almeno 5 chirurghi su 8 subiscono un procedimento giudiziario nello svolgimento della loro attività. I medici italiani trascorrono circa un terzo della loro vita lavorativa tra carte bollate, processi e tribunali e anche se su 35.000 azioni legali intraprese ogni anno da pazienti che denunciano casi di malasanità, il 95% dei casi penali e il 90% di quelli civili si concludono in un nulla di fatto, per chi lavora in ospedale lo stress è inaccettabile. «Nessuno vuole fare più questo mestiere», denunciava a giugno Filippo La Torre, presidente del Collegio italiano dei chirurghi (Cic). «Non lo vogliono fare perché lo considerano di altissimo rischio, magari alti costi di assicurazione, passare moltissimo tempo con gli avvocati e nei tribunali e poi rischiare anche una cosa terribile, quella dell'aggressione fisica nei pronto soccorso, nel territorio in genere, perché manca il rispetto del cosiddetto camice bianco che è colpevolizzabile sistematicamente».
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)
Nel riquadro: Ferdinando Ametrano, ad di CheckSig (IStock)
Francesca Albanese (Ansa)